Nacque a Bagnoreggio (VT) nel 1218 e morì a Lione nel 1274. Al battesimo fu chiamato Giovanni e siccome il suo papà si chiamava Fidanza fu chiamato Giovanni di Fidanza. Nel 1243 entrò nell’ordine dei francescani assumendo il nome di Bonaventura. Compì i suoi studi teologici a Parigi dove ebbe come maestro Alessandro di Hales. Nel 1248 iniziò l’insegnamento come baccalaureato e nel 1254 fu promosso magister. Non ottenne mai la cattedra universitaria per l’opposizione dei maestri laici contro i religiosi. Anche San Tommaso si troverà coinvolto nello stesso problema. Nel 1257 vi fu un intervento della santa Sede che dipanò la questione. Nello stesso anno Bonaventura fu eletto maestro generale dell’ordine e non poté mai occupare la cattedra alla Sorbona. Nel 1273 fu nominato vescovo di Albano e cardinale. E’ dottore della chiesa dal 1588.
Bonaventura ha composto molte opere di indole filosofica, teologica, esegetica, ascetica e oratoria. Quelle teologiche precedono quelle ascetico-mistiche. La sua esegesi è ancora informata allo stile platonico agostiniano, pur riservando largo spazio alle nuove acquisizione e soprattutto all’aristotelismo, che però rifiuta come sistema.
Scrisse: un Commento alle sentenze, il Breviloquium, Itinerario della mente a Dio, Itinerario della mente in se stesso e la Triplice via. In quest’ultima opera propone le celebri tre vie: la purgativa, la illuminativa e l’unitiva, intese non come a sé stanti e successive, ma componenti sincroniche del movimento verso Dio.
Egli non assegna un posto distinto alle considerazioni morali, ma le espone seguendo sia l’ordine del Lombardo che quello di A. di Hales.
Bonaventura fa un uso limitato delle categorie filosofiche ed è restio a far uso della morale dei filosofi. Egli esalta il primato della teologia sulla filosofia e ne dichiara la sua ancillarità, ritenendo che la ragione non è in grado di produrre una metafisica adeguata se la filosofia non è illuminata dalla luce della fede. La fede nella verità rivelata deve essere all’origine di ogni speculazione filosofica. Egli dimostra che tutte le scienze, le arti e soprattutto la filosofia, hanno bisogno dell’aiuto teologia per raggiungere la loro perfezione.
Per Bonaventuta il problema morale si riduce al cammino della mente in Dio, ne consegue che ogni discorso teologico è anche etico, perché la cosa più importante è che compiamo il bene.
Pertanto non accettando la divisione della teologia in speculativa e pratica, rifiuta l’elaborazione di una teologia morale distinta entro l’universale sapere teologico. In questo si dissocia dal maestro di Hales il quale nella sua Summa sosteneva il contrario.
Il maestro francescano sostiene l’idea che la teologia abbia una funzione prevalentemente affettiva e spirituale e sia una conoscenza che spinge all’amore, perché ha per fine di renderci più buoni. Questo principio ha il merito indiscutibile di difendere con forza l’unità del sapere teologico.
La teologia morale , come tutta la teologia ha lo scopo di portare alla santità. Tale impostazione non permette a Bonaventura di considerare l’agire cristiano come oggetto di uno studio speculativo e scientifico, impedendogli l’elaborazione di una teologia morale come scienza dell’agire.
Per il dottore serafico il punto di partenza di ogni riflessione teologica e sempre e solo Cristo (cristocentrismo), Verbo di Dio, fonte di tutte le scienze e supremo esemplare. Cristo è anche centro della vita morale. Ne segue che il suo insegnamento e la sua vita sono il fondamento e la norma ermeneutica dell’agire morale.
Ogni creatura viene da Dio e può ritornare a Dio seguendo gli esempi di Cristo. Dio è il principio movente, la regola dirigente e il fine che da quiete non solo di ogni essere, ma di ogni atto.
Ne segue che l’agire e retto se è: a Deo, secundum Deum e ad Deum!
