mercoledì 4 marzo 2009

SANT'ALFONSO M. DE' LIGUORI (1696-1787)

Nacque a Napoli nel 1696 e morì a Pagani nel 1787. Si laureò nel 1713 in utroque iure all’università di Napoli. Esercitò l’attività forense fino al 1823, allorché, sconfitto in un clamoroso processo, vestì l’abito ecclesiastico, avviandosi al sacerdozio, che ricevette nel 1726.
Fondò la Congregazione dei Redentoristi. Nel 1762 fu eletto vescovo di Sant’Agata dei Goti. Nel 1775 diede le dimissioni e si ritirò a Pagani tra i suoi figli. E’ dottore della chiesa dal 1871.
La sua produzione letteraria ha avuto una fortuna immensa. Le sue opere principali sono: Pratica di amare Gesù (1768), Teologia morale (1748), Pratica dei confessori (1757), Le glorie di Maria e molto altro.
Egli pone come principio guida della vita cristiana l’universale chiamata alla santità, ognuno nel suo stato. Colui che non nel cuore la voglia di farsi santo non è un buon cristiano.
I mezzi pratici per raggiungere la santità sono: la mortificazione, la pratica sacramentale e l’orazione mentale. Vero dottore pratico vuole soprattutto scuotere e illuminare le coscienze per spingerle all’azione. Propone una religione viva, umana, austera sì, ma senza esagerazioni.
Il sistema elaborato da Sant’Alfonso è l’equiprobabilismo, soluzione saggia, in equilibrio tra il lassismo e il rigorismo. Egli ammette che una legge dubbia non obbliga e si può seguire un’opinione probabile, ma aggiunge che una legge non è veramente dubbia se non quando le opinioni pro e contro abbiano una probabilità sensibilmente uguale.
Il sistema alfonsiano si articola in tre principi:
- Il principio della verità,
- I doveri della coscienza che non può affidarsi ciecamente alle opinioni del moralisti,
- I diritti della libertà umana che può essere vincolata solo da una legge certa.
Sant’Alfonso si sforza di salvare le esigenze della verità, rispettando nel contempo i diritti della coscienza e i principi della libertà umana, tenendo il giusto mezzo, facendosi guidare non da principi astratti, ma da esigenze che nascevano dall’azione pastorale.
L’agire morale si fonda primariamente sulla verità. Il soggetto agente è sempre obbligato a ricercarla. Se non è possibile arrivare ad una certezza assoluta, bisogna almeno cercare di avvicinarsi alla verità il più possibile.
Il soggetto agente non deve agire secondo norme esterne e automatiche, ma deve interiorizzare e personalizzare la legge. La ragione e la coscienza, se agiscono sotto l’influsso della prudenza, diventano norme prossime all’agire.
La libertà della persona è vincolata solo nel caso che una legge particolare, dettata o dalla ragione o dalla rivelazione divina, gli manifesti la volontà di Dio con una certezza o in un modo almeno più probabile (probabilior). Solo allora il soggetto agente deve in coscienza agire sicuramente secondo questa legge.
Tuttavia nell’insieme della morale di Alfonso lo studio delle circostanze concrete prevale sempre sull’applicazione meccanica di un sistema, per quanto giusto questo possa essere.
Gli apporti originali di Alfonso alla Teologia morale sono stati:
- Trasmette il frutto della sua opera missionaria, che consiste nel ribadire, contro il giansenismo, che Cristo è il redentore la cui efficacia redentrice e infinita;
- Esaminando alla luce della ragione e sotto l’illuminazione della prudenza varie opinioni, ha costruito un sistema di principi che è espressione sia delle esigenze del Vangelo, sia quelle della libertà della coscienza umana;
- Per i casi di coscienza espose il suo personale parere, impegnandosi in una ricerca interiore e oggettiva della verità e mettendo a profitto la sua eccezionale acutezza, sapienza e prudenza;
- Ad ogni problema morale seppe dare una risposta sapiente e appropriata, che soprattutto non scoraggiasse i deboli, ma neppure scandalizzasse i ferventi.
L’intento di Alfonso fu quello di formare bravi pastori d’anime, confessori e direttori spirituali, più che elaborare un trattato completo di teologia morale, che tuttavia definiva come la «scienza delle scienze» e «arte delle arti».
Egli ha sottolineato e chiarito aspetti della Teologia morale che non potranno essere mai disattesi. I principali sono:
- Una sapiente preoccupazione pastorale per applicare i principi generali ai casi concreti: la scienza morale benché situata su un piano speculativo e universale, ha lo scopo di regolare azioni singole e concrete;
- E’ necessario un grande equilibrio nel delimitare il lecito dall’illecito: compito al quale la Teologia morale non deve mai rinunciare, perché l’uomo che essa intende condurre alla perfezione e alla santità è pur sempre un peccatore che ha bisogni di essere delimitato.
