mercoledì 25 febbraio 2009

TOMMASO D'AQUINO (1224-1274) seconda parte

L’uomo, come creatura razionale, partecipa del piano della divina provvidenza.
Partecipazione: è una categoria fondamentale nel discorso morale di Tommaso. Essa è decisiva per capire la natura umana. Infatti l’uomo, in quanto essere capace di autodominio (per se potestativum), non si inerisce nel piano divino in maniera solo esecutiva, non secondo una conformazione automatica alla lex aeterna, ma secondo il suo libero orientamento al bene.
Detta partecipazione si realizza in due modi: nella legge naturale e nella legge dello Spirito.
La prima e fondamentale partecipazione alla legge eterna avviene attraverso l’obbedienza alla legge naturale, in forza della quale la persona diviene consapevole della sua radicale vocazione.
Essa è il sigillo di Dio in noi, che è carico di promesse e responsabilità. Non è una imposizione dall’esterno, ma è iscritta nel più profondo della natura umana.
Nucleo essenziale della legge naturale è il precetto: «fa il bene ed evita il male» (bonum facendum et malum vitandum).
La legge naturale, in quanto partecipazione formale alla legge eterna, si distingue dal diritto naturale, che ne è una semplice partecipazione materiale.
Questa distinzione porta Tommaso a superare i limiti della tradizione precedente: sostenendo che l’uomo, obbedendo alla legge naturale, si realizza pienamente nella storia e attraverso la storia.
La legge umana costituisce il diritto positivo, la legge promulgata dall’uomo in vista del bene comune.
La seconda partecipazione avviene per mezzo del dono dello Spirito (lex Spiritus): per mezzo di essa l’uomo può con efficacia tendere a realizzare pienamente il progetto di Dio.
La legge dello spirito o la legge nuova del Vangelo è una legge interiore, infusa nel cuore del fedele, che ha come elemento costitutivo il dono dello Spirito Santo con la sua grazia.
Essa è luce, ma anche forza che permette al fedele di realizzare ciò che lo Spirito gli fa capire, cioè la sua vocazione.
In virtù di detta duplice partecipazione, il credente è reso capace di cooperare al progetto di Dio. Detta capacità passa attraverso il giudizio della coscienza, che si definisce come partecipazione della verità umana a quella divina, della conoscenza umana a quella divina.
La coscienza è la terza categoria fondamentale della riflessione morale di Tommaso.
La sua dignità consiste nel fatto che essa è elemento insostituibile della persona umana alla realizzazione del progetto di Dio. Per Tommaso solo l’atto che è emesso dall’interiore principio conoscitivo, cioè l coscienza, è personale.
Il fondamento della dottrina di Tommaso sulla coscienza è:
- La partecipazione,
- Il modo con cui questa si realizza nella soggetto.
Ne segue che il giudizio di coscienza è criterio irrinunciabile dell’agire umano, tuttavia non è norma assoluta.
Non sono criteri morali decisivi né l’efficacia storica, né ragioni ideali e astoriche.
A questo punto si può dire che per Tommaso i due elementi fondamentali dell’elaborazione morale sono la legge e la grazia.
L’uomo trova le regole dell’agire morale nella propria natura razionale, sia:
- come persona,
- come membro di una famiglia
- come essere sociale.
Le leggi umane, poi, precisano i principi generali della legge naturale.
La ragione deve stimolare l’ingegno umano affinché produca i complementi e i supplementi utili alla natura umana.
Alla produzione degli atti umani concorrono diversi principi, che sono interni ed esterni.
I principi interni, che aiutano le facoltà a rendere più facile e perfetta la produzione degli atti, vengono definiti da Tommaso "abiti", che ha il senso di qualità operative, inteso in senso lato:
- abiti buoni son le virtù alle quali sono legati i doni,
- abiti cattivi sono i vizi che si oppongono alle virtù.