Dio è il fine verso cui tende la nostra volontà informata dalla carità, assolutamente necessaria perché l’azione possa essere buona e meritoria. L’uomo, immagine di Dio, deve agire conformemente alla carità e alla volontà di Dio che si manifesta nella legge naturale. Le azioni quotidiane che non sono informate alla carità sono moralmente indifferenti.
Tutto l’insegnamento di Bonaventura è informato alla tradizione agostiniana e alla spiritualità francescana.
Di fronte al pericolo di un dualismo di pensiero cristiano insito nella scoperta dell’aristotelismo, egli ha inteso salvare l’ideale cristiano di un sapere unico, innestato attraverso la fede nella scienza divina, in una unità non confusa, ma organicamente ordinata
La spiritualità francescana, poi, lo aiutava a considerare i singoli momenti del sapere come progressive tappe verso la piena unione con Dio, che avviene solo nell’amore.
E’ vero che l’atto morale esige la partecipazione della ragione, che cerca la norma morale nei principi innati della legge naturale, espressione della legge eterna, ma il cammino dell’uomo verso Dio non si può collocare sul solo piano intellettuale: richiede anche l’apporto della volontà illuminata dalla luce divina. E’ grazie a questa illuminazione che ogni giudizio razionale e ogni scelta libera vengono intrinsecamente ordinati e diretti al fine rappresentato dai valori assoluti dell’Essere, come verità e come bene.
Non solo l’intelligenza viene illuminata da Dio, ma anche la volontà è intrinsecamente inclinata verso il bene. Si tratta della sinderesi che, illuminata da Dio, guida il giudizio della coscienza a conformare le singole scelte al Bene sommo.
La volontà, che gode del libero arbitrio, è la facoltà che si determina da se stessa in vista della gloria di Dio, oltre il bene semplicemente naturale.
L’agire morale, secondo Bonaventura, dipende molto dalle virtù, che definisce come inclinazioni permanenti della volontà ad agire rettamente. Le virtù sono realtà naturali se non interviene la grazia di Dio con le relative virtù infuse o teologali. Queste ultime hanno il potere:
- di favorire lo sviluppo delle abitudini virtuose,
- di sopraelevare le virtù naturali esistenti,
- di comunicare la possibilità di compiere opere perfette.
Sotto l’influsso della grazia, le virtù illuminano l’anima e la conducono verso Dio. I doni dello Spirito Santo a loro volta perfezionano le virtù. Alla perfezione, poi, si giunge per gradi, purgante, illuminante e perfettiva. Al di là di tutto c’è la vita contemplativa.
Le fede dispone alla carità, la speranza dona la confidenza in Dio. Le virtù cardinali, invece, sono mezzi che permettono all’uomo di agire secondo le esigenze della carità. La giustizia regola i rapporti interpersonali.
In conclusione si può affermare che Bonaventura concepisce Dio come causa ultima di tutte le cose, le quali sono ordinate intrinsecamente a Lui. L’uomo, immagine di Dio, raggiunge la pienezza di senso nel pieno possesso di Dio.
L’uomo è costitutivamente in possesso del desiderio della beatitudine soprannaturale, ma che non può raggiungere con la sola natura e ha quindi bisogno della grazia. L’esperienza cristiana raggiunge la sua pienezza quando lo Spirito Santo, con il dono della sapienza, unisce l’anima a Dio.
Si può affermare che per Bonaventura la vita morale coincide con l’esperienza mistica. L’esperienza morale raggiunge la sua pienezza di senso quando l'affettività dell’uomo viene trasformata in Dio. La vita morale allora coincide con la imitazione mistica di Cristo.
La profonda unità tra teologia e vita, tra sapienza del cuore e della mente, tra teologia morale e mistica, fanno assurgere la riflessione teologica di Bonaventura a una sintesi completa della vita.
I punti chiave della sintesi teologica di Bonventura sono:
- l’esemplarismo cristologico,
- il primato della carità,
- il volontarismo.
I suoi successori Duns Scoto (1264-1308) e Guglielmo di Ockham (1280-1349) portarono quest’ultimo elemento alle estreme conseguenze.
mercoledì 25 febbraio 2009
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