mercoledì 8 ottobre 2014

IL NOSTRO TEMPO

PER IL CRISTIANESIMO È TEMPO DI USCIRE DALL’ANGOLO La mia ricerca teologica da tempo si muove nell’alveo del rapporto fra cristia¬nesimo e cultura contemporanea, che viene definita cultura postmoderna. Intesa come cultura diffusa, luogo dove esercitiamo la nostra libertà. Anche il cristianesimo deve essere inteso non solo quello del Catechismo, delle encicliche, di manuali e saggi di teologia, ma soprattutto quello delle parrocchie, dei movimenti, delle associazioni, del credente di strada. Il nostro tempo è un tempo di gradi paradossi, di grandi contraddizione! Mai come in questo tempo sono vissuti così tanti geni teolo-gici (cattolici, protestanti, ortodossi), ma anche mai è iniziata a venir meno la capacità della chiesa di parlare alla e della vita della gente. Non è un segreto che la fede cristiana in occidente, continui a perdere di incidenza, di provocatorietà. E dove ancora resiste è una fede stanca, una fede senza gioia. Che cosa dunque è successo al cristianesimo? Che cosa ci è chie¬sto di fare per uscire da questa situazione che sembra l’avverarsi della triste profezia di Nietzsche (1844-1900) circa il monoteismo e del cristianesimo? Intorno a queste domande ruota questa mia lezione preliminare, dove cerco di dare delle risposte che siano plausibili. 1. Che cosa ci è successo Mi introduco con le parole di Umberto Galimberti, studioso attento alle problematiche del nostro tempo. «Gli uomini non hanno mai abitato il mondo, ma sempre e solo la descrizione che di volta in volta il mito, la religione, la filosofia, la scienza hanno dato del mondo. Una descrizione attraverso parole stabili, collocate ai confini dell’universo per la sua delimitazione e all’interno dell’universo per la sua articolazione» (L’ospite inquietante. Il nihilismo e i giovani, 2007). Questo è il punto: l’uomo abita sempre una descrizione del mondo fatta da parole stabili, password, pilastri dell’immaginazione, punti di sutura del suo rapporto con il reale Ed è proprio la diversa scelta e composizione delle parole stabili che regge la differente descrizione del mondo, per esempio di un orientale o di un aborigeno, rispetto a quella di un occidentale. «Basta avere almeno quarant’anni per percepire la sensazione di distacchi epocali da interi mondi di abitudini e di comportamenti perduti, e che si stanno completamente dimenticando» (Aldo Schiavone in Storia e destino, 2007). Gli occidentali sono cambiati nelle loro abitudini e nei loro comportamenti, nel loro modo di vivere e di sognare, di amare e di viaggiare, di lavorare e di attendere alla ricerca della felicità. Un mutamento rapido, repentino, radicale, di cui sfuggono le premesse. Tale cambiamento toglie letteralmente il fiato. Si tratta di un vero e proprio inedito Anche nella vita della chiesa è possibile verificare cambiamenti significativi. Pur essendo restato dentro un ambiente che non ha dismesso i segni della cristianità passato, nella maggior parte dei cristiani si è instaurato un regime di dualità tra la vita e la fede. La visione della fede e la preghiera non incidono più sul vissuto interiore e sul ritmo del quotidiano. Il caso emblematico è quello dei giovani, per i quali la fede sempre più rappresenta uno stadio dell’esperienza infantile. L’elemento religioso, quindi, pur non scomparso, assume una marginalità notevole. Ma come è potuto accadere tutto ciò? E così velocemente? 2. La perdita di ancoraggio e di coraggio Come rendere ragione del cambiamento che stanno attraversando la società e la chiesa? E’ necessario, secondo me, prendere atto che è cambiata la descrizione e, di conseguenza, il concetto di universo. Il cristianesimo ha, da una parte, perso un ancoraggio forte che aveva trovato nelle parole stabili della precedente descrizione dell’universo occidentale e, dall’altra, non ha ancora avuto il coraggio, se non per un breve momento (il Concilio Vaticano II), di confrontarsi seriamente con le nuove convinzioni che accompagnano ogni occidentale che entra nel mondo. Da metà ottocento, è infatti possibile constatare cinque grandi stagioni di mutazione culturale che hanno messo in discussione, una dopo l’altra, i concetti chiave, stabili e classici dell’universo. In realtà non si tratta di un processi inediti: si tratta del risorgere delle tensioni della modernità che, a causa delle guerre di religione, erano state sopite. La nuova configurazione del mondo si manifesta in tutta la sua forza a partire dalla rivoluzione culturale del sessantotto, la cui potenza di impatto è data