Carissimi alunni del Toniolo,
ben venuti sul mio blog!
Come prima lezione vi propongo di riflettere su quanto segue:
la nostra cultura è caratterizzata dai seguenti elementi:
- Complessità
- Pluralismo
Essa è condizionata:
- Dall’azione dei maestri del sospetto: Marx, Nietzsche e Freud;
- Dalle cupe previsioni della filosofia, costretta ad avere a che fare sempre più con un materialismo e un pensiero debole dilagante, che favorisce il soggettivismo e il relativismo;
- Dalle cupe previsioni della sociologia che vuol convincere l’uomo contemporaneo della "morte di Dio", dell’"eclissi del sacro", applaudendo alla secolarizzazione galoppante, al processo di massificazione e al tecnicismo che rende l’uomo sempre più gestore di tutto se stesso e della sua storia;
- Dai fallimenti della società industriale, che non sembra aver mantenuto le promesse perché al centro come primo fondamentale criterio ha messo non l’uomo, la dignità della persona umana, ma la produttività;
- Dall’apertura delle porte alla manipolazione, all’angoscia, all’incomunicabilità, all’atrofia dei sentimenti, al degrado ecologico e a una tecnologia disumanizzante;
- Dai fallimenti e gli errori della società consumistica, che rende insoddisfatti e viene s frustrare il bisogno di interiorità e di libertà.
- Dalla ricerca della libertà come arbitrio e illusoria;
- Dalla logica del piacere e del consumo.
Il vostro Prof. di morale P. Carlo Bladini
martedì 20 ottobre 2009
mercoledì 4 marzo 2009
SANT'ALFONSO M. DE' LIGUORI (1696-1787)
Nacque a Napoli nel 1696 e morì a Pagani nel 1787. Si laureò nel 1713 in utroque iure all’università di Napoli. Esercitò l’attività forense fino al 1823, allorché, sconfitto in un clamoroso processo, vestì l’abito ecclesiastico, avviandosi al sacerdozio, che ricevette nel 1726.
Fondò la Congregazione dei Redentoristi. Nel 1762 fu eletto vescovo di Sant’Agata dei Goti. Nel 1775 diede le dimissioni e si ritirò a Pagani tra i suoi figli. E’ dottore della chiesa dal 1871.
La sua produzione letteraria ha avuto una fortuna immensa. Le sue opere principali sono: Pratica di amare Gesù (1768), Teologia morale (1748), Pratica dei confessori (1757), Le glorie di Maria e molto altro.
Egli pone come principio guida della vita cristiana l’universale chiamata alla santità, ognuno nel suo stato. Colui che non nel cuore la voglia di farsi santo non è un buon cristiano.
I mezzi pratici per raggiungere la santità sono: la mortificazione, la pratica sacramentale e l’orazione mentale. Vero dottore pratico vuole soprattutto scuotere e illuminare le coscienze per spingerle all’azione. Propone una religione viva, umana, austera sì, ma senza esagerazioni.
Il sistema elaborato da Sant’Alfonso è l’equiprobabilismo, soluzione saggia, in equilibrio tra il lassismo e il rigorismo. Egli ammette che una legge dubbia non obbliga e si può seguire un’opinione probabile, ma aggiunge che una legge non è veramente dubbia se non quando le opinioni pro e contro abbiano una probabilità sensibilmente uguale.
Il sistema alfonsiano si articola in tre principi:
- Il principio della verità,
- I doveri della coscienza che non può affidarsi ciecamente alle opinioni del moralisti,
- I diritti della libertà umana che può essere vincolata solo da una legge certa.
Sant’Alfonso si sforza di salvare le esigenze della verità, rispettando nel contempo i diritti della coscienza e i principi della libertà umana, tenendo il giusto mezzo, facendosi guidare non da principi astratti, ma da esigenze che nascevano dall’azione pastorale.
L’agire morale si fonda primariamente sulla verità. Il soggetto agente è sempre obbligato a ricercarla. Se non è possibile arrivare ad una certezza assoluta, bisogna almeno cercare di avvicinarsi alla verità il più possibile.
Il soggetto agente non deve agire secondo norme esterne e automatiche, ma deve interiorizzare e personalizzare la legge. La ragione e la coscienza, se agiscono sotto l’influsso della prudenza, diventano norme prossime all’agire.
La libertà della persona è vincolata solo nel caso che una legge particolare, dettata o dalla ragione o dalla rivelazione divina, gli manifesti la volontà di Dio con una certezza o in un modo almeno più probabile (probabilior). Solo allora il soggetto agente deve in coscienza agire sicuramente secondo questa legge.
Tuttavia nell’insieme della morale di Alfonso lo studio delle circostanze concrete prevale sempre sull’applicazione meccanica di un sistema, per quanto giusto questo possa essere.
Gli apporti originali di Alfonso alla Teologia morale sono stati:
- Trasmette il frutto della sua opera missionaria, che consiste nel ribadire, contro il giansenismo, che Cristo è il redentore la cui efficacia redentrice e infinita;
- Esaminando alla luce della ragione e sotto l’illuminazione della prudenza varie opinioni, ha costruito un sistema di principi che è espressione sia delle esigenze del Vangelo, sia quelle della libertà della coscienza umana;
- Per i casi di coscienza espose il suo personale parere, impegnandosi in una ricerca interiore e oggettiva della verità e mettendo a profitto la sua eccezionale acutezza, sapienza e prudenza;
- Ad ogni problema morale seppe dare una risposta sapiente e appropriata, che soprattutto non scoraggiasse i deboli, ma neppure scandalizzasse i ferventi.
L’intento di Alfonso fu quello di formare bravi pastori d’anime, confessori e direttori spirituali, più che elaborare un trattato completo di teologia morale, che tuttavia definiva come la «scienza delle scienze» e «arte delle arti».
Egli ha sottolineato e chiarito aspetti della Teologia morale che non potranno essere mai disattesi. I principali sono:
- Una sapiente preoccupazione pastorale per applicare i principi generali ai casi concreti: la scienza morale benché situata su un piano speculativo e universale, ha lo scopo di regolare azioni singole e concrete;
- E’ necessario un grande equilibrio nel delimitare il lecito dall’illecito: compito al quale la Teologia morale non deve mai rinunciare, perché l’uomo che essa intende condurre alla perfezione e alla santità è pur sempre un peccatore che ha bisogni di essere delimitato.
La grandezza di Alfonso non va ricercata nella forma e organicità del disegno generale, che anzi muta dalle Institutiones morales e cioè:
- La regola degli atti umani,
- I precetti delle virtù teologali,
- I precetti del decalogo e della Chiesa,
- I precetti particolari,
- Il modo di conoscere e discernere i peccati,
- I sacramenti,
- Le censure ecclesiastiche e le irregolarità.
La sua grandezza va ricercata nella profondità e limpidezza del contenuto: in lui si avverte chiaramente l’ispirazione della più pura morale cristiana, cioè una morale intesa come pratica della carità.
La scienza morale deve essere la verità che conduce la persona umana al bene e alla salvezza alla quale è chiamata.
Fondò la Congregazione dei Redentoristi. Nel 1762 fu eletto vescovo di Sant’Agata dei Goti. Nel 1775 diede le dimissioni e si ritirò a Pagani tra i suoi figli. E’ dottore della chiesa dal 1871.
La sua produzione letteraria ha avuto una fortuna immensa. Le sue opere principali sono: Pratica di amare Gesù (1768), Teologia morale (1748), Pratica dei confessori (1757), Le glorie di Maria e molto altro.
Egli pone come principio guida della vita cristiana l’universale chiamata alla santità, ognuno nel suo stato. Colui che non nel cuore la voglia di farsi santo non è un buon cristiano.
I mezzi pratici per raggiungere la santità sono: la mortificazione, la pratica sacramentale e l’orazione mentale. Vero dottore pratico vuole soprattutto scuotere e illuminare le coscienze per spingerle all’azione. Propone una religione viva, umana, austera sì, ma senza esagerazioni.
Il sistema elaborato da Sant’Alfonso è l’equiprobabilismo, soluzione saggia, in equilibrio tra il lassismo e il rigorismo. Egli ammette che una legge dubbia non obbliga e si può seguire un’opinione probabile, ma aggiunge che una legge non è veramente dubbia se non quando le opinioni pro e contro abbiano una probabilità sensibilmente uguale.
Il sistema alfonsiano si articola in tre principi:
- Il principio della verità,
- I doveri della coscienza che non può affidarsi ciecamente alle opinioni del moralisti,
- I diritti della libertà umana che può essere vincolata solo da una legge certa.
Sant’Alfonso si sforza di salvare le esigenze della verità, rispettando nel contempo i diritti della coscienza e i principi della libertà umana, tenendo il giusto mezzo, facendosi guidare non da principi astratti, ma da esigenze che nascevano dall’azione pastorale.
L’agire morale si fonda primariamente sulla verità. Il soggetto agente è sempre obbligato a ricercarla. Se non è possibile arrivare ad una certezza assoluta, bisogna almeno cercare di avvicinarsi alla verità il più possibile.
Il soggetto agente non deve agire secondo norme esterne e automatiche, ma deve interiorizzare e personalizzare la legge. La ragione e la coscienza, se agiscono sotto l’influsso della prudenza, diventano norme prossime all’agire.
La libertà della persona è vincolata solo nel caso che una legge particolare, dettata o dalla ragione o dalla rivelazione divina, gli manifesti la volontà di Dio con una certezza o in un modo almeno più probabile (probabilior). Solo allora il soggetto agente deve in coscienza agire sicuramente secondo questa legge.
Tuttavia nell’insieme della morale di Alfonso lo studio delle circostanze concrete prevale sempre sull’applicazione meccanica di un sistema, per quanto giusto questo possa essere.
Gli apporti originali di Alfonso alla Teologia morale sono stati:
- Trasmette il frutto della sua opera missionaria, che consiste nel ribadire, contro il giansenismo, che Cristo è il redentore la cui efficacia redentrice e infinita;
- Esaminando alla luce della ragione e sotto l’illuminazione della prudenza varie opinioni, ha costruito un sistema di principi che è espressione sia delle esigenze del Vangelo, sia quelle della libertà della coscienza umana;
- Per i casi di coscienza espose il suo personale parere, impegnandosi in una ricerca interiore e oggettiva della verità e mettendo a profitto la sua eccezionale acutezza, sapienza e prudenza;
- Ad ogni problema morale seppe dare una risposta sapiente e appropriata, che soprattutto non scoraggiasse i deboli, ma neppure scandalizzasse i ferventi.
