Il personaggio più rappresentativo della scuola urbana è senz’altro Abelardo. Nacque a Le Pallet vicino Nantes nel 1079 e morì a Chalon sur Saon nel 1142. Fu un vero girovago tanto da essere definito "peripateticus palatinus".
Ebbe come maestri a Tours il nominalista Roscellino e a Parigi Guglielmo di Champeaux . Fu così critico dei suoi maestri tanto da ripudiarli. Per rimediare ai loro errori aprì una scuola a Parigi nel 1108 sulle colline di Santa Genoveffa, nonostante l’opposizione del maestro Guglielmo.
Frequentò, poi, per alcuni anni la scuola di Anselmo di Laon (1150- 1117), poi nel 1113 tornò a Parigi per insegnare al posto di Guglielmo che nel frattempo si era ritirato a San Vittore.
In questo periodo si innamora di Eloisa, sua discepola e nel 1116 la sposa clandestinamente suscitando la reazione scomposta di Fulberto, zio di Eloisa. Questa fu costretta a farsi monaca nel monastero di clausura di Argenteuil, Abelardo nel 1118 riparò prima a S. Denis, dove scrisse il suo trattato sulla Trinità, che fu condannato si istigazione di Bernardo dal sinodo di Soissons nel 1121.
Nonostante le sue disavventure ebbe sempre alle sue lezioni un gran numero di alunni!
Nel 1140 fu condannato dal Concilio di Sens e venne accolto a Cluny da Pietro il Venerabile il quale lo preparò a riconciliarsi con Bernardo suo principale rivale e con la chiesa.
La sua vita ci è nota dall’autobiografia dal titolo "Historia calamitatum mearum".
Abelardo ha esercitato sui posteri una enorme influenza!
Egli insegna che la teologia non deve limitarsi a commentare la Sacra Scrittura, ma deve utilizzare la dialettica che aiuta lo spirito umano a comprendere la fede e a dialogare con i filosofi.
Questo principio lo mise in contrasto con le scuole monastiche e soprattutto con Bernardo.
Nel secondo libro della Theologia christiana fa un’appassionata apologia dei filosofi. Nel Dialogo sostiene che l’etica pagana è così perfetta che gli autori cristiani non devono avere nessun timore di assumerla nella riflessione morale cristiana. Anch’essa, infatti, indica in che consiste il supremo bene e come conseguirlo.
Non ci si deve meravigliare se Abelardo tratta i problemi morali con il rigore logico del ragionamento.
E’ seguace di Agostino, ma non crede alla specificità della morale cristiana, pur mantenendone l’autonomia, suddividendola in fides, caritas et sacramentum.
Nel capitolo sulla carità tratta sia delle virtù teologali che quelle morali o cardinali. Sostituisce la prudenza con la scienza e la considera virtù naturale e non data dalla grazia o infusa.
Nel trattato di Etica, opera filosofica, nega una morale troppo oggettiva, cioè accentuando troppo l’elemento materiale e disattendendo le condizioni psicologiche.
Abelardo insegna l’importanza del fattore personale, dell’intenzione e della responsabilità. L’elaborazione della sua morale è rigorosamente basata sull’intenzione.
Con la tesi dell’intenzione Abelardo intende correggere forme di oggettivismo morale presenti nella cultura del tempo che tendevano a ridurre l’agire umano alla semplice esteriorità, al materialismo morale presente nei libri penitenziali. Il passaggio dalla moralità dell’atto alla qualità dell’intenzione provocò vivaci reazioni.
Privilegiando l’intenzione si andava a negare la possibilità di compiere atti intrinsecamente cattivi. Fu soprattutto Bernardo a polemizzare con Abelardo. Si trattava di mantenere un difficile equilibrio tra coscienza e legge, fra rettitudine di intenzione e norma oggettiva.
Secondo Abelardo ciò che determina il bene e il male è l’intenzione, il consenso, la coscienza. L’agire non può essere considerato per se stesso virtuoso o peccaminoso, lo diventa secondo l’intenzione.
Questo principio porta Abelardo a rendere autonoma la coscienza da leggi morali oggettive. Egli pone, inoltre, il problema del peccato spostandolo nel rapporto intimo con Dio. Distingue tra peccato propriamente detto, vizio dell’anima e azione cattiva. Il vizio dell’anima consiste nell’inclinazione ad acconsentire a ciò che è proibito o vietato. Solo il consenso intenzionale costituisce il peccato che è il non fare ciò che si deve fare.
L’azione cattiva è quella fatta ma non voluta o preterintenzionale. Il pericolo consiste nella possibilità che ognuno possa farsi una legge universale ed eterna.
Per Abelardo la regola immanente e assoluta della moralità è costituta dalla coscienza individuale, una specie di soggettivismo morale, Se la moralità di un atto è essenzialmente interiore, la regola della moralità è data dall’adeguamento dell’atto alla legge di Dio. Il problema è la conoscibilità di tale legge.
L’elaborazione morale che dopo Agostino si era sviluppata sul rapporto tra legge e storia, ponendo l’interiorità come luogo in cui tale rapporto viene posto in maniera corretta o sbagliata, entrò nella riflessione medioevale attraverso Anselmo e Abelardo diventando il vero problema morale e cioè: il soggetto è chiamato ad operare la mediazione tra bene-legge-storia, collocandosi in modo cosciente e libero nell’ordine morale.