proprio dalla lunga gestazione che la precede. Essa è così spiazzante per la chiesa, che le è mancata la lucidità di agganciarsi alle nuove possibilità che i cambiamenti repentini di volta in volta offrivano. Del resto nel sessantotto, il Concilio era già concluso. Entriamo nei particolari. Prima tappa. Charles Darwin (1809-1882) sgancia la comparsa dell’uomo sulla terra dal legame con Dio. Invita a considerare l’origine della specie umana, piuttosto che in direzione dell’alto (il paradiso), in direzione della comu¬ne parentela con altri animali. E’ un primo attacco alla cultura occidentale! Troviamo poi la prima (1864) e la seconda Internazionale (1896), che intendono trasformare la protesta di Marx (1818-1883), «non possiamo atten¬dere il paradiso!», in programma politico. Freud (1856-1839) riformula il concet¬to di "anima" quale centro di aggregazione energetico, spogliandolo di ogni aura trascendentale. L’avvio di quella che normalmente viene indicata come seconda rivoluzione industriale (tra il 1856 e il 1878 e si conclude nel 1890) getta le basi per quella espansione globale del mercato, di cui oggi siamo spettatori, a volte impauriti. In quegli anni si sviluppano, infatti, l’impresa della General Motors (1908) e quella della Ford (1903), nascono la Coca Cola (1886) e la Fiat (1899). La terra non viene più percepita quale valle di lacrime, ma come un posto nel quale ci si può agevolmente installare. Viene meno, sentenzia Nieztsche, il platonismo. Viene meno un modo di vedere e vivere il mondo secondo una duplicità di piani ontologici e assiologici (il mondo eterno e vero, da una parte; il mondo finito e finto, dall’altra) che assegnava una particolare finalità alla vita umana: l’uomo, dotato di un’anima eterna, aveva nel cielo la sua patria. Perde pertinenza immaginativa la parola "eternità", mentre assume una nuova risonanza e consistenza la "finitezza". La ricaduta nella coscienza religiosa di queste nuove concezioni fu enorme. Ci si chiede: come si può parlare più del destino escatologico dell’uomo, se non si sa più cosa sia l’eternità? Quale consistenza ontologica attribuire alla realtà di Dio? Non è più il finito a dover rendere ragione di sé rispetto all’eterno, ma esattamente il contrario. Tuttavia la spinta alla finitezza e alla storia non è senza rilievo per il cristianesimo: quale è il volto di Dio per la rivelazione evangelica, se non quello che passa attraverso l’incarnazione del Cristo? La seconda tappa di questa rimodulazione della cultura occidentale ha inizio nel primo decennio del Novecento. Accade che non appena il paradiso, ovvero la traduzione popolare della parola "eternità", viene messo tra parentesi, viene diluita anche la forza unificante e convergente. Il finito appare subito come luogo di molteplicità, di possibilità infinite, di plurale. Si colloca tra il 1905 e il 1908 una nuova stagione di rivisitazione della rappresentazione classica dell’occidente. E’ l’epoca di Einstein (1879-1855), di Picasso (1881-1973), di Schönberg (1874-1951), di Joyce (1882-1941) e di Proust (1871-1922), di Freud (1866-1939), di Thomas Mann (1875-1955) e di Pirandello (1867-1936), di Kafka (1883-1824), che ribalta ogni primato del vincitore sul vinto, del forte sulla vittima. E’ anche l’epoca di Kurt Gòdel (1906-1978), il quale sancisce l’impossibilità di rinvenire principi primi da cui derivare la matematica. Cosa non dire della fenomenologia di Husserl (1859-1838) e della rinascita del pensiero ebraico dell’alterità grazie a Buber (1878-1965) e a Rosenzweig (1886-1929)? Attraverso gli apporti di tutti costoro giunge a compimento la critica alla ragione moderna, troppo violenta, troppo autoreferenziale, e perde charme la parola "verità", al cui posto si installa il tema dell’alterità, dell’apertura e ospitalità del diverso. La coscienza del soggetto umano non è più un luogo dove abita solo una verità, ma diventa un "parlamentino": in essa ci sono tante voci, che si sovrap¬pongono e collidono. Non ci sfugga la portata della sfida: l’urgenza di pensare insieme alterità e verità ha portato alcuni settori della teologia a risco¬prire la forza del dogma della Trinità, dove l’unità della natura non sopprime la differenza delle persone. Siamo solo all’inizio di un pensiero e di una prassi trinitari. La terza tappa del viaggio che ci porta al nostro tempo è il campo di sterminio nazista di Auschwitz. Qui nel 1942, secondo un’ipotesi di Galimberti, nasce l’epoca della tecnica, la quale si caratterizza per il fatto che la ricerca finalizzata al potenziamento di