L’intento di Alfonso fu quello di formare bravi pastori d’anime, confessori e direttori spirituali, più che elaborare un trattato completo di teologia morale, che tuttavia definiva come la «scienza delle scienze» e «arte delle arti».
Egli ha sottolineato e chiarito aspetti della Teologia morale che non potranno essere mai disattesi. I principali sono:
- Una sapiente preoccupazione pastorale per applicare i principi generali ai casi concreti: la scienza morale benché situata su un piano speculativo e universale, ha lo scopo di regolare azioni singole e concrete;
- E’ necessario un grande equilibrio nel delimitare il lecito dall’illecito: compito al quale la Teologia morale non deve mai rinunciare, perché l’uomo che essa intende condurre alla perfezione e alla santità è pur sempre un peccatore che ha bisogni di essere delimitato.
La grandezza di Alfonso non va ricercata nella forma e organicità del disegno generale, che anzi muta dalle Institutiones morales e cioè:
- La regola degli atti umani,
- I precetti delle virtù teologali,
- I precetti del decalogo e della Chiesa,
- I precetti particolari,
- Il modo di conoscere e discernere i peccati,
- I sacramenti,
- Le censure ecclesiastiche e le irregolarità.
La sua grandezza va ricercata nella profondità e limpidezza del contenuto: in lui si avverte chiaramente l’ispirazione della più pura morale cristiana, cioè una morale intesa come pratica della carità.
La scienza morale deve essere la verità che conduce la persona umana al bene e alla salvezza alla quale è chiamata.
GUGLIELMO DI OCKHAM (1280-1349)
Nacque a Ockham, piccolo villaggio della periferia di Londra nel 1280 ca. e morì a Monaco di Baviera nel 1349.
Giovanissimo entrò nell’ordine dei francescani. Compì i suoi studi nella celebre università di Oxford. Conseguito il titolo di baccalaureato nel 1318, scrisse un commento al Libro delle Sentenze del Lombardo, dove fu molto critico nei confronti della riflessione teologica precedente.
Queste critiche gli costarono una convocazione nel 1324 ad Avignone per difendersi dall’accusa di eresia. Il processo durò diversi mesi con forti polemiche. Nel 1328 Guglielmo lasciò Avignone scortato da Michele da Cesena, allora ministro generale dell’ordine.
Nella polemica sul potere del Papa e quello dell’Imperatore si schierò a favore dell’Imperatore Ludovico IV, detto il Bavaro (1287-1347).
Perseguitato dalla chiesa si rifugiò presso l’Imperatore a Monaco dove morì di peste.
Fu un valido filosofo e un altrettanto valido teologo. La sua influenza sul pensiero occidentale è enorme e la sua riflessione ha contribuito in modo determinante nell’elaborazione del pensiero moderno. Tutta la riflessione morale successiva è sotto il suo influsso.
Caratteristiche del suo insegnamento sono:
- L’estrema coerenza,
- Un rigore esigente.
Tanto da essere considerato un grande dialettico.
Scrisse: Opera plurima in 4 volumi; Opera politica in 3 volumi; Opera philosophica in 7 volumi; Opera teologica in 10 volumi.
La riflessione di Ockhm è una limpida testimonianza della grave crisi che attraversò il pensiero morale cristiano all’inizio del 1300.
Mette in discussione:
- L’armonia tra fede ragione,
- La relazione tra grazia e libertà,
- La possibilità per la ragione di affrontare e risolvere grandi problemi della metafisica e dell’antropologia.
Presupposti fondamentali della scolastica medioevale.
Con la riflessione di Ockham ebbe inizio «lo spirito laico», perché fece suoi i principi gli ideali della insorgente proclamazione della dignità della uomo, della potenza creativa dell’individuo, della nuova cultura umanistica che il risorgimento farà sua e svilupperà.
Ockham è spirito libero e con grande libertà va alla ricerca di valori autentici come: la verità, la giustizia e il bene comune.
Il punto di partenza della sua riflessione è l’assoluta onnipotenza di Dio. Egli può fare tutto ciò che non è contraddittorio. E’ infinitamente libero, per cui in Lui non vi può essere obbligazione alcuna.
Il suo agire non conosce norme né interne, né esterne, per cui è la causa di ogni obbligo morale, pur trascendendo questa categoria.
Da questa concezione teologica deriva un nuovo modo di intendere la persona umana, specialmente la sua libertà, definita come assenza di ogni obbligazione.
Ockham concepisce l’universo costituito da realtà singole, esistenti sia separatamente, che unite fra loro senza però formare degli assoluti. Dio è un assoluto, ma anche l’uomo lo è. Questi nel momento che esiste non può non esistere, altrimenti verrebbe compromesso il principio di non contraddizione.
Il fatto che l’uomo è libero non dimostrabile con il ragionamento, lo si evince dall’esperienza. La libertà è la possibilità di fare o non fare una cosa , di determinarsi verso una scelta con la volontà.
Si tratta del potere mediante il quale, secondo indifferenza e contingenza, egli può produrre un effetto. Può, cioè, conoscerlo e non conoscerlo senza che vi sia differenza per il potere della volontà. Essere libero vuol dire suprema indifferenza e assoluta spontaneità.
Di fronte alla libertà dell’uomo tutti i possibili oggetti sono sullo stesso piano. Ciò vale anche per Dio, nei confronti del quale non si dà alcun intrinseco e ontologico rimando dall’interno dell’uomo.
L’obbligo morale spetta solo all’uomo perché è essenzialmente contingente, ma anche la morale romane contingente.
Bene e male non sono assoluti, ma realtà contingenti che hanno la loro origine nella volontà di Dio. La bontà e la cattiveria sono termini che non connotano un in se, ma un precetto divino. Essi sottintendono la volontà di Dio.
Il male non altro che: «aliquid facere ad cuius oppositum faciendum aliquis obbligatur».
La norma dell’agire dell’uomo è la volontà di Dio, la quale stabilisce ciò che è male e ciò che è bene. Poste l’assoluta onnipotenza e libertà di Dio, l’intero ordine creato, compresa la legge morale, è completamente contingente.
L’essenza tra il bene e il male non è data dall’arbitrio della volontà di Dio, perché in Dio non c’è distinzione reale tra essenza, intelligenza e volontà. Tutto ciò che Dio vuole, lo vuole con la sua intelligenza infinitamente perfetta. Ne segue che l’obbligo morale ha il suo fondamento ontologico nell’essenza stessa di Dio.
L’uomo con la sola ragione non può conoscere l’ordine morale stabilito da Dio, a meno che non sia Dio stesso a rivelarlo. E Dio lo ha rivelato.
L’ordine morale rivelato è opera della sua potenza ordinata, ma in Dio esiste anche una potenza assoluta la quale potrebbe stabilire altri ordini morali, altrettanto razionale con l’ordine esistente. La volontà di Dio, fondamento dell’obbligo morale, si rende manifesta all’uomo attraverso la legge morale, alla quale l’uomo, libero e responsabile, può obbedire o disobbedire e quindi meritare o demeritare. Senza la libertà non ci potrebbe essere azione lodevole o riprovevole.
Ockham da grande importanza alla libertà di indifferenza, cioè alla libertà di fare o fare il contrario.
L’alternativa morale è tra l’obbedire al comandamento di Dio o obbedire a degli obiettivi scelti dalla propria volontà quali criteri dell’agire.
La morale allora è strettamente congiunta alla religione o meglio alla fede. Infatti la conoscenza della volontà di Dio, cioè la legge, avviene con la rivelazione e con la ragione retta, la quale è consapevole che alcune azioni sono comandate altre proibite. Ciò significa che esiste una legge interiore, la quale ci indica il nostro dovere. Si tratta dell’imperativo categorico o voce di Dio.
La «retta ragione» e i suoi obblighi si impongono direttamente all’uomo. Il primo precetto di detta legge è: è necessario metter in pratica la tal cosa perché è comandata dalla retta ragione, altrimenti l’atto morale sarebbe per lo meno indifferente.
La coscienza in questo contesto si pone come il giudizio che riferisce un atto ad un ordine o ad un divieto divino. Detto giudizio è emesso dalla ragione, ma ha il suo ultimo fondamento nella fede che accoglie la rivelazione della volontà di Dio.
L’insieme dei precetti rivelati da Dio costituisce il diritto naturale, che è assoluto, immutabile e comune a tutti gli uomini. Viene mutuato dal decalogo.
Da detti obblighi scaturiscono i fondamentali diritti umani, che secondo Ockham sono: la libertà e la proprietà. Se l’uomo è libero davanti a Dio ne consegue che è molto più libero davanti all’autorità umana sia politica che religiosa. La libertà è il punto di partenza dell’intera riflessione ackhamista.
Da questo principio sgorga la teoria dei diritti umani. Ma ciò si avvererà in seguito.
Le leggi umane, positive, civili o religiose, non possono essere contrari alla legge di Dio. Il loro ambito riguarda gli atti indifferenti e, quindi, non obbligano in coscienza.
Si può affermare, senza il timore di essere smentiti, che la morale di Ochìkam è di tipo positivo e legalista. Se la moralità consiste nell’obbedienza la legge, è necessario accertarsi che la legge esista.
La morale di Ockham poi si interessa solo degli atti, ne segue che possa disattendere il ruolo della grazia, la quale diviene una condizione esterna all’atto, esigendosi poi per ogni merito la libera accettazione di Dio.
L’aspetto più rilevante della riflessione morale di Ockham è costituito dalla dal fatto che egli nega che il riferimento a Dio sia parte integrante e sostanziale dell’esperienza morale umana. La sua riflessione morale non è più teologica come quella di Tommaso.
Il suo modo di determinare e risolvere il problema morale è in sintonia con la negazione di ogni possibile elaborazione di una teologia naturale. Detta impossibilità costituisce il punto di partenza di ogni riflessione morale.
La riflessione morale di Ockham porta in sé quella «rottura ontologica» fra l’uomo e Dio, che di fatto ha portato al fideismo, al radicale scetticismo e finanche all’ateismo. Determinando quella corrente di pensiero che sostiene che la fondazione morale è sempre più impossibile.
In questo modo possiamo comprendere perché nella definizione di coscienza di Ockham non si fa più riferimento al fine ultimo o alla felicità e si fa riferimento al comandato o al proibito. Essa non viene considerata nel contesto globale della storia della persona, ma come momento a sé stante, il quale si pone tra la libertà e la volontà precettiva o proibente di Dio.
Le virtù vengono considerate come un aiuto per meglio realizzare la decisione liberamente presa e per meglio superare gli ostacoli. Esse vengono collocate al sotto della libertà e perdono il loro valore morale, non essendo più una determinazione decisa nell’agire, essenziale per assicurare la perfezione delle azioni morali e doverle compiere.
Giovanissimo entrò nell’ordine dei francescani. Compì i suoi studi nella celebre università di Oxford. Conseguito il titolo di baccalaureato nel 1318, scrisse un commento al Libro delle Sentenze del Lombardo, dove fu molto critico nei confronti della riflessione teologica precedente.
Queste critiche gli costarono una convocazione nel 1324 ad Avignone per difendersi dall’accusa di eresia. Il processo durò diversi mesi con forti polemiche. Nel 1328 Guglielmo lasciò Avignone scortato da Michele da Cesena, allora ministro generale dell’ordine.
Nella polemica sul potere del Papa e quello dell’Imperatore si schierò a favore dell’Imperatore Ludovico IV, detto il Bavaro (1287-1347).
Perseguitato dalla chiesa si rifugiò presso l’Imperatore a Monaco dove morì di peste.
Fu un valido filosofo e un altrettanto valido teologo. La sua influenza sul pensiero occidentale è enorme e la sua riflessione ha contribuito in modo determinante nell’elaborazione del pensiero moderno. Tutta la riflessione morale successiva è sotto il suo influsso.
Caratteristiche del suo insegnamento sono:
- L’estrema coerenza,
- Un rigore esigente.
Tanto da essere considerato un grande dialettico.
Scrisse: Opera plurima in 4 volumi; Opera politica in 3 volumi; Opera philosophica in 7 volumi; Opera teologica in 10 volumi.
La riflessione di Ockhm è una limpida testimonianza della grave crisi che attraversò il pensiero morale cristiano all’inizio del 1300.
Mette in discussione:
- L’armonia tra fede ragione,
- La relazione tra grazia e libertà,
- La possibilità per la ragione di affrontare e risolvere grandi problemi della metafisica e dell’antropologia.
Presupposti fondamentali della scolastica medioevale.
Con la riflessione di Ockham ebbe inizio «lo spirito laico», perché fece suoi i principi gli ideali della insorgente proclamazione della dignità della uomo, della potenza creativa dell’individuo, della nuova cultura umanistica che il risorgimento farà sua e svilupperà.
Ockham è spirito libero e con grande libertà va alla ricerca di valori autentici come: la verità, la giustizia e il bene comune.
Il punto di partenza della sua riflessione è l’assoluta onnipotenza di Dio. Egli può fare tutto ciò che non è contraddittorio. E’ infinitamente libero, per cui in Lui non vi può essere obbligazione alcuna.
Il suo agire non conosce norme né interne, né esterne, per cui è la causa di ogni obbligo morale, pur trascendendo questa categoria.
Da questa concezione teologica deriva un nuovo modo di intendere la persona umana, specialmente la sua libertà, definita come assenza di ogni obbligazione.
Ockham concepisce l’universo costituito da realtà singole, esistenti sia separatamente, che unite fra loro senza però formare degli assoluti. Dio è un assoluto, ma anche l’uomo lo è. Questi nel momento che esiste non può non esistere, altrimenti verrebbe compromesso il principio di non contraddizione.
Il fatto che l’uomo è libero non dimostrabile con il ragionamento, lo si evince dall’esperienza. La libertà è la possibilità di fare o non fare una cosa , di determinarsi verso una scelta con la volontà.
Si tratta del potere mediante il quale, secondo indifferenza e contingenza, egli può produrre un effetto. Può, cioè, conoscerlo e non conoscerlo senza che vi sia differenza per il potere della volontà. Essere libero vuol dire suprema indifferenza e assoluta spontaneità.
Di fronte alla libertà dell’uomo tutti i possibili oggetti sono sullo stesso piano. Ciò vale anche per Dio, nei confronti del quale non si dà alcun intrinseco e ontologico rimando dall’interno dell’uomo.
L’obbligo morale spetta solo all’uomo perché è essenzialmente contingente, ma anche la morale romane contingente.
Bene e male non sono assoluti, ma realtà contingenti che hanno la loro origine nella volontà di Dio. La bontà e la cattiveria sono termini che non connotano un in se, ma un precetto divino. Essi sottintendono la volontà di Dio.
Il male non altro che: «aliquid facere ad cuius oppositum faciendum aliquis obbligatur».
La norma dell’agire dell’uomo è la volontà di Dio, la quale stabilisce ciò che è male e ciò che è bene. Poste l’assoluta onnipotenza e libertà di Dio, l’intero ordine creato, compresa la legge morale, è completamente contingente.
L’essenza tra il bene e il male non è data dall’arbitrio della volontà di Dio, perché in Dio non c’è distinzione reale tra essenza, intelligenza e volontà. Tutto ciò che Dio vuole, lo vuole con la sua intelligenza infinitamente perfetta. Ne segue che l’obbligo morale ha il suo fondamento ontologico nell’essenza stessa di Dio.
L’uomo con la sola ragione non può conoscere l’ordine morale stabilito da Dio, a meno che non sia Dio stesso a rivelarlo. E Dio lo ha rivelato.
L’ordine morale rivelato è opera della sua potenza ordinata, ma in Dio esiste anche una potenza assoluta la quale potrebbe stabilire altri ordini morali, altrettanto razionale con l’ordine esistente. La volontà di Dio, fondamento dell’obbligo morale, si rende manifesta all’uomo attraverso la legge morale, alla quale l’uomo, libero e responsabile, può obbedire o disobbedire e quindi meritare o demeritare. Senza la libertà non ci potrebbe essere azione lodevole o riprovevole.
Ockham da grande importanza alla libertà di indifferenza, cioè alla libertà di fare o fare il contrario.
L’alternativa morale è tra l’obbedire al comandamento di Dio o obbedire a degli obiettivi scelti dalla propria volontà quali criteri dell’agire.
La morale allora è strettamente congiunta alla religione o meglio alla fede. Infatti la conoscenza della volontà di Dio, cioè la legge, avviene con la rivelazione e con la ragione retta, la quale è consapevole che alcune azioni sono comandate altre proibite. Ciò significa che esiste una legge interiore, la quale ci indica il nostro dovere. Si tratta dell’imperativo categorico o voce di Dio.
La «retta ragione» e i suoi obblighi si impongono direttamente all’uomo. Il primo precetto di detta legge è: è necessario metter in pratica la tal cosa perché è comandata dalla retta ragione, altrimenti l’atto morale sarebbe per lo meno indifferente.
La coscienza in questo contesto si pone come il giudizio che riferisce un atto ad un ordine o ad un divieto divino. Detto giudizio è emesso dalla ragione, ma ha il suo ultimo fondamento nella fede che accoglie la rivelazione della volontà di Dio.
L’insieme dei precetti rivelati da Dio costituisce il diritto naturale, che è assoluto, immutabile e comune a tutti gli uomini. Viene mutuato dal decalogo.
Da detti obblighi scaturiscono i fondamentali diritti umani, che secondo Ockham sono: la libertà e la proprietà. Se l’uomo è libero davanti a Dio ne consegue che è molto più libero davanti all’autorità umana sia politica che religiosa. La libertà è il punto di partenza dell’intera riflessione ackhamista.
Da questo principio sgorga la teoria dei diritti umani. Ma ciò si avvererà in seguito.
Le leggi umane, positive, civili o religiose, non possono essere contrari alla legge di Dio. Il loro ambito riguarda gli atti indifferenti e, quindi, non obbligano in coscienza.
Si può affermare, senza il timore di essere smentiti, che la morale di Ochìkam è di tipo positivo e legalista. Se la moralità consiste nell’obbedienza la legge, è necessario accertarsi che la legge esista.
La morale di Ockham poi si interessa solo degli atti, ne segue che possa disattendere il ruolo della grazia, la quale diviene una condizione esterna all’atto, esigendosi poi per ogni merito la libera accettazione di Dio.
L’aspetto più rilevante della riflessione morale di Ockham è costituito dalla dal fatto che egli nega che il riferimento a Dio sia parte integrante e sostanziale dell’esperienza morale umana. La sua riflessione morale non è più teologica come quella di Tommaso.
Il suo modo di determinare e risolvere il problema morale è in sintonia con la negazione di ogni possibile elaborazione di una teologia naturale. Detta impossibilità costituisce il punto di partenza di ogni riflessione morale.
La riflessione morale di Ockham porta in sé quella «rottura ontologica» fra l’uomo e Dio, che di fatto ha portato al fideismo, al radicale scetticismo e finanche all’ateismo. Determinando quella corrente di pensiero che sostiene che la fondazione morale è sempre più impossibile.
In questo modo possiamo comprendere perché nella definizione di coscienza di Ockham non si fa più riferimento al fine ultimo o alla felicità e si fa riferimento al comandato o al proibito. Essa non viene considerata nel contesto globale della storia della persona, ma come momento a sé stante, il quale si pone tra la libertà e la volontà precettiva o proibente di Dio.
Le virtù vengono considerate come un aiuto per meglio realizzare la decisione liberamente presa e per meglio superare gli ostacoli. Esse vengono collocate al sotto della libertà e perdono il loro valore morale, non essendo più una determinazione decisa nell’agire, essenziale per assicurare la perfezione delle azioni morali e doverle compiere.
mercoledì 25 febbraio 2009
TOMMASO D'AQUINO (1224-1274) seconda parte
L’uomo, come creatura razionale, partecipa del piano della divina provvidenza.
Partecipazione: è una categoria fondamentale nel discorso morale di Tommaso. Essa è decisiva per capire la natura umana. Infatti l’uomo, in quanto essere capace di autodominio (per se potestativum), non si inerisce nel piano divino in maniera solo esecutiva, non secondo una conformazione automatica alla lex aeterna, ma secondo il suo libero orientamento al bene.
Detta partecipazione si realizza in due modi: nella legge naturale e nella legge dello Spirito.
La prima e fondamentale partecipazione alla legge eterna avviene attraverso l’obbedienza alla legge naturale, in forza della quale la persona diviene consapevole della sua radicale vocazione.
Essa è il sigillo di Dio in noi, che è carico di promesse e responsabilità. Non è una imposizione dall’esterno, ma è iscritta nel più profondo della natura umana.
Nucleo essenziale della legge naturale è il precetto: «fa il bene ed evita il male» (bonum facendum et malum vitandum).
La legge naturale, in quanto partecipazione formale alla legge eterna, si distingue dal diritto naturale, che ne è una semplice partecipazione materiale.
Questa distinzione porta Tommaso a superare i limiti della tradizione precedente: sostenendo che l’uomo, obbedendo alla legge naturale, si realizza pienamente nella storia e attraverso la storia.
La legge umana costituisce il diritto positivo, la legge promulgata dall’uomo in vista del bene comune.
La seconda partecipazione avviene per mezzo del dono dello Spirito (lex Spiritus): per mezzo di essa l’uomo può con efficacia tendere a realizzare pienamente il progetto di Dio.
La legge dello spirito o la legge nuova del Vangelo è una legge interiore, infusa nel cuore del fedele, che ha come elemento costitutivo il dono dello Spirito Santo con la sua grazia.
Essa è luce, ma anche forza che permette al fedele di realizzare ciò che lo Spirito gli fa capire, cioè la sua vocazione.
In virtù di detta duplice partecipazione, il credente è reso capace di cooperare al progetto di Dio. Detta capacità passa attraverso il giudizio della coscienza, che si definisce come partecipazione della verità umana a quella divina, della conoscenza umana a quella divina.
La coscienza è la terza categoria fondamentale della riflessione morale di Tommaso.
La sua dignità consiste nel fatto che essa è elemento insostituibile della persona umana alla realizzazione del progetto di Dio. Per Tommaso solo l’atto che è emesso dall’interiore principio conoscitivo, cioè l coscienza, è personale.
Il fondamento della dottrina di Tommaso sulla coscienza è:
- La partecipazione,
- Il modo con cui questa si realizza nella soggetto.
Ne segue che il giudizio di coscienza è criterio irrinunciabile dell’agire umano, tuttavia non è norma assoluta.
Non sono criteri morali decisivi né l’efficacia storica, né ragioni ideali e astoriche.
A questo punto si può dire che per Tommaso i due elementi fondamentali dell’elaborazione morale sono la legge e la grazia.
L’uomo trova le regole dell’agire morale nella propria natura razionale, sia:
- come persona,
- come membro di una famiglia
- come essere sociale.
Le leggi umane, poi, precisano i principi generali della legge naturale.
La ragione deve stimolare l’ingegno umano affinché produca i complementi e i supplementi utili alla natura umana.
Alla produzione degli atti umani concorrono diversi principi, che sono interni ed esterni.
I principi interni, che aiutano le facoltà a rendere più facile e perfetta la produzione degli atti, vengono definiti da Tommaso "abiti", che ha il senso di qualità operative, inteso in senso lato:
- abiti buoni son le virtù alle quali sono legati i doni,
- abiti cattivi sono i vizi che si oppongono alle virtù.
La virtù è un abito operativo buono e principio esclusivo di bene. Vi sono virtù teologali o infuse e quelle cardinali o morali. Inoltre ci sono le virtù intellettuali speculative, le quali tendono a perfezionare la mente perché possa apprendere la verità. Esse sono: intelligenza, scienza, sapienza e prudenza.
Tommaso articola la teologia morale sulle virtù teologali (fede, speranza e carità) e su quelle cardinali (fortezza, temperanza e giustizia) tra le quali la prudenza ha un ruolo molto importante.
L’Aquinate ha senz’altro mutuato da Aristotele molti elementi della sua elaborazione morale, per esempio l’adozione dello schema delle quattro virtù cardinali, ma li trasforma facendo derivare la sua vitalità dai doni dello Spirito Santo.
Tuttavia l’assunzione dello schema delle virtù cardinali ha impedito a Tommaso di sviluppare adeguatamente le virtù della religione e dell’umiltà, fondamentali per l’uomo redento.
L’esistenza cristiana, in quanto ha come legge propria la legge dello Spirito di vita in Cristo, va considerata non come obbedienza a dei precetti, ma come attuazione delle potenze interiori che essa ha e che sono le virtù.
Esse sono mezzi per l’autorealizzazione umana, orientamenti verso la perfezione morale in senso teologico.
Oltre agli abiti virtuosi, che fanno tendere l’uomo al bene, ci sono gli abiti cattivi, i vizi (orgoglio, cupidigia, vanagloria, invidia, collera, avarizia, accidia, gola e lussuria), che lo distolgono dal bene. Essi, secondo Tommaso sono le principali cause del peccato.
Agostino così definiva il peccato: «est aliquid factum, vel dictum, vel concupitum contra legem eternam». Tommaso ne raccoglie l’eredità. Li distingue però in peccati veniali e mortali.
Misura della perfezione è la carità afferma Tommaso. Tutte le altre virtù sono necessarie alla perfezione, ma non ne sono costitutive come la carità, che ha la caratteristica di unire a Dio. Essa è la più importante di tutte le virtù e senza di essa non v’è vita virtuosa.
Si può allora affermare senza timore di essere smentiti che il criterio ultimo e definitivo è l’acquisizione progressiva della carità. Alla sua acquisizione concorrono: la grazia, i sacramenti, la devozione a Cristo, la preghiera.
La morale di Tommaso è l’elaborazione più completa che sia stata mai tentata.
Partecipazione: è una categoria fondamentale nel discorso morale di Tommaso. Essa è decisiva per capire la natura umana. Infatti l’uomo, in quanto essere capace di autodominio (per se potestativum), non si inerisce nel piano divino in maniera solo esecutiva, non secondo una conformazione automatica alla lex aeterna, ma secondo il suo libero orientamento al bene.
Detta partecipazione si realizza in due modi: nella legge naturale e nella legge dello Spirito.
La prima e fondamentale partecipazione alla legge eterna avviene attraverso l’obbedienza alla legge naturale, in forza della quale la persona diviene consapevole della sua radicale vocazione.
Essa è il sigillo di Dio in noi, che è carico di promesse e responsabilità. Non è una imposizione dall’esterno, ma è iscritta nel più profondo della natura umana.
Nucleo essenziale della legge naturale è il precetto: «fa il bene ed evita il male» (bonum facendum et malum vitandum).
La legge naturale, in quanto partecipazione formale alla legge eterna, si distingue dal diritto naturale, che ne è una semplice partecipazione materiale.
Questa distinzione porta Tommaso a superare i limiti della tradizione precedente: sostenendo che l’uomo, obbedendo alla legge naturale, si realizza pienamente nella storia e attraverso la storia.
La legge umana costituisce il diritto positivo, la legge promulgata dall’uomo in vista del bene comune.
La seconda partecipazione avviene per mezzo del dono dello Spirito (lex Spiritus): per mezzo di essa l’uomo può con efficacia tendere a realizzare pienamente il progetto di Dio.
La legge dello spirito o la legge nuova del Vangelo è una legge interiore, infusa nel cuore del fedele, che ha come elemento costitutivo il dono dello Spirito Santo con la sua grazia.
Essa è luce, ma anche forza che permette al fedele di realizzare ciò che lo Spirito gli fa capire, cioè la sua vocazione.
In virtù di detta duplice partecipazione, il credente è reso capace di cooperare al progetto di Dio. Detta capacità passa attraverso il giudizio della coscienza, che si definisce come partecipazione della verità umana a quella divina, della conoscenza umana a quella divina.
La coscienza è la terza categoria fondamentale della riflessione morale di Tommaso.
La sua dignità consiste nel fatto che essa è elemento insostituibile della persona umana alla realizzazione del progetto di Dio. Per Tommaso solo l’atto che è emesso dall’interiore principio conoscitivo, cioè l coscienza, è personale.
Il fondamento della dottrina di Tommaso sulla coscienza è:
- La partecipazione,
- Il modo con cui questa si realizza nella soggetto.
Ne segue che il giudizio di coscienza è criterio irrinunciabile dell’agire umano, tuttavia non è norma assoluta.
Non sono criteri morali decisivi né l’efficacia storica, né ragioni ideali e astoriche.
A questo punto si può dire che per Tommaso i due elementi fondamentali dell’elaborazione morale sono la legge e la grazia.
L’uomo trova le regole dell’agire morale nella propria natura razionale, sia:
- come persona,
- come membro di una famiglia
- come essere sociale.
Le leggi umane, poi, precisano i principi generali della legge naturale.
La ragione deve stimolare l’ingegno umano affinché produca i complementi e i supplementi utili alla natura umana.
Alla produzione degli atti umani concorrono diversi principi, che sono interni ed esterni.
I principi interni, che aiutano le facoltà a rendere più facile e perfetta la produzione degli atti, vengono definiti da Tommaso "abiti", che ha il senso di qualità operative, inteso in senso lato:
- abiti buoni son le virtù alle quali sono legati i doni,
- abiti cattivi sono i vizi che si oppongono alle virtù.
La virtù è un abito operativo buono e principio esclusivo di bene. Vi sono virtù teologali o infuse e quelle cardinali o morali. Inoltre ci sono le virtù intellettuali speculative, le quali tendono a perfezionare la mente perché possa apprendere la verità. Esse sono: intelligenza, scienza, sapienza e prudenza.
Tommaso articola la teologia morale sulle virtù teologali (fede, speranza e carità) e su quelle cardinali (fortezza, temperanza e giustizia) tra le quali la prudenza ha un ruolo molto importante.
L’Aquinate ha senz’altro mutuato da Aristotele molti elementi della sua elaborazione morale, per esempio l’adozione dello schema delle quattro virtù cardinali, ma li trasforma facendo derivare la sua vitalità dai doni dello Spirito Santo.
Tuttavia l’assunzione dello schema delle virtù cardinali ha impedito a Tommaso di sviluppare adeguatamente le virtù della religione e dell’umiltà, fondamentali per l’uomo redento.
L’esistenza cristiana, in quanto ha come legge propria la legge dello Spirito di vita in Cristo, va considerata non come obbedienza a dei precetti, ma come attuazione delle potenze interiori che essa ha e che sono le virtù.
Esse sono mezzi per l’autorealizzazione umana, orientamenti verso la perfezione morale in senso teologico.
Oltre agli abiti virtuosi, che fanno tendere l’uomo al bene, ci sono gli abiti cattivi, i vizi (orgoglio, cupidigia, vanagloria, invidia, collera, avarizia, accidia, gola e lussuria), che lo distolgono dal bene. Essi, secondo Tommaso sono le principali cause del peccato.
Agostino così definiva il peccato: «est aliquid factum, vel dictum, vel concupitum contra legem eternam». Tommaso ne raccoglie l’eredità. Li distingue però in peccati veniali e mortali.
Misura della perfezione è la carità afferma Tommaso. Tutte le altre virtù sono necessarie alla perfezione, ma non ne sono costitutive come la carità, che ha la caratteristica di unire a Dio. Essa è la più importante di tutte le virtù e senza di essa non v’è vita virtuosa.
Si può allora affermare senza timore di essere smentiti che il criterio ultimo e definitivo è l’acquisizione progressiva della carità. Alla sua acquisizione concorrono: la grazia, i sacramenti, la devozione a Cristo, la preghiera.
La morale di Tommaso è l’elaborazione più completa che sia stata mai tentata.
TOMMASO D'AQUINO (1224-1274) prima parte
Nacque a Roccasecca di Aquino (FR) nel 1224 e morì a Fossanova (LT) nel 1274.Compì i primi studi nel monastero di Montecassino. Li perfezionò a Napoli nello studio generale dei domenicani.
Entrò nell’ordine nel 1244 e nel 1245 fu mandato a compiere gli studi filosofici e teologici prima Parigi e poi a Colonia dove ebbe come maestro Sant’Alberto Magno. Nel 1252 iniziò l’insegnamento a Parigi prima come baccalaureato e poi come magister. Dal 1257 fu aggregato al corpo accademico dell’università la Sorbona.
Nel 1260 dovette lasciare l’insegnamento per divenire segretario di Urbano IV prima e Clemente IV poi. Dal 1268 al 1272 tornò ad insegnare a Parigi che lasciò definitivamente per prendere la direzione dello studio generale di Napoli. Invitato da Gregorio X al Concilio di Lione, morì a Fossanova (LT) mentre era in viaggio nel 1274. Fu proclamato dottore della chiesa nel 1567.
Trasmise la sua dottrina in varie opere: Commentari alla Sacra Scrittura, Commentari filosofici, Commentario alle Sentenze, De malo, De virtutibus, De veritate, Summa contra gentes, Summa Theologiae. Tommaso fu un autore fecondissimo.
Tommaso fu un grande filosofo, ma soprattutto fu teologo. Nel Commento alle Sentenze sostiene che la teologia ha un carattere eminentemente speculativo, ha cioè come fine la contemplazione della verità. Questo lo sostiene contro la scuola francescana e contro il suo maestro Alberto Magno.
Certamente la teologia è anche pratica, perché la Sacra Scrittura, fonte primaria del suo studio, offre numerosi insegnamenti che riguardano i comportamenti pratici. L’aspetto pratico deve lo stesso essere trattato con metodo speculativo.
Il concetto di teologia introdotto da Tommaso è essenziale per la elaborazione di una dottrina morale cristiana, fondata sui principi dedotti della rivelazione, organizzato sul carattere scientifico della teologia nel suo insieme. L’Angelico sviluppa questi principi nella Summa Theologiae.
La Summa è l’opera più riuscita e rappresentativa dell’intero pensiero di Tommaso. Di carattere espressamente teologico, redatta in epoca matura, si pone come testo di introduzione degli studenti alla teologia.
Un trattato di teologia deve occuparsi di Dio: come essere in sé e come principio delle cose; come bene, cioè come fine ultimo delle creature, come via in Cristo per ricondurre a sé l’uomo decaduto.
La Summa contiene una trattazione che regola la vita morale di estensione pari agli altri trattati, si pone come contributo originale rispetto agli altri contributo teologici del tempo.
La distinzione del tema morale dal resto della teologia viene spiegata nel prologo della "prima secundae", dove si da una definizione di uomo estremamente originale e importante: «l’uomo e creato ad immagine di Dio, intelligente, libero e avente potere sui propri atti (per se potestativum)».
Tommaso, dopo aver trattato di Dio e delle sue prerogative, passa a parlare dell’uomo, considerato capace di essere principio del suo agire.
Dell’uomo e dell’antropologia, l’Angelico aveva già parlato nella Prima parte (qq. 75-102), aveva, cioè, parlato dell’uomo così come è stato creato da Dio. Nella Seconda parte si descrive come l’uomo deve farsi mediante i propri atti.
Il grande spazio all’esposizione del tema morale, all’agire dell’uomo e alla sua valutazione, e le varie spiegazioni concettuali che vengono dedotte, non toglie all’insieme l’aspetto speculativo. In altre parole Tommaso ha prodotto un grande sforzo teorico per dare al sapere cristiano i connotati della scienza, non si è limitato a ripetere quando già affermato dalle "auctoritates".
Tuttavia in Tommaso prevale sempre l’attenzione alle auctoritates rispetto alle esigenze speculative, ciò perché viene posto maggiore attenzione all’autorità della fede rispetto all’autorità dell’intelletto.
La riflessione di Tommaso come il pensiero scolastico procede con la proposta delle cose note, cioè dalle affermazioni autorevoli (auctoritates), per cercare di pervenire ad una fruttuosa sintesi.
Questo è lo schema della trattazione della riflessione morale di Tommaso. Prima secundae: dopo aver trattato del fine o della beatitudine (beatitudo) al quale tende ogni uomo (qq. 1-5), si passa a trattare degli atti mediante i quali viene perseguito il fine. Gli atti umani in se stessi: sono quegli atti volontari propri dell’uomo, la loro psicologia e la moralità (qq. 6-21) e gli atti comuni con gli animali o istinti. Si passa a parlare delle passioni (qq. 22-48) e i principi degli atti umani, che sono: interiori (gli abiti buoni o virtù e doni e cattivi o vizi e peccati) (49-89), esteriori: la legge e la grazia (90-114), che hanno origine fuori dall’uomo, ma influiscono sul suo agire.
Nella Seconda parte si tratta degli atti particolari: gli atti comuni a tutti gli uomini (le virtù teologali (qq 1-46) e quelle delle virtù cardinali (47-170) e gli atti propri di alcune persone (171-170).
La morale di Tommaso è una morale della virtù e dei doni e non dei doveri, degli obblighi e dei peccati.
Come abbiamo già affermato, l’elaborazione morale di Tommaso è essenzialmente teologica, perché si iscrive nel suo generale discorso su Dio. E’ teocentrica.
Essa si inscrive nello schema dell’exitus delle creatura da Dio e del reditus delle creature a Dio. Il reditus è il ritornare all’origine della creazione attraverso l’agire umano. E’ in questa verità che l’agire morale, che ha il suo punto di partenza nella creazione, trova il suo spessore.
L’uomo, creato ad immagine di Dio e reso capace di gestire i propri atti, deve realizzare al meglio il suo orientamento a Dio in Gesù Cristo.
Se la realtà morale costituisce la realtà dell’uomo in cammino verso Dio, ne segue che il fine è la categoria fondamentale della riflessione morale dell’aquinate. Infatti il trattato sul fine è il fulcro dell’intero sistema morale del dottore angelico.
L’aver collocato il trattato sul fine all’inizio delle due sezioni in cui è divisa la Seconda parte si tratta di una profonda intuizione, vuol dire che la beatitudine è il principio necessario e immutabile che funge da norma ad ogni azione concreta e costituisce il fondamento scientifico di dette azioni.
Tutto l’agire acquista senso e valore perché fa riferimento al fine. E’ il fine che specifica gli atti: sia come umani che come morali.
L’uomo realizza la sua vocazione nella storia e nel mondo ed è responsabile con Dio e gli altri dell’attuazione del disegno fondamentale che ha la sua realizzazione nel tempo, ma che trascende il tempo.
Come ogni creatura, l’uomo ha un fine, il suo bene, da realizzare, perché così ha voluto Dio nella creazione. Ne segue che egli ha un progetto stabilito da Dio da portare a realizzazione con la sua libera attività.
Il progetto per tutti è costituito dalla legge eterna di Dio di cui l’uomo è reso partecipe. La legge eterna costituisce il piano razionale di Dio, l’ordine dell’universo attraverso cui la divina sapienza dirige tutte le cose al loro fine.
Entrò nell’ordine nel 1244 e nel 1245 fu mandato a compiere gli studi filosofici e teologici prima Parigi e poi a Colonia dove ebbe come maestro Sant’Alberto Magno. Nel 1252 iniziò l’insegnamento a Parigi prima come baccalaureato e poi come magister. Dal 1257 fu aggregato al corpo accademico dell’università la Sorbona.
Nel 1260 dovette lasciare l’insegnamento per divenire segretario di Urbano IV prima e Clemente IV poi. Dal 1268 al 1272 tornò ad insegnare a Parigi che lasciò definitivamente per prendere la direzione dello studio generale di Napoli. Invitato da Gregorio X al Concilio di Lione, morì a Fossanova (LT) mentre era in viaggio nel 1274. Fu proclamato dottore della chiesa nel 1567.
Trasmise la sua dottrina in varie opere: Commentari alla Sacra Scrittura, Commentari filosofici, Commentario alle Sentenze, De malo, De virtutibus, De veritate, Summa contra gentes, Summa Theologiae. Tommaso fu un autore fecondissimo.
Tommaso fu un grande filosofo, ma soprattutto fu teologo. Nel Commento alle Sentenze sostiene che la teologia ha un carattere eminentemente speculativo, ha cioè come fine la contemplazione della verità. Questo lo sostiene contro la scuola francescana e contro il suo maestro Alberto Magno.
Certamente la teologia è anche pratica, perché la Sacra Scrittura, fonte primaria del suo studio, offre numerosi insegnamenti che riguardano i comportamenti pratici. L’aspetto pratico deve lo stesso essere trattato con metodo speculativo.
Il concetto di teologia introdotto da Tommaso è essenziale per la elaborazione di una dottrina morale cristiana, fondata sui principi dedotti della rivelazione, organizzato sul carattere scientifico della teologia nel suo insieme. L’Angelico sviluppa questi principi nella Summa Theologiae.
La Summa è l’opera più riuscita e rappresentativa dell’intero pensiero di Tommaso. Di carattere espressamente teologico, redatta in epoca matura, si pone come testo di introduzione degli studenti alla teologia.
Un trattato di teologia deve occuparsi di Dio: come essere in sé e come principio delle cose; come bene, cioè come fine ultimo delle creature, come via in Cristo per ricondurre a sé l’uomo decaduto.
La Summa contiene una trattazione che regola la vita morale di estensione pari agli altri trattati, si pone come contributo originale rispetto agli altri contributo teologici del tempo.
La distinzione del tema morale dal resto della teologia viene spiegata nel prologo della "prima secundae", dove si da una definizione di uomo estremamente originale e importante: «l’uomo e creato ad immagine di Dio, intelligente, libero e avente potere sui propri atti (per se potestativum)».
Tommaso, dopo aver trattato di Dio e delle sue prerogative, passa a parlare dell’uomo, considerato capace di essere principio del suo agire.
Dell’uomo e dell’antropologia, l’Angelico aveva già parlato nella Prima parte (qq. 75-102), aveva, cioè, parlato dell’uomo così come è stato creato da Dio. Nella Seconda parte si descrive come l’uomo deve farsi mediante i propri atti.
Il grande spazio all’esposizione del tema morale, all’agire dell’uomo e alla sua valutazione, e le varie spiegazioni concettuali che vengono dedotte, non toglie all’insieme l’aspetto speculativo. In altre parole Tommaso ha prodotto un grande sforzo teorico per dare al sapere cristiano i connotati della scienza, non si è limitato a ripetere quando già affermato dalle "auctoritates".
Tuttavia in Tommaso prevale sempre l’attenzione alle auctoritates rispetto alle esigenze speculative, ciò perché viene posto maggiore attenzione all’autorità della fede rispetto all’autorità dell’intelletto.
La riflessione di Tommaso come il pensiero scolastico procede con la proposta delle cose note, cioè dalle affermazioni autorevoli (auctoritates), per cercare di pervenire ad una fruttuosa sintesi.
Questo è lo schema della trattazione della riflessione morale di Tommaso. Prima secundae: dopo aver trattato del fine o della beatitudine (beatitudo) al quale tende ogni uomo (qq. 1-5), si passa a trattare degli atti mediante i quali viene perseguito il fine. Gli atti umani in se stessi: sono quegli atti volontari propri dell’uomo, la loro psicologia e la moralità (qq. 6-21) e gli atti comuni con gli animali o istinti. Si passa a parlare delle passioni (qq. 22-48) e i principi degli atti umani, che sono: interiori (gli abiti buoni o virtù e doni e cattivi o vizi e peccati) (49-89), esteriori: la legge e la grazia (90-114), che hanno origine fuori dall’uomo, ma influiscono sul suo agire.
Nella Seconda parte si tratta degli atti particolari: gli atti comuni a tutti gli uomini (le virtù teologali (qq 1-46) e quelle delle virtù cardinali (47-170) e gli atti propri di alcune persone (171-170).
La morale di Tommaso è una morale della virtù e dei doni e non dei doveri, degli obblighi e dei peccati.
Come abbiamo già affermato, l’elaborazione morale di Tommaso è essenzialmente teologica, perché si iscrive nel suo generale discorso su Dio. E’ teocentrica.
Essa si inscrive nello schema dell’exitus delle creatura da Dio e del reditus delle creature a Dio. Il reditus è il ritornare all’origine della creazione attraverso l’agire umano. E’ in questa verità che l’agire morale, che ha il suo punto di partenza nella creazione, trova il suo spessore.
L’uomo, creato ad immagine di Dio e reso capace di gestire i propri atti, deve realizzare al meglio il suo orientamento a Dio in Gesù Cristo.
Se la realtà morale costituisce la realtà dell’uomo in cammino verso Dio, ne segue che il fine è la categoria fondamentale della riflessione morale dell’aquinate. Infatti il trattato sul fine è il fulcro dell’intero sistema morale del dottore angelico.
L’aver collocato il trattato sul fine all’inizio delle due sezioni in cui è divisa la Seconda parte si tratta di una profonda intuizione, vuol dire che la beatitudine è il principio necessario e immutabile che funge da norma ad ogni azione concreta e costituisce il fondamento scientifico di dette azioni.
Tutto l’agire acquista senso e valore perché fa riferimento al fine. E’ il fine che specifica gli atti: sia come umani che come morali.
L’uomo realizza la sua vocazione nella storia e nel mondo ed è responsabile con Dio e gli altri dell’attuazione del disegno fondamentale che ha la sua realizzazione nel tempo, ma che trascende il tempo.
Come ogni creatura, l’uomo ha un fine, il suo bene, da realizzare, perché così ha voluto Dio nella creazione. Ne segue che egli ha un progetto stabilito da Dio da portare a realizzazione con la sua libera attività.
Il progetto per tutti è costituito dalla legge eterna di Dio di cui l’uomo è reso partecipe. La legge eterna costituisce il piano razionale di Dio, l’ordine dell’universo attraverso cui la divina sapienza dirige tutte le cose al loro fine.
San Bonaventura da Bagnoreggio (1218-1274)
Nacque a Bagnoreggio (VT) nel 1218 e morì a Lione nel 1274. Al battesimo fu chiamato Giovanni e siccome il suo papà si chiamava Fidanza fu chiamato Giovanni di Fidanza. Nel 1243 entrò nell’ordine dei francescani assumendo il nome di Bonaventura. Compì i suoi studi teologici a Parigi dove ebbe come maestro Alessandro di Hales. Nel 1248 iniziò l’insegnamento come baccalaureato e nel 1254 fu promosso magister. Non ottenne mai la cattedra universitaria per l’opposizione dei maestri laici contro i religiosi. Anche San Tommaso si troverà coinvolto nello stesso problema. Nel 1257 vi fu un intervento della santa Sede che dipanò la questione. Nello stesso anno Bonaventura fu eletto maestro generale dell’ordine e non poté mai occupare la cattedra alla Sorbona. Nel 1273 fu nominato vescovo di Albano e cardinale. E’ dottore della chiesa dal 1588.
Bonaventura ha composto molte opere di indole filosofica, teologica, esegetica, ascetica e oratoria. Quelle teologiche precedono quelle ascetico-mistiche. La sua esegesi è ancora informata allo stile platonico agostiniano, pur riservando largo spazio alle nuove acquisizione e soprattutto all’aristotelismo, che però rifiuta come sistema.
Scrisse: un Commento alle sentenze, il Breviloquium, Itinerario della mente a Dio, Itinerario della mente in se stesso e la Triplice via. In quest’ultima opera propone le celebri tre vie: la purgativa, la illuminativa e l’unitiva, intese non come a sé stanti e successive, ma componenti sincroniche del movimento verso Dio.
Egli non assegna un posto distinto alle considerazioni morali, ma le espone seguendo sia l’ordine del Lombardo che quello di A. di Hales.
Bonaventura fa un uso limitato delle categorie filosofiche ed è restio a far uso della morale dei filosofi. Egli esalta il primato della teologia sulla filosofia e ne dichiara la sua ancillarità, ritenendo che la ragione non è in grado di produrre una metafisica adeguata se la filosofia non è illuminata dalla luce della fede. La fede nella verità rivelata deve essere all’origine di ogni speculazione filosofica. Egli dimostra che tutte le scienze, le arti e soprattutto la filosofia, hanno bisogno dell’aiuto teologia per raggiungere la loro perfezione.
Per Bonaventuta il problema morale si riduce al cammino della mente in Dio, ne consegue che ogni discorso teologico è anche etico, perché la cosa più importante è che compiamo il bene.
Pertanto non accettando la divisione della teologia in speculativa e pratica, rifiuta l’elaborazione di una teologia morale distinta entro l’universale sapere teologico. In questo si dissocia dal maestro di Hales il quale nella sua Summa sosteneva il contrario.
Il maestro francescano sostiene l’idea che la teologia abbia una funzione prevalentemente affettiva e spirituale e sia una conoscenza che spinge all’amore, perché ha per fine di renderci più buoni. Questo principio ha il merito indiscutibile di difendere con forza l’unità del sapere teologico.
La teologia morale , come tutta la teologia ha lo scopo di portare alla santità. Tale impostazione non permette a Bonaventura di considerare l’agire cristiano come oggetto di uno studio speculativo e scientifico, impedendogli l’elaborazione di una teologia morale come scienza dell’agire.
Per il dottore serafico il punto di partenza di ogni riflessione teologica e sempre e solo Cristo (cristocentrismo), Verbo di Dio, fonte di tutte le scienze e supremo esemplare. Cristo è anche centro della vita morale. Ne segue che il suo insegnamento e la sua vita sono il fondamento e la norma ermeneutica dell’agire morale.
Ogni creatura viene da Dio e può ritornare a Dio seguendo gli esempi di Cristo. Dio è il principio movente, la regola dirigente e il fine che da quiete non solo di ogni essere, ma di ogni atto.
Ne segue che l’agire e retto se è: a Deo, secundum Deum e ad Deum!
Dio è il fine verso cui tende la nostra volontà informata dalla carità, assolutamente necessaria perché l’azione possa essere buona e meritoria. L’uomo, immagine di Dio, deve agire conformemente alla carità e alla volontà di Dio che si manifesta nella legge naturale. Le azioni quotidiane che non sono informate alla carità sono moralmente indifferenti.
Tutto l’insegnamento di Bonaventura è informato alla tradizione agostiniana e alla spiritualità francescana.
Di fronte al pericolo di un dualismo di pensiero cristiano insito nella scoperta dell’aristotelismo, egli ha inteso salvare l’ideale cristiano di un sapere unico, innestato attraverso la fede nella scienza divina, in una unità non confusa, ma organicamente ordinata
La spiritualità francescana, poi, lo aiutava a considerare i singoli momenti del sapere come progressive tappe verso la piena unione con Dio, che avviene solo nell’amore.
E’ vero che l’atto morale esige la partecipazione della ragione, che cerca la norma morale nei principi innati della legge naturale, espressione della legge eterna, ma il cammino dell’uomo verso Dio non si può collocare sul solo piano intellettuale: richiede anche l’apporto della volontà illuminata dalla luce divina. E’ grazie a questa illuminazione che ogni giudizio razionale e ogni scelta libera vengono intrinsecamente ordinati e diretti al fine rappresentato dai valori assoluti dell’Essere, come verità e come bene.
Non solo l’intelligenza viene illuminata da Dio, ma anche la volontà è intrinsecamente inclinata verso il bene. Si tratta della sinderesi che, illuminata da Dio, guida il giudizio della coscienza a conformare le singole scelte al Bene sommo.
La volontà, che gode del libero arbitrio, è la facoltà che si determina da se stessa in vista della gloria di Dio, oltre il bene semplicemente naturale.
L’agire morale, secondo Bonaventura, dipende molto dalle virtù, che definisce come inclinazioni permanenti della volontà ad agire rettamente. Le virtù sono realtà naturali se non interviene la grazia di Dio con le relative virtù infuse o teologali. Queste ultime hanno il potere:
- di favorire lo sviluppo delle abitudini virtuose,
- di sopraelevare le virtù naturali esistenti,
- di comunicare la possibilità di compiere opere perfette.
Sotto l’influsso della grazia, le virtù illuminano l’anima e la conducono verso Dio. I doni dello Spirito Santo a loro volta perfezionano le virtù. Alla perfezione, poi, si giunge per gradi, purgante, illuminante e perfettiva. Al di là di tutto c’è la vita contemplativa.
Le fede dispone alla carità, la speranza dona la confidenza in Dio. Le virtù cardinali, invece, sono mezzi che permettono all’uomo di agire secondo le esigenze della carità. La giustizia regola i rapporti interpersonali.
In conclusione si può affermare che Bonaventura concepisce Dio come causa ultima di tutte le cose, le quali sono ordinate intrinsecamente a Lui. L’uomo, immagine di Dio, raggiunge la pienezza di senso nel pieno possesso di Dio.
L’uomo è costitutivamente in possesso del desiderio della beatitudine soprannaturale, ma che non può raggiungere con la sola natura e ha quindi bisogno della grazia. L’esperienza cristiana raggiunge la sua pienezza quando lo Spirito Santo, con il dono della sapienza, unisce l’anima a Dio.
Si può affermare che per Bonaventura la vita morale coincide con l’esperienza mistica. L’esperienza morale raggiunge la sua pienezza di senso quando l'affettività dell’uomo viene trasformata in Dio. La vita morale allora coincide con la imitazione mistica di Cristo.
La profonda unità tra teologia e vita, tra sapienza del cuore e della mente, tra teologia morale e mistica, fanno assurgere la riflessione teologica di Bonaventura a una sintesi completa della vita.
I punti chiave della sintesi teologica di Bonventura sono:
- l’esemplarismo cristologico,
- il primato della carità,
- il volontarismo.
I suoi successori Duns Scoto (1264-1308) e Guglielmo di Ockham (1280-1349) portarono quest’ultimo elemento alle estreme conseguenze.
Bonaventura ha composto molte opere di indole filosofica, teologica, esegetica, ascetica e oratoria. Quelle teologiche precedono quelle ascetico-mistiche. La sua esegesi è ancora informata allo stile platonico agostiniano, pur riservando largo spazio alle nuove acquisizione e soprattutto all’aristotelismo, che però rifiuta come sistema.
Scrisse: un Commento alle sentenze, il Breviloquium, Itinerario della mente a Dio, Itinerario della mente in se stesso e la Triplice via. In quest’ultima opera propone le celebri tre vie: la purgativa, la illuminativa e l’unitiva, intese non come a sé stanti e successive, ma componenti sincroniche del movimento verso Dio.
Egli non assegna un posto distinto alle considerazioni morali, ma le espone seguendo sia l’ordine del Lombardo che quello di A. di Hales.
Bonaventura fa un uso limitato delle categorie filosofiche ed è restio a far uso della morale dei filosofi. Egli esalta il primato della teologia sulla filosofia e ne dichiara la sua ancillarità, ritenendo che la ragione non è in grado di produrre una metafisica adeguata se la filosofia non è illuminata dalla luce della fede. La fede nella verità rivelata deve essere all’origine di ogni speculazione filosofica. Egli dimostra che tutte le scienze, le arti e soprattutto la filosofia, hanno bisogno dell’aiuto teologia per raggiungere la loro perfezione.
Per Bonaventuta il problema morale si riduce al cammino della mente in Dio, ne consegue che ogni discorso teologico è anche etico, perché la cosa più importante è che compiamo il bene.
Pertanto non accettando la divisione della teologia in speculativa e pratica, rifiuta l’elaborazione di una teologia morale distinta entro l’universale sapere teologico. In questo si dissocia dal maestro di Hales il quale nella sua Summa sosteneva il contrario.
Il maestro francescano sostiene l’idea che la teologia abbia una funzione prevalentemente affettiva e spirituale e sia una conoscenza che spinge all’amore, perché ha per fine di renderci più buoni. Questo principio ha il merito indiscutibile di difendere con forza l’unità del sapere teologico.
La teologia morale , come tutta la teologia ha lo scopo di portare alla santità. Tale impostazione non permette a Bonaventura di considerare l’agire cristiano come oggetto di uno studio speculativo e scientifico, impedendogli l’elaborazione di una teologia morale come scienza dell’agire.
Per il dottore serafico il punto di partenza di ogni riflessione teologica e sempre e solo Cristo (cristocentrismo), Verbo di Dio, fonte di tutte le scienze e supremo esemplare. Cristo è anche centro della vita morale. Ne segue che il suo insegnamento e la sua vita sono il fondamento e la norma ermeneutica dell’agire morale.
Ogni creatura viene da Dio e può ritornare a Dio seguendo gli esempi di Cristo. Dio è il principio movente, la regola dirigente e il fine che da quiete non solo di ogni essere, ma di ogni atto.
Ne segue che l’agire e retto se è: a Deo, secundum Deum e ad Deum!
Dio è il fine verso cui tende la nostra volontà informata dalla carità, assolutamente necessaria perché l’azione possa essere buona e meritoria. L’uomo, immagine di Dio, deve agire conformemente alla carità e alla volontà di Dio che si manifesta nella legge naturale. Le azioni quotidiane che non sono informate alla carità sono moralmente indifferenti.
Tutto l’insegnamento di Bonaventura è informato alla tradizione agostiniana e alla spiritualità francescana.
Di fronte al pericolo di un dualismo di pensiero cristiano insito nella scoperta dell’aristotelismo, egli ha inteso salvare l’ideale cristiano di un sapere unico, innestato attraverso la fede nella scienza divina, in una unità non confusa, ma organicamente ordinata
La spiritualità francescana, poi, lo aiutava a considerare i singoli momenti del sapere come progressive tappe verso la piena unione con Dio, che avviene solo nell’amore.
E’ vero che l’atto morale esige la partecipazione della ragione, che cerca la norma morale nei principi innati della legge naturale, espressione della legge eterna, ma il cammino dell’uomo verso Dio non si può collocare sul solo piano intellettuale: richiede anche l’apporto della volontà illuminata dalla luce divina. E’ grazie a questa illuminazione che ogni giudizio razionale e ogni scelta libera vengono intrinsecamente ordinati e diretti al fine rappresentato dai valori assoluti dell’Essere, come verità e come bene.
Non solo l’intelligenza viene illuminata da Dio, ma anche la volontà è intrinsecamente inclinata verso il bene. Si tratta della sinderesi che, illuminata da Dio, guida il giudizio della coscienza a conformare le singole scelte al Bene sommo.
La volontà, che gode del libero arbitrio, è la facoltà che si determina da se stessa in vista della gloria di Dio, oltre il bene semplicemente naturale.
L’agire morale, secondo Bonaventura, dipende molto dalle virtù, che definisce come inclinazioni permanenti della volontà ad agire rettamente. Le virtù sono realtà naturali se non interviene la grazia di Dio con le relative virtù infuse o teologali. Queste ultime hanno il potere:
- di favorire lo sviluppo delle abitudini virtuose,
- di sopraelevare le virtù naturali esistenti,
- di comunicare la possibilità di compiere opere perfette.
Sotto l’influsso della grazia, le virtù illuminano l’anima e la conducono verso Dio. I doni dello Spirito Santo a loro volta perfezionano le virtù. Alla perfezione, poi, si giunge per gradi, purgante, illuminante e perfettiva. Al di là di tutto c’è la vita contemplativa.
Le fede dispone alla carità, la speranza dona la confidenza in Dio. Le virtù cardinali, invece, sono mezzi che permettono all’uomo di agire secondo le esigenze della carità. La giustizia regola i rapporti interpersonali.
In conclusione si può affermare che Bonaventura concepisce Dio come causa ultima di tutte le cose, le quali sono ordinate intrinsecamente a Lui. L’uomo, immagine di Dio, raggiunge la pienezza di senso nel pieno possesso di Dio.
L’uomo è costitutivamente in possesso del desiderio della beatitudine soprannaturale, ma che non può raggiungere con la sola natura e ha quindi bisogno della grazia. L’esperienza cristiana raggiunge la sua pienezza quando lo Spirito Santo, con il dono della sapienza, unisce l’anima a Dio.
Si può affermare che per Bonaventura la vita morale coincide con l’esperienza mistica. L’esperienza morale raggiunge la sua pienezza di senso quando l'affettività dell’uomo viene trasformata in Dio. La vita morale allora coincide con la imitazione mistica di Cristo.
La profonda unità tra teologia e vita, tra sapienza del cuore e della mente, tra teologia morale e mistica, fanno assurgere la riflessione teologica di Bonaventura a una sintesi completa della vita.
I punti chiave della sintesi teologica di Bonventura sono:
- l’esemplarismo cristologico,
- il primato della carità,
- il volontarismo.
I suoi successori Duns Scoto (1264-1308) e Guglielmo di Ockham (1280-1349) portarono quest’ultimo elemento alle estreme conseguenze.
PIETRO ABELARDO (1079-1142)
Il personaggio più rappresentativo della scuola urbana è senz’altro Abelardo. Nacque a Le Pallet vicino Nantes nel 1079 e morì a Chalon sur Saon nel 1142. Fu un vero girovago tanto da essere definito "peripateticus palatinus".
Ebbe come maestri a Tours il nominalista Roscellino e a Parigi Guglielmo di Champeaux . Fu così critico dei suoi maestri tanto da ripudiarli. Per rimediare ai loro errori aprì una scuola a Parigi nel 1108 sulle colline di Santa Genoveffa, nonostante l’opposizione del maestro Guglielmo.
Frequentò, poi, per alcuni anni la scuola di Anselmo di Laon (1150- 1117), poi nel 1113 tornò a Parigi per insegnare al posto di Guglielmo che nel frattempo si era ritirato a San Vittore.
In questo periodo si innamora di Eloisa, sua discepola e nel 1116 la sposa clandestinamente suscitando la reazione scomposta di Fulberto, zio di Eloisa. Questa fu costretta a farsi monaca nel monastero di clausura di Argenteuil, Abelardo nel 1118 riparò prima a S. Denis, dove scrisse il suo trattato sulla Trinità, che fu condannato si istigazione di Bernardo dal sinodo di Soissons nel 1121.
Nonostante le sue disavventure ebbe sempre alle sue lezioni un gran numero di alunni!
Nel 1140 fu condannato dal Concilio di Sens e venne accolto a Cluny da Pietro il Venerabile il quale lo preparò a riconciliarsi con Bernardo suo principale rivale e con la chiesa.
La sua vita ci è nota dall’autobiografia dal titolo "Historia calamitatum mearum".
Abelardo ha esercitato sui posteri una enorme influenza!
Egli insegna che la teologia non deve limitarsi a commentare la Sacra Scrittura, ma deve utilizzare la dialettica che aiuta lo spirito umano a comprendere la fede e a dialogare con i filosofi.
Questo principio lo mise in contrasto con le scuole monastiche e soprattutto con Bernardo.
Nel secondo libro della Theologia christiana fa un’appassionata apologia dei filosofi. Nel Dialogo sostiene che l’etica pagana è così perfetta che gli autori cristiani non devono avere nessun timore di assumerla nella riflessione morale cristiana. Anch’essa, infatti, indica in che consiste il supremo bene e come conseguirlo.
Non ci si deve meravigliare se Abelardo tratta i problemi morali con il rigore logico del ragionamento.
E’ seguace di Agostino, ma non crede alla specificità della morale cristiana, pur mantenendone l’autonomia, suddividendola in fides, caritas et sacramentum.
Nel capitolo sulla carità tratta sia delle virtù teologali che quelle morali o cardinali. Sostituisce la prudenza con la scienza e la considera virtù naturale e non data dalla grazia o infusa.
Nel trattato di Etica, opera filosofica, nega una morale troppo oggettiva, cioè accentuando troppo l’elemento materiale e disattendendo le condizioni psicologiche.
Abelardo insegna l’importanza del fattore personale, dell’intenzione e della responsabilità. L’elaborazione della sua morale è rigorosamente basata sull’intenzione.
Con la tesi dell’intenzione Abelardo intende correggere forme di oggettivismo morale presenti nella cultura del tempo che tendevano a ridurre l’agire umano alla semplice esteriorità, al materialismo morale presente nei libri penitenziali. Il passaggio dalla moralità dell’atto alla qualità dell’intenzione provocò vivaci reazioni.
Privilegiando l’intenzione si andava a negare la possibilità di compiere atti intrinsecamente cattivi. Fu soprattutto Bernardo a polemizzare con Abelardo. Si trattava di mantenere un difficile equilibrio tra coscienza e legge, fra rettitudine di intenzione e norma oggettiva.
Secondo Abelardo ciò che determina il bene e il male è l’intenzione, il consenso, la coscienza. L’agire non può essere considerato per se stesso virtuoso o peccaminoso, lo diventa secondo l’intenzione.
Questo principio porta Abelardo a rendere autonoma la coscienza da leggi morali oggettive. Egli pone, inoltre, il problema del peccato spostandolo nel rapporto intimo con Dio. Distingue tra peccato propriamente detto, vizio dell’anima e azione cattiva. Il vizio dell’anima consiste nell’inclinazione ad acconsentire a ciò che è proibito o vietato. Solo il consenso intenzionale costituisce il peccato che è il non fare ciò che si deve fare.
L’azione cattiva è quella fatta ma non voluta o preterintenzionale. Il pericolo consiste nella possibilità che ognuno possa farsi una legge universale ed eterna.
Per Abelardo la regola immanente e assoluta della moralità è costituta dalla coscienza individuale, una specie di soggettivismo morale, Se la moralità di un atto è essenzialmente interiore, la regola della moralità è data dall’adeguamento dell’atto alla legge di Dio. Il problema è la conoscibilità di tale legge.
L’elaborazione morale che dopo Agostino si era sviluppata sul rapporto tra legge e storia, ponendo l’interiorità come luogo in cui tale rapporto viene posto in maniera corretta o sbagliata, entrò nella riflessione medioevale attraverso Anselmo e Abelardo diventando il vero problema morale e cioè: il soggetto è chiamato ad operare la mediazione tra bene-legge-storia, collocandosi in modo cosciente e libero nell’ordine morale.
In questo periodo vengono non caso elaborati i primi trattati sulla coscienza.
Ebbe come maestri a Tours il nominalista Roscellino e a Parigi Guglielmo di Champeaux . Fu così critico dei suoi maestri tanto da ripudiarli. Per rimediare ai loro errori aprì una scuola a Parigi nel 1108 sulle colline di Santa Genoveffa, nonostante l’opposizione del maestro Guglielmo.
Frequentò, poi, per alcuni anni la scuola di Anselmo di Laon (1150- 1117), poi nel 1113 tornò a Parigi per insegnare al posto di Guglielmo che nel frattempo si era ritirato a San Vittore.
In questo periodo si innamora di Eloisa, sua discepola e nel 1116 la sposa clandestinamente suscitando la reazione scomposta di Fulberto, zio di Eloisa. Questa fu costretta a farsi monaca nel monastero di clausura di Argenteuil, Abelardo nel 1118 riparò prima a S. Denis, dove scrisse il suo trattato sulla Trinità, che fu condannato si istigazione di Bernardo dal sinodo di Soissons nel 1121.
Nonostante le sue disavventure ebbe sempre alle sue lezioni un gran numero di alunni!
Nel 1140 fu condannato dal Concilio di Sens e venne accolto a Cluny da Pietro il Venerabile il quale lo preparò a riconciliarsi con Bernardo suo principale rivale e con la chiesa.
La sua vita ci è nota dall’autobiografia dal titolo "Historia calamitatum mearum".
Abelardo ha esercitato sui posteri una enorme influenza!
Egli insegna che la teologia non deve limitarsi a commentare la Sacra Scrittura, ma deve utilizzare la dialettica che aiuta lo spirito umano a comprendere la fede e a dialogare con i filosofi.
Questo principio lo mise in contrasto con le scuole monastiche e soprattutto con Bernardo.
Nel secondo libro della Theologia christiana fa un’appassionata apologia dei filosofi. Nel Dialogo sostiene che l’etica pagana è così perfetta che gli autori cristiani non devono avere nessun timore di assumerla nella riflessione morale cristiana. Anch’essa, infatti, indica in che consiste il supremo bene e come conseguirlo.
Non ci si deve meravigliare se Abelardo tratta i problemi morali con il rigore logico del ragionamento.
E’ seguace di Agostino, ma non crede alla specificità della morale cristiana, pur mantenendone l’autonomia, suddividendola in fides, caritas et sacramentum.
Nel capitolo sulla carità tratta sia delle virtù teologali che quelle morali o cardinali. Sostituisce la prudenza con la scienza e la considera virtù naturale e non data dalla grazia o infusa.
Nel trattato di Etica, opera filosofica, nega una morale troppo oggettiva, cioè accentuando troppo l’elemento materiale e disattendendo le condizioni psicologiche.
Abelardo insegna l’importanza del fattore personale, dell’intenzione e della responsabilità. L’elaborazione della sua morale è rigorosamente basata sull’intenzione.
Con la tesi dell’intenzione Abelardo intende correggere forme di oggettivismo morale presenti nella cultura del tempo che tendevano a ridurre l’agire umano alla semplice esteriorità, al materialismo morale presente nei libri penitenziali. Il passaggio dalla moralità dell’atto alla qualità dell’intenzione provocò vivaci reazioni.
Privilegiando l’intenzione si andava a negare la possibilità di compiere atti intrinsecamente cattivi. Fu soprattutto Bernardo a polemizzare con Abelardo. Si trattava di mantenere un difficile equilibrio tra coscienza e legge, fra rettitudine di intenzione e norma oggettiva.
Secondo Abelardo ciò che determina il bene e il male è l’intenzione, il consenso, la coscienza. L’agire non può essere considerato per se stesso virtuoso o peccaminoso, lo diventa secondo l’intenzione.
Questo principio porta Abelardo a rendere autonoma la coscienza da leggi morali oggettive. Egli pone, inoltre, il problema del peccato spostandolo nel rapporto intimo con Dio. Distingue tra peccato propriamente detto, vizio dell’anima e azione cattiva. Il vizio dell’anima consiste nell’inclinazione ad acconsentire a ciò che è proibito o vietato. Solo il consenso intenzionale costituisce il peccato che è il non fare ciò che si deve fare.
L’azione cattiva è quella fatta ma non voluta o preterintenzionale. Il pericolo consiste nella possibilità che ognuno possa farsi una legge universale ed eterna.
Per Abelardo la regola immanente e assoluta della moralità è costituta dalla coscienza individuale, una specie di soggettivismo morale, Se la moralità di un atto è essenzialmente interiore, la regola della moralità è data dall’adeguamento dell’atto alla legge di Dio. Il problema è la conoscibilità di tale legge.
L’elaborazione morale che dopo Agostino si era sviluppata sul rapporto tra legge e storia, ponendo l’interiorità come luogo in cui tale rapporto viene posto in maniera corretta o sbagliata, entrò nella riflessione medioevale attraverso Anselmo e Abelardo diventando il vero problema morale e cioè: il soggetto è chiamato ad operare la mediazione tra bene-legge-storia, collocandosi in modo cosciente e libero nell’ordine morale.
In questo periodo vengono non caso elaborati i primi trattati sulla coscienza.
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