La virtù è un abito operativo buono e principio esclusivo di bene. Vi sono virtù teologali o infuse e quelle cardinali o morali. Inoltre ci sono le virtù intellettuali speculative, le quali tendono a perfezionare la mente perché possa apprendere la verità. Esse sono: intelligenza, scienza, sapienza e prudenza.
Tommaso articola la teologia morale sulle virtù teologali (fede, speranza e carità) e su quelle cardinali (fortezza, temperanza e giustizia) tra le quali la prudenza ha un ruolo molto importante.
L’Aquinate ha senz’altro mutuato da Aristotele molti elementi della sua elaborazione morale, per esempio l’adozione dello schema delle quattro virtù cardinali, ma li trasforma facendo derivare la sua vitalità dai doni dello Spirito Santo.
Tuttavia l’assunzione dello schema delle virtù cardinali ha impedito a Tommaso di sviluppare adeguatamente le virtù della religione e dell’umiltà, fondamentali per l’uomo redento.
L’esistenza cristiana, in quanto ha come legge propria la legge dello Spirito di vita in Cristo, va considerata non come obbedienza a dei precetti, ma come attuazione delle potenze interiori che essa ha e che sono le virtù.
Esse sono mezzi per l’autorealizzazione umana, orientamenti verso la perfezione morale in senso teologico.
Oltre agli abiti virtuosi, che fanno tendere l’uomo al bene, ci sono gli abiti cattivi, i vizi (orgoglio, cupidigia, vanagloria, invidia, collera, avarizia, accidia, gola e lussuria), che lo distolgono dal bene. Essi, secondo Tommaso sono le principali cause del peccato.
Agostino così definiva il peccato: «est aliquid factum, vel dictum, vel concupitum contra legem eternam». Tommaso ne raccoglie l’eredità. Li distingue però in peccati veniali e mortali.
Misura della perfezione è la carità afferma Tommaso. Tutte le altre virtù sono necessarie alla perfezione, ma non ne sono costitutive come la carità, che ha la caratteristica di unire a Dio. Essa è la più importante di tutte le virtù e senza di essa non v’è vita virtuosa.
Si può allora affermare senza timore di essere smentiti che il criterio ultimo e definitivo è l’acquisizione progressiva della carità. Alla sua acquisizione concorrono: la grazia, i sacramenti, la devozione a Cristo, la preghiera.
La morale di Tommaso è l’elaborazione più completa che sia stata mai tentata.

TOMMASO D'AQUINO (1224-1274) prima parte


Nacque a Roccasecca di Aquino (FR) nel 1224 e morì a Fossanova (LT) nel 1274.Compì i primi studi nel monastero di Montecassino. Li perfezionò a Napoli nello studio generale dei domenicani.
Entrò nell’ordine nel 1244 e nel 1245 fu mandato a compiere gli studi filosofici e teologici prima Parigi e poi a Colonia dove ebbe come maestro Sant’Alberto Magno. Nel 1252 iniziò l’insegnamento a Parigi prima come baccalaureato e poi come magister. Dal 1257 fu aggregato al corpo accademico dell’università la Sorbona.
Nel 1260 dovette lasciare l’insegnamento per divenire segretario di Urbano IV prima e Clemente IV poi. Dal 1268 al 1272 tornò ad insegnare a Parigi che lasciò definitivamente per prendere la direzione dello studio generale di Napoli. Invitato da Gregorio X al Concilio di Lione, morì a Fossanova (LT) mentre era in viaggio nel 1274. Fu proclamato dottore della chiesa nel 1567.
Trasmise la sua dottrina in varie opere: Commentari alla Sacra Scrittura, Commentari filosofici, Commentario alle Sentenze, De malo, De virtutibus, De veritate, Summa contra gentes, Summa Theologiae. Tommaso fu un autore fecondissimo.
Tommaso fu un grande filosofo, ma soprattutto fu teologo. Nel Commento alle Sentenze sostiene che la teologia ha un carattere eminentemente speculativo, ha cioè come fine la contemplazione della verità. Questo lo sostiene contro la scuola francescana e contro il suo maestro Alberto Magno.