La grandezza di Alfonso non va ricercata nella forma e organicità del disegno generale, che anzi muta dalle Institutiones morales e cioè:
- La regola degli atti umani,
- I precetti delle virtù teologali,
- I precetti del decalogo e della Chiesa,
- I precetti particolari,
- Il modo di conoscere e discernere i peccati,
- I sacramenti,
- Le censure ecclesiastiche e le irregolarità.
La sua grandezza va ricercata nella profondità e limpidezza del contenuto: in lui si avverte chiaramente l’ispirazione della più pura morale cristiana, cioè una morale intesa come pratica della carità.
La scienza morale deve essere la verità che conduce la persona umana al bene e alla salvezza alla quale è chiamata.

GUGLIELMO DI OCKHAM (1280-1349)

Nacque a Ockham, piccolo villaggio della periferia di Londra nel 1280 ca. e morì a Monaco di Baviera nel 1349.
Giovanissimo entrò nell’ordine dei francescani. Compì i suoi studi nella celebre università di Oxford. Conseguito il titolo di baccalaureato nel 1318, scrisse un commento al Libro delle Sentenze del Lombardo, dove fu molto critico nei confronti della riflessione teologica precedente.
Queste critiche gli costarono una convocazione nel 1324 ad Avignone per difendersi dall’accusa di eresia. Il processo durò diversi mesi con forti polemiche. Nel 1328 Guglielmo lasciò Avignone scortato da Michele da Cesena, allora ministro generale dell’ordine.
Nella polemica sul potere del Papa e quello dell’Imperatore si schierò a favore dell’Imperatore Ludovico IV, detto il Bavaro (1287-1347).
Perseguitato dalla chiesa si rifugiò presso l’Imperatore a Monaco dove morì di peste.
Fu un valido filosofo e un altrettanto valido teologo. La sua influenza sul pensiero occidentale è enorme e la sua riflessione ha contribuito in modo determinante nell’elaborazione del pensiero moderno. Tutta la riflessione morale successiva è sotto il suo influsso.
Caratteristiche del suo insegnamento sono:
- L’estrema coerenza,
- Un rigore esigente.
Tanto da essere considerato un grande dialettico.
Scrisse: Opera plurima in 4 volumi; Opera politica in 3 volumi; Opera philosophica in 7 volumi; Opera teologica in 10 volumi.
La riflessione di Ockhm è una limpida testimonianza della grave crisi che attraversò il pensiero morale cristiano all’inizio del 1300.
Mette in discussione:
- L’armonia tra fede ragione,
- La relazione tra grazia e libertà,
- La possibilità per la ragione di affrontare e risolvere grandi problemi della metafisica e dell’antropologia.
Presupposti fondamentali della scolastica medioevale.
Con la riflessione di Ockham ebbe inizio «lo spirito laico», perché fece suoi i principi gli ideali della insorgente proclamazione della dignità della uomo, della potenza creativa dell’individuo, della nuova cultura umanistica che il risorgimento farà sua e svilupperà.
Ockham è spirito libero e con grande libertà va alla ricerca di valori autentici come: la verità, la giustizia e il bene comune.
Il punto di partenza della sua riflessione è l’assoluta onnipotenza di Dio. Egli può fare tutto ciò che non è contraddittorio. E’ infinitamente libero, per cui in Lui non vi può essere obbligazione alcuna.
Il suo agire non conosce norme né interne, né esterne, per cui è la causa di ogni obbligo morale, pur trascendendo questa categoria.
Da questa concezione teologica deriva un nuovo modo di intendere la persona umana, specialmente la sua libertà, definita come assenza di ogni obbligazione.
Ockham concepisce l’universo costituito da realtà singole, esistenti sia separatamente, che unite fra loro senza però formare degli assoluti. Dio è un assoluto, ma anche l’uomo lo è. Questi nel momento che esiste non può non esistere, altrimenti verrebbe compromesso il principio di non contraddizione.
Il fatto che l’uomo è libero non dimostrabile con il ragionamento, lo si evince dall’esperienza. La libertà è la possibilità di fare o non fare una cosa , di determinarsi verso una scelta con la volontà.
Si tratta del potere mediante il quale, secondo indifferenza e contingenza, egli può produrre un effetto. Può, cioè, conoscerlo e non conoscerlo senza che vi sia differenza per il potere della volontà. Essere libero vuol dire suprema indifferenza e assoluta spontaneità.
Di fronte alla libertà dell’uomo tutti i possibili oggetti sono sullo stesso piano. Ciò vale anche per Dio, nei confronti del quale non si dà alcun intrinseco e ontologico rimando dall’interno dell’uomo.
L’obbligo morale spetta solo all’uomo perché è essenzialmente contingente, ma anche la morale romane contingente.
Bene e male non sono assoluti, ma realtà contingenti che hanno la loro origine nella volontà di Dio. La bontà e la cattiveria sono termini che non connotano un in se, ma un precetto divino. Essi sottintendono la volontà di Dio.
Il male non altro che: «aliquid facere ad cuius oppositum faciendum aliquis obbligatur».
La norma dell’agire dell’uomo è la volontà di Dio, la quale stabilisce ciò che è male e ciò che è bene. Poste l’assoluta onnipotenza e libertà di Dio, l’intero ordine creato, compresa la legge morale, è completamente contingente.
L’essenza tra il bene e il male non è data dall’arbitrio della volontà di Dio, perché in Dio non c’è distinzione reale tra essenza, intelligenza e volontà. Tutto ciò che Dio vuole, lo vuole con la sua intelligenza infinitamente perfetta. Ne segue che l’obbligo morale ha il suo fondamento ontologico nell’essenza stessa di Dio.
L’uomo con la sola ragione non può conoscere l’ordine morale stabilito da Dio, a meno che non sia Dio stesso a rivelarlo. E Dio lo ha rivelato.
L’ordine morale rivelato è opera della sua potenza ordinata, ma in Dio esiste anche una potenza assoluta la quale potrebbe stabilire altri ordini morali, altrettanto razionale con l’ordine esistente. La volontà di Dio, fondamento dell’obbligo morale, si rende manifesta all’uomo attraverso la legge morale, alla quale l’uomo, libero e responsabile, può obbedire o disobbedire e quindi meritare o demeritare. Senza la libertà non ci potrebbe essere azione lodevole o riprovevole.
Ockham da grande importanza alla libertà di indifferenza, cioè alla libertà di fare o fare il contrario.
L’alternativa morale è tra l’obbedire al comandamento di Dio o obbedire a degli obiettivi scelti dalla propria volontà quali criteri dell’agire.
La morale allora è strettamente congiunta alla religione o meglio alla fede. Infatti la conoscenza della volontà di Dio, cioè la legge, avviene con la rivelazione e con la ragione retta, la quale è consapevole che alcune azioni sono comandate altre proibite. Ciò significa che esiste una legge interiore, la quale ci indica il nostro dovere. Si tratta dell’imperativo categorico o voce di Dio.
La «retta ragione» e i suoi obblighi si impongono direttamente all’uomo. Il primo precetto di detta legge è: è necessario metter in pratica la tal cosa perché è comandata dalla retta ragione, altrimenti l’atto morale sarebbe per lo meno indifferente.
La coscienza in questo contesto si pone come il giudizio che riferisce un atto ad un ordine o ad un divieto divino. Detto giudizio è emesso dalla ragione, ma ha il suo ultimo fondamento nella fede che accoglie la rivelazione della volontà di Dio.
L’insieme dei precetti rivelati da Dio costituisce il diritto naturale, che è assoluto, immutabile e comune a tutti gli uomini. Viene mutuato dal decalogo.
Da detti obblighi scaturiscono i fondamentali diritti umani, che secondo Ockham sono: la libertà e la proprietà. Se l’uomo è libero davanti a Dio ne consegue che è molto più libero davanti all’autorità umana sia politica che religiosa. La libertà è il punto di partenza dell’intera riflessione ackhamista.
Da questo principio sgorga la teoria dei diritti umani. Ma ciò si avvererà in seguito.
Le leggi umane, positive, civili o religiose, non possono essere contrari alla legge di Dio. Il loro ambito riguarda gli atti indifferenti e, quindi, non obbligano in coscienza.
Si può affermare, senza il timore di essere smentiti, che la morale di Ochìkam è di tipo positivo e legalista. Se la moralità consiste nell’obbedienza la legge, è necessario accertarsi che la legge esista.
La morale di Ockham poi si interessa solo degli atti, ne segue che possa disattendere il ruolo della grazia, la quale diviene una condizione esterna all’atto, esigendosi poi per ogni merito la libera accettazione di Dio.
L’aspetto più rilevante della riflessione morale di Ockham è costituito dalla dal fatto che egli nega che il riferimento a Dio sia parte integrante e sostanziale dell’esperienza morale umana. La sua riflessione morale non è più teologica come quella di Tommaso.
Il suo modo di determinare e risolvere il problema morale è in sintonia con la negazione di ogni possibile elaborazione di una teologia naturale. Detta impossibilità costituisce il punto di partenza di ogni riflessione morale.
La riflessione morale di Ockham porta in sé quella «rottura ontologica» fra l’uomo e Dio, che di fatto ha portato al fideismo, al radicale scetticismo e finanche all’ateismo. Determinando quella corrente di pensiero che sostiene che la fondazione morale è sempre più impossibile.
In questo modo possiamo comprendere perché nella definizione di coscienza di Ockham non si fa più riferimento al fine ultimo o alla felicità e si fa riferimento al comandato o al proibito. Essa non viene considerata nel contesto globale della storia della persona, ma come momento a sé stante, il quale si pone tra la libertà e la volontà precettiva o proibente di Dio.
Le virtù vengono considerate come un aiuto per meglio realizzare la decisione liberamente presa e per meglio superare gli ostacoli. Esse vengono collocate al sotto della libertà e perdono il loro valore morale, non essendo più una determinazione decisa nell’agire, essenziale per assicurare la perfezione delle azioni morali e doverle compiere.