mezzi più veloci per uccidere i prigionieri segna lo sganciamento della tecnica dal diretto legame con i bisogni del soggetto umano. Si impone l’assioma secon¬do il quale ciò che è tecnicamente sperimentabile va in ogni modo sperimentato: è l’avvio di quel processo di auto perfezionamento dei prodotti della ricerca tecnica, che prescinde dall’ambiente umano che però lo ridefinisce di continuo. Questo modello ha avuto subito successo per i grandi cambiamenti che ha realizzato nel miglioramento delle condizioni medie della vita degli occidentali, dall’igiene alla salute, dai viaggi alle comunicazioni, ma ha anche inciso su una certa concezione del mondo e della vita umana. Il mondo non è più un insieme di sostanze stabili e fisse, ma di relazioni; la vita non è fatto di faticose conquiste da preservare e migliorare, ma di possibilità, di occasioni. Che cosa ne è allora, per esempio, delle leggi naturali, in un mon¬do che non riconosce più alcun elemento di stabilità alle cose e agli individui? Qui salta in aria il primato dell’aristotelica sostanza, e con essa quello del "giusto mezzo" quale cardine delle virtù. Non dimentichiamo, poi, la forza dirompente dell’olocausto sul livello inconscio dell’immagine di Dio. Di fronte all’olocausto chi ha ragione: il prete che predica la creazione divina degli uomini o Darwin che dimostra la loro derivazione dalle scimmie? Chi ha ra¬gione: il catechista che proclama la santità dell’anima oppure Freud che la diagnostica quale pura energia disponibile tanto all’eros quanto al thanatos, all’amore e alla morte? Quale giustizia divina, quale paradiso, potrebbe risarcire le vittime di Hitler (1889-1945), di Mussolini (1883-1945) e di Stalin (1878-1953)? Muore il Dio della morale, il Dio che fonda la morale nella paura. Certo, viene lasciato libero lo spazio per l’annuncio del volto umano di Dio, fissato nelle parole e nella vita di Gesù, ma è una sfida, che la prassi ecclesiale spicciola fatica ancora ad assumere integralmente. La quarta tappa del percorso è il fatidico anno del sessantotto, l’anno in cui le istanze di Nietzsche diventano pane quotidiano del cittadino medio occidentale: l’istanza della singolarità, dell’unicità, della corporeità, della musica orgiastica, della scelta, dell’autonomia del soggetto. "Vietato vietare": ecco lo slogan del sessantotto, con il quale si attacca la tradizione culturale e morale del passato, giudicata eccessivamente irrispettosa della singolarità di ciascuno. Ognuno è per sé. E tutti sono uguali. Saltano in aria le forme di vita (matrimonio, paternità, maternità), i ritmi di vita (adolescenza, giovinezza, maturità), i mestieri. Cosa non dire dell’emancipazione sessuale e sociale della donna? Più in generale, ancora, in modo indiretto si può riconoscere in quella portentosa rivoluzione un attacco a un altro grande pilastro della tradizione cristiana e della tradizione occidentale, quello costituito dal pensiero di sant’Agostino e dalla parola "sacrificio": parola chiave, centrale nella descrizione occidentale del mondo, fino a quan¬do è rimasto un luogo della terra povero e con scarsa mobilità sociale, ovvero sino agli anni del boom economico. La quinta tappa del viaggio che ha deciso la ristrutturazione della mentalità occidentale riguarda la crisi dell’autorità, della legge, cioè del riconoscimento del vincolo della legge quale garanzia assoluta di una convivenza pacifica. Una decisa svolta contro il concetto di autorità può essere riscontrata: - nella rielaborazione della Seconda guerra mondiale, dove era più l’autorità della forza che non la forza dell’autorità, - nella lotta contro il terrorismo degli anni settanta, - nel crollo del muro di Berlino (novembre 1989), - negli scandali finanziari (in Italia legati all’indagine "Mani pulite"), - nel crollo delle Torri Gemelle, - nella recente e repentina mescolanza delle religioni e delle culture. Cosa è veramente cambiato? Il punto di sintesi è che nessuno oggi può avallare le sue idee semplicemente invocando il ruolo che riveste. Al posto dell’autorità sorge il tema della convinzione e la forma elementare della convivenza è quella della democrazia, cioè della libera determinazione del singolo. Da qui l’indebolimento della forma territoriale della presenza ecclesiale, dettata dal diritto canonico, a favore di una presenza de vita di fede nei movimenti, nelle associazioni, nelle comunità di base. E nessuno ancora sa come mettere insieme i due sistemi, divenuti ormai quasi paralleli. Si possono anche comprendere quei sentimenti di spaesamento e di