In questo periodo vengono non caso elaborati i primi trattati sulla coscienza.
Ebbe come maestri a Tours il nominalista Roscellino e a Parigi Guglielmo di Champeaux . Fu così critico dei suoi maestri tanto da ripudiarli. Per rimediare ai loro errori aprì una scuola a Parigi nel 1108 sulle colline di Santa Genoveffa, nonostante l’opposizione del maestro Guglielmo.
Frequentò, poi, per alcuni anni la scuola di Anselmo di Laon (1150- 1117), poi nel 1113 tornò a Parigi per insegnare al posto di Guglielmo che nel frattempo si era ritirato a San Vittore.
In questo periodo si innamora di Eloisa, sua discepola e nel 1116 la sposa clandestinamente suscitando la reazione scomposta di Fulberto, zio di Eloisa. Questa fu costretta a farsi monaca nel monastero di clausura di Argenteuil, Abelardo nel 1118 riparò prima a S. Denis, dove scrisse il suo trattato sulla Trinità, che fu condannato si istigazione di Bernardo dal sinodo di Soissons nel 1121.
Nonostante le sue disavventure ebbe sempre alle sue lezioni un gran numero di alunni!
Nel 1140 fu condannato dal Concilio di Sens e venne accolto a Cluny da Pietro il Venerabile il quale lo preparò a riconciliarsi con Bernardo suo principale rivale e con la chiesa.
La sua vita ci è nota dall’autobiografia dal titolo "Historia calamitatum mearum".
Abelardo ha esercitato sui posteri una enorme influenza!
Egli insegna che la teologia non deve limitarsi a commentare la Sacra Scrittura, ma deve utilizzare la dialettica che aiuta lo spirito umano a comprendere la fede e a dialogare con i filosofi.
Questo principio lo mise in contrasto con le scuole monastiche e soprattutto con Bernardo.
Nel secondo libro della Theologia christiana fa un’appassionata apologia dei filosofi. Nel Dialogo sostiene che l’etica pagana è così perfetta che gli autori cristiani non devono avere nessun timore di assumerla nella riflessione morale cristiana. Anch’essa, infatti, indica in che consiste il supremo bene e come conseguirlo.
Non ci si deve meravigliare se Abelardo tratta i problemi morali con il rigore logico del ragionamento.
E’ seguace di Agostino, ma non crede alla specificità della morale cristiana, pur mantenendone l’autonomia, suddividendola in fides, caritas et sacramentum.
Nel capitolo sulla carità tratta sia delle virtù teologali che quelle morali o cardinali. Sostituisce la prudenza con la scienza e la considera virtù naturale e non data dalla grazia o infusa.
Nel trattato di Etica, opera filosofica, nega una morale troppo oggettiva, cioè accentuando troppo l’elemento materiale e disattendendo le condizioni psicologiche.
Abelardo insegna l’importanza del fattore personale, dell’intenzione e della responsabilità. L’elaborazione della sua morale è rigorosamente basata sull’intenzione.
Con la tesi dell’intenzione Abelardo intende correggere forme di oggettivismo morale presenti nella cultura del tempo che tendevano a ridurre l’agire umano alla semplice esteriorità, al materialismo morale presente nei libri penitenziali. Il passaggio dalla moralità dell’atto alla qualità dell’intenzione provocò vivaci reazioni.
Privilegiando l’intenzione si andava a negare la possibilità di compiere atti intrinsecamente cattivi. Fu soprattutto Bernardo a polemizzare con Abelardo. Si trattava di mantenere un difficile equilibrio tra coscienza e legge, fra rettitudine di intenzione e norma oggettiva.
Secondo Abelardo ciò che determina il bene e il male è l’intenzione, il consenso, la coscienza. L’agire non può essere considerato per se stesso virtuoso o peccaminoso, lo diventa secondo l’intenzione.
Questo principio porta Abelardo a rendere autonoma la coscienza da leggi morali oggettive. Egli pone, inoltre, il problema del peccato spostandolo nel rapporto intimo con Dio. Distingue tra peccato propriamente detto, vizio dell’anima e azione cattiva. Il vizio dell’anima consiste nell’inclinazione ad acconsentire a ciò che è proibito o vietato. Solo il consenso intenzionale costituisce il peccato che è il non fare ciò che si deve fare.
L’azione cattiva è quella fatta ma non voluta o preterintenzionale. Il pericolo consiste nella possibilità che ognuno possa farsi una legge universale ed eterna.
Per Abelardo la regola immanente e assoluta della moralità è costituta dalla coscienza individuale, una specie di soggettivismo morale, Se la moralità di un atto è essenzialmente interiore, la regola della moralità è data dall’adeguamento dell’atto alla legge di Dio. Il problema è la conoscibilità di tale legge.
L’elaborazione morale che dopo Agostino si era sviluppata sul rapporto tra legge e storia, ponendo l’interiorità come luogo in cui tale rapporto viene posto in maniera corretta o sbagliata, entrò nella riflessione medioevale attraverso Anselmo e Abelardo diventando il vero problema morale e cioè: il soggetto è chiamato ad operare la mediazione tra bene-legge-storia, collocandosi in modo cosciente e libero nell’ordine morale.
In questo periodo vengono non caso elaborati i primi trattati sulla coscienza.
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