Certamente la teologia è anche pratica, perché la Sacra Scrittura, fonte primaria del suo studio, offre numerosi insegnamenti che riguardano i comportamenti pratici. L’aspetto pratico deve lo stesso essere trattato con metodo speculativo.
Il concetto di teologia introdotto da Tommaso è essenziale per la elaborazione di una dottrina morale cristiana, fondata sui principi dedotti della rivelazione, organizzato sul carattere scientifico della teologia nel suo insieme. L’Angelico sviluppa questi principi nella Summa Theologiae.
La Summa è l’opera più riuscita e rappresentativa dell’intero pensiero di Tommaso. Di carattere espressamente teologico, redatta in epoca matura, si pone come testo di introduzione degli studenti alla teologia.
Un trattato di teologia deve occuparsi di Dio: come essere in sé e come principio delle cose; come bene, cioè come fine ultimo delle creature, come via in Cristo per ricondurre a sé l’uomo decaduto.
La Summa contiene una trattazione che regola la vita morale di estensione pari agli altri trattati, si pone come contributo originale rispetto agli altri contributo teologici del tempo.
La distinzione del tema morale dal resto della teologia viene spiegata nel prologo della "prima secundae", dove si da una definizione di uomo estremamente originale e importante: «l’uomo e creato ad immagine di Dio, intelligente, libero e avente potere sui propri atti (per se potestativum)».
Tommaso, dopo aver trattato di Dio e delle sue prerogative, passa a parlare dell’uomo, considerato capace di essere principio del suo agire.
Dell’uomo e dell’antropologia, l’Angelico aveva già parlato nella Prima parte (qq. 75-102), aveva, cioè, parlato dell’uomo così come è stato creato da Dio. Nella Seconda parte si descrive come l’uomo deve farsi mediante i propri atti.
Il grande spazio all’esposizione del tema morale, all’agire dell’uomo e alla sua valutazione, e le varie spiegazioni concettuali che vengono dedotte, non toglie all’insieme l’aspetto speculativo. In altre parole Tommaso ha prodotto un grande sforzo teorico per dare al sapere cristiano i connotati della scienza, non si è limitato a ripetere quando già affermato dalle "auctoritates".
Tuttavia in Tommaso prevale sempre l’attenzione alle auctoritates rispetto alle esigenze speculative, ciò perché viene posto maggiore attenzione all’autorità della fede rispetto all’autorità dell’intelletto.
La riflessione di Tommaso come il pensiero scolastico procede con la proposta delle cose note, cioè dalle affermazioni autorevoli (auctoritates), per cercare di pervenire ad una fruttuosa sintesi.
Questo è lo schema della trattazione della riflessione morale di Tommaso. Prima secundae: dopo aver trattato del fine o della beatitudine (beatitudo) al quale tende ogni uomo (qq. 1-5), si passa a trattare degli atti mediante i quali viene perseguito il fine. Gli atti umani in se stessi: sono quegli atti volontari propri dell’uomo, la loro psicologia e la moralità (qq. 6-21) e gli atti comuni con gli animali o istinti. Si passa a parlare delle passioni (qq. 22-48) e i principi degli atti umani, che sono: interiori (gli abiti buoni o virtù e doni e cattivi o vizi e peccati) (49-89), esteriori: la legge e la grazia (90-114), che hanno origine fuori dall’uomo, ma influiscono sul suo agire.
Nella Seconda parte si tratta degli atti particolari: gli atti comuni a tutti gli uomini (le virtù teologali (qq 1-46) e quelle delle virtù cardinali (47-170) e gli atti propri di alcune persone (171-170).
La morale di Tommaso è una morale della virtù e dei doni e non dei doveri, degli obblighi e dei peccati.
Come abbiamo già affermato, l’elaborazione morale di Tommaso è essenzialmente teologica, perché si iscrive nel suo generale discorso su Dio. E’ teocentrica.
Essa si inscrive nello schema dell’exitus delle creatura da Dio e del reditus delle creature a Dio. Il reditus è il ritornare all’origine della creazione attraverso l’agire umano. E’ in questa verità che l’agire morale, che ha il suo punto di partenza nella creazione, trova il suo spessore.
L’uomo, creato ad immagine di Dio e reso capace di gestire i propri atti, deve realizzare al meglio il suo orientamento a Dio in Gesù Cristo.
Se la realtà morale costituisce la realtà dell’uomo in cammino verso Dio, ne segue che il fine è la categoria fondamentale della riflessione morale dell’aquinate. Infatti il trattato sul fine è il fulcro dell’intero sistema morale del dottore angelico.
L’aver collocato il trattato sul fine all’inizio delle due sezioni in cui è divisa la Seconda parte si tratta di una profonda intuizione, vuol dire che la beatitudine è il principio necessario e immutabile che funge da norma ad ogni azione concreta e costituisce il fondamento scientifico di dette azioni.
Tutto l’agire acquista senso e valore perché fa riferimento al fine. E’ il fine che specifica gli atti: sia come umani che come morali.
L’uomo realizza la sua vocazione nella storia e nel mondo ed è responsabile con Dio e gli altri dell’attuazione del disegno fondamentale che ha la sua realizzazione nel tempo, ma che trascende il tempo.
Come ogni creatura, l’uomo ha un fine, il suo bene, da realizzare, perché così ha voluto Dio nella creazione. Ne segue che egli ha un progetto stabilito da Dio da portare a realizzazione con la sua libera attività.
Il progetto per tutti è costituito dalla legge eterna di Dio di cui l’uomo è reso partecipe. La legge eterna costituisce il piano razionale di Dio, l’ordine dell’universo attraverso cui la divina sapienza dirige tutte le cose al loro fine.

San Bonaventura da Bagnoreggio (1218-1274)

Nacque a Bagnoreggio (VT) nel 1218 e morì a Lione nel 1274. Al battesimo fu chiamato Giovanni e siccome il suo papà si chiamava Fidanza fu chiamato Giovanni di Fidanza. Nel 1243 entrò nell’ordine dei francescani assumendo il nome di Bonaventura. Compì i suoi studi teologici a Parigi dove ebbe come maestro Alessandro di Hales. Nel 1248 iniziò l’insegnamento come baccalaureato e nel 1254 fu promosso magister. Non ottenne mai la cattedra universitaria per l’opposizione dei maestri laici contro i religiosi. Anche San Tommaso si troverà coinvolto nello stesso problema. Nel 1257 vi fu un intervento della santa Sede che dipanò la questione. Nello stesso anno Bonaventura fu eletto maestro generale dell’ordine e non poté mai occupare la cattedra alla Sorbona. Nel 1273 fu nominato vescovo di Albano e cardinale. E’ dottore della chiesa dal 1588.
Bonaventura ha composto molte opere di indole filosofica, teologica, esegetica, ascetica e oratoria. Quelle teologiche precedono quelle ascetico-mistiche. La sua esegesi è ancora informata allo stile platonico agostiniano, pur riservando largo spazio alle nuove acquisizione e soprattutto all’aristotelismo, che però rifiuta come sistema.
Scrisse: un Commento alle sentenze, il Breviloquium, Itinerario della mente a Dio, Itinerario della mente in se stesso e la Triplice via. In quest’ultima opera propone le celebri tre vie: la purgativa, la illuminativa e l’unitiva, intese non come a sé stanti e successive, ma componenti sincroniche del movimento verso Dio.
Egli non assegna un posto distinto alle considerazioni morali, ma le espone seguendo sia l’ordine del Lombardo che quello di A. di Hales.
Bonaventura fa un uso limitato delle categorie filosofiche ed è restio a far uso della morale dei filosofi. Egli esalta il primato della teologia sulla filosofia e ne dichiara la sua ancillarità, ritenendo che la ragione non è in grado di produrre una metafisica adeguata se la filosofia non è illuminata dalla luce della fede. La fede nella verità rivelata deve essere all’origine di ogni speculazione filosofica. Egli dimostra che tutte le scienze, le arti e soprattutto la filosofia, hanno bisogno dell’aiuto teologia per raggiungere la loro perfezione.
Per Bonaventuta il problema morale si riduce al cammino della mente in Dio, ne consegue che ogni discorso teologico è anche etico, perché la cosa più importante è che compiamo il bene.
Pertanto non accettando la divisione della teologia in speculativa e pratica, rifiuta l’elaborazione di una teologia morale distinta entro l’universale sapere teologico. In questo si dissocia dal maestro di Hales il quale nella sua Summa sosteneva il contrario.
Il maestro francescano sostiene l’idea che la teologia abbia una funzione prevalentemente affettiva e spirituale e sia una conoscenza che spinge all’amore, perché ha per fine di renderci più buoni. Questo principio ha il merito indiscutibile di difendere con forza l’unità del sapere teologico.
La teologia morale , come tutta la teologia ha lo scopo di portare alla santità. Tale impostazione non permette a Bonaventura di considerare l’agire cristiano come oggetto di uno studio speculativo e scientifico, impedendogli l’elaborazione di una teologia morale come scienza dell’agire.
Per il dottore serafico il punto di partenza di ogni riflessione teologica e sempre e solo Cristo (cristocentrismo), Verbo di Dio, fonte di tutte le scienze e supremo esemplare. Cristo è anche centro della vita morale. Ne segue che il suo insegnamento e la sua vita sono il fondamento e la norma ermeneutica dell’agire morale.
Ogni creatura viene da Dio e può ritornare a Dio seguendo gli esempi di Cristo. Dio è il principio movente, la regola dirigente e il fine che da quiete non solo di ogni essere, ma di ogni atto.
Ne segue che l’agire e retto se è: a Deo, secundum Deum e ad Deum!
Dio è il fine verso cui tende la nostra volontà informata dalla carità, assolutamente necessaria perché l’azione possa essere buona e meritoria. L’uomo, immagine di Dio, deve agire conformemente alla carità e alla volontà di Dio che si manifesta nella legge naturale. Le azioni quotidiane che non sono informate alla carità sono moralmente indifferenti.
Tutto l’insegnamento di Bonaventura è informato alla tradizione agostiniana e alla spiritualità francescana.
Di fronte al pericolo di un dualismo di pensiero cristiano insito nella scoperta dell’aristotelismo, egli ha inteso salvare l’ideale cristiano di un sapere unico, innestato attraverso la fede nella scienza divina, in una unità non confusa, ma organicamente ordinata
La spiritualità francescana, poi, lo aiutava a considerare i singoli momenti del sapere come progressive tappe verso la piena unione con Dio, che avviene solo nell’amore.
E’ vero che l’atto morale esige la partecipazione della ragione, che cerca la norma morale nei principi innati della legge naturale, espressione della legge eterna, ma il cammino dell’uomo verso Dio non si può collocare sul solo piano intellettuale: richiede anche l’apporto della volontà illuminata dalla luce divina. E’ grazie a questa illuminazione che ogni giudizio razionale e ogni scelta libera vengono intrinsecamente ordinati e diretti al fine rappresentato dai valori assoluti dell’Essere, come verità e come bene.
Non solo l’intelligenza viene illuminata da Dio, ma anche la volontà è intrinsecamente inclinata verso il bene. Si tratta della sinderesi che, illuminata da Dio, guida il giudizio della coscienza a conformare le singole scelte al Bene sommo.
La volontà, che gode del libero arbitrio, è la facoltà che si determina da se stessa in vista della gloria di Dio, oltre il bene semplicemente naturale.
L’agire morale, secondo Bonaventura, dipende molto dalle virtù, che definisce come inclinazioni permanenti della volontà ad agire rettamente. Le virtù sono realtà naturali se non interviene la grazia di Dio con le relative virtù infuse o teologali. Queste ultime hanno il potere:
- di favorire lo sviluppo delle abitudini virtuose,
- di sopraelevare le virtù naturali esistenti,
- di comunicare la possibilità di compiere opere perfette.
Sotto l’influsso della grazia, le virtù illuminano l’anima e la conducono verso Dio. I doni dello Spirito Santo a loro volta perfezionano le virtù. Alla perfezione, poi, si giunge per gradi, purgante, illuminante e perfettiva. Al di là di tutto c’è la vita contemplativa.
Le fede dispone alla carità, la speranza dona la confidenza in Dio. Le virtù cardinali, invece, sono mezzi che permettono all’uomo di agire secondo le esigenze della carità. La giustizia regola i rapporti interpersonali.
In conclusione si può affermare che Bonaventura concepisce Dio come causa ultima di tutte le cose, le quali sono ordinate intrinsecamente a Lui. L’uomo, immagine di Dio, raggiunge la pienezza di senso nel pieno possesso di Dio.
L’uomo è costitutivamente in possesso del desiderio della beatitudine soprannaturale, ma che non può raggiungere con la sola natura e ha quindi bisogno della grazia. L’esperienza cristiana raggiunge la sua pienezza quando lo Spirito Santo, con il dono della sapienza, unisce l’anima a Dio.
Si può affermare che per Bonaventura la vita morale coincide con l’esperienza mistica. L’esperienza morale raggiunge la sua pienezza di senso quando l'affettività dell’uomo viene trasformata in Dio. La vita morale allora coincide con la imitazione mistica di Cristo.
La profonda unità tra teologia e vita, tra sapienza del cuore e della mente, tra teologia morale e mistica, fanno assurgere la riflessione teologica di Bonaventura a una sintesi completa della vita.
I punti chiave della sintesi teologica di Bonventura sono:
- l’esemplarismo cristologico,
- il primato della carità,
- il volontarismo.
I suoi successori Duns Scoto (1264-1308) e Guglielmo di Ockham (1280-1349) portarono quest’ultimo elemento alle estreme conseguenze.

PIETRO ABELARDO (1079-1142)


Il personaggio più rappresentativo della scuola urbana è senz’altro Abelardo. Nacque a Le Pallet vicino Nantes nel 1079 e morì a Chalon sur Saon nel 1142. Fu un vero girovago tanto da essere definito "peripateticus palatinus".
Ebbe come maestri a Tours il nominalista Roscellino e a Parigi Guglielmo di Champeaux . Fu così critico dei suoi maestri tanto da ripudiarli. Per rimediare ai loro errori aprì una scuola a Parigi nel 1108 sulle colline di Santa Genoveffa, nonostante l’opposizione del maestro Guglielmo.
Frequentò, poi, per alcuni anni la scuola di Anselmo di Laon (1150- 1117), poi nel 1113 tornò a Parigi per insegnare al posto di Guglielmo che nel frattempo si era ritirato a San Vittore.
In questo periodo si innamora di Eloisa, sua discepola e nel 1116 la sposa clandestinamente suscitando la reazione scomposta di Fulberto, zio di Eloisa. Questa fu costretta a farsi monaca nel monastero di clausura di Argenteuil, Abelardo nel 1118 riparò prima a S. Denis, dove scrisse il suo trattato sulla Trinità, che fu condannato si istigazione di Bernardo dal sinodo di Soissons nel 1121.
Nonostante le sue disavventure ebbe sempre alle sue lezioni un gran numero di alunni!
Nel 1140 fu condannato dal Concilio di Sens e venne accolto a Cluny da Pietro il Venerabile il quale lo preparò a riconciliarsi con Bernardo suo principale rivale e con la chiesa.
La sua vita ci è nota dall’autobiografia dal titolo "Historia calamitatum mearum".
Abelardo ha esercitato sui posteri una enorme influenza!
Egli insegna che la teologia non deve limitarsi a commentare la Sacra Scrittura, ma deve utilizzare la dialettica che aiuta lo spirito umano a comprendere la fede e a dialogare con i filosofi.
Questo principio lo mise in contrasto con le scuole monastiche e soprattutto con Bernardo.
Nel secondo libro della Theologia christiana fa un’appassionata apologia dei filosofi. Nel Dialogo sostiene che l’etica pagana è così perfetta che gli autori cristiani non devono avere nessun timore di assumerla nella riflessione morale cristiana. Anch’essa, infatti, indica in che consiste il supremo bene e come conseguirlo.
Non ci si deve meravigliare se Abelardo tratta i problemi morali con il rigore logico del ragionamento.
E’ seguace di Agostino, ma non crede alla specificità della morale cristiana, pur mantenendone l’autonomia, suddividendola in fides, caritas et sacramentum.
Nel capitolo sulla carità tratta sia delle virtù teologali che quelle morali o cardinali. Sostituisce la prudenza con la scienza e la considera virtù naturale e non data dalla grazia o infusa.
Nel trattato di Etica, opera filosofica, nega una morale troppo oggettiva, cioè accentuando troppo l’elemento materiale e disattendendo le condizioni psicologiche.
Abelardo insegna l’importanza del fattore personale, dell’intenzione e della responsabilità. L’elaborazione della sua morale è rigorosamente basata sull’intenzione.
Con la tesi dell’intenzione Abelardo intende correggere forme di oggettivismo morale presenti nella cultura del tempo che tendevano a ridurre l’agire umano alla semplice esteriorità, al materialismo morale presente nei libri penitenziali. Il passaggio dalla moralità dell’atto alla qualità dell’intenzione provocò vivaci reazioni.
Privilegiando l’intenzione si andava a negare la possibilità di compiere atti intrinsecamente cattivi. Fu soprattutto Bernardo a polemizzare con Abelardo. Si trattava di mantenere un difficile equilibrio tra coscienza e legge, fra rettitudine di intenzione e norma oggettiva.
Secondo Abelardo ciò che determina il bene e il male è l’intenzione, il consenso, la coscienza. L’agire non può essere considerato per se stesso virtuoso o peccaminoso, lo diventa secondo l’intenzione.
Questo principio porta Abelardo a rendere autonoma la coscienza da leggi morali oggettive. Egli pone, inoltre, il problema del peccato spostandolo nel rapporto intimo con Dio. Distingue tra peccato propriamente detto, vizio dell’anima e azione cattiva. Il vizio dell’anima consiste nell’inclinazione ad acconsentire a ciò che è proibito o vietato. Solo il consenso intenzionale costituisce il peccato che è il non fare ciò che si deve fare.
L’azione cattiva è quella fatta ma non voluta o preterintenzionale. Il pericolo consiste nella possibilità che ognuno possa farsi una legge universale ed eterna.
Per Abelardo la regola immanente e assoluta della moralità è costituta dalla coscienza individuale, una specie di soggettivismo morale, Se la moralità di un atto è essenzialmente interiore, la regola della moralità è data dall’adeguamento dell’atto alla legge di Dio. Il problema è la conoscibilità di tale legge.
L’elaborazione morale che dopo Agostino si era sviluppata sul rapporto tra legge e storia, ponendo l’interiorità come luogo in cui tale rapporto viene posto in maniera corretta o sbagliata, entrò nella riflessione medioevale attraverso Anselmo e Abelardo diventando il vero problema morale e cioè: il soggetto è chiamato ad operare la mediazione tra bene-legge-storia, collocandosi in modo cosciente e libero nell’ordine morale.
In questo periodo vengono non caso elaborati i primi trattati sulla coscienza.