precarietà che emergono in tutti i settori della vita. Che cosa è reale oggi? Quale nuovo ordine è sorto con l’arrivo delle nuove parole chiave dell’occidente: finitezza, alterità, tecnica, possibilità, democrazia? Non è facile dirlo. Resta in ogni caso un cambiamento, con tante conquiste, ma anche con grandi sfide davanti a sé. Pur in mezzo a un innegabile progresso e ad un vacillante benessere, l’occidente deve fare i conti con il crescente tasso di denatalità, l’impensabile blocco della gioventù, la subordinazione cui sono ancora costrette le donne sul piano delle opportunità sociali, lavorative e politiche, la stagnazione economica, la questione del rapporto con il diverso e quindi la sua nuova identità. Infine la sete di giustizia che brucia questo nostro mondo. Come dovrà collocarsi la comunità dei credenti rispetto a tutto ciò? 3. Che cosa dobbiamo fare Il compito del pensare teologico odierno deve consistere nell’assumere il ruolo di "mediatore" tra la storia (il tempo che ci è dato da vivere) e un vissuto cristiano che eviti la deriva dell’auto-referenzialità e della propria insistita particolarità. Pur nella fatica e precarietà dell’impresa, ci deve sorreggere la convinzione che è stata espressa in modo convincente da Elmar Salmann : «La fede non si rifugia nel fondo uguale di un essere immutabile, ma si espone alle peripezie dei tempi con la scommessa che nessun’epoca è priva della grazia, al contrario, ognuna è una porta che si apre al mistero cristiano» . Scommettiamo, allora, pascaliana¬mente su questo tempo. Un tempo di povertà. La comunità dei credenti non può arrendersi a questo tempo che la spoglia di tante sicurezze, in molti casi anche di sicurezze materiali: - scarsità di vocazioni, - poca gente a messa, - fatica generale nella catechesi. Questo è quello che è dato. Tante for¬me di reazione a questa situazione non appaiono convincenti: - voca¬zioni pescate all’estero; - mobilitazioni di massa per dire che si è ancora tanti, ma che alla fine fanno sentire di più il vuoto del quotidiano parrocchiale; - alleanze politiche assai discutibili, basate sull’archetipo maschile della condivisione del potere, che allontana dalla Chiesa i giovani e le donne; - cambiamenti della pastorale affidati a documenti perfetti piuttosto che a piccole sperimentazioni guidate, effettive. Serve, invece, il coraggio di riconoscere confessare la verità: la comunità dei credenti è diventata minoranza. Solo da questo gesto può rinascere un atto di coraggio, di libertà, di signorilità. Alla fine si tratta di resistenza. Resistenza alla tentazione, oggi assai ricorrente, di ridurre il cristianesi¬mo a religione civile, svuotandolo così della sua forza profetica. Resistenza alla sua progressiva museificazione ed ermeneutica infinita, che non lo rendono certo più significante. In questa condizione di povertà e di conseguen¬te dimagrimento dell’apparato ecclesiale, si potrà finalmente sperimentare che cosa è fede e reale affidamento a quel Dio che in Gesù si è reso umanissimo compagno di viaggio. Pur in mezzo a ogni grande povertà e spoliazione, non può essere tolto alla comunità dei credenti il suo bene più prezioso: Gesù, la sua santa umanità, riconci¬liata e riconciliante, liberata e liberante, benedetta e benedicente. La povertà confessata, dunque, come tempo opportuno per riscoprire la forza magnetica di Gesù e per rinascere alla verità che egli è misura colma della vita. E’ stato sempre lui la porta attraverso la quale sperare di poter vedere giorni felici. Un tempo di estraneità. Non può continuare, la comunità dei credenti, a fingere a se stessa con la solennità delle sue celebrazioni, con la fierezza dei suoi linguaggi, con lo stipendio di sacramenti, che il tempo aggiusterà ogni cosa. Molti simboli cristiani «hanno perso il potere di trafiggere l’anima: di rendere inquieti, ansiosi, disperati, gioiosi, estatici, ricettivi nei confronti del significato» . Eppure, la fede cristiana avrebbe una plasticità straordinaria! Si pensi al salto dimensionale che i discepoli le fanno compiere dal parlato aramaico di Gesù al greco dei Vangeli. Si sono arresi alla non trasmissibilità dell’aramaico! Hanno rischiato, eccome. Ma non si sono fissati. La traduzione culturale del cristianesimo occidentale oggi vigente, fortemente sacramentalista, gerarchica, sacrale, non regge più. Ovviamente accettando, arrendendosi, senza risentimento a questa nuova forma di povertà: l’estraneità di un modello di cristianesimo, provando a salvarne il meglio. Non è un bene, ma non è neppure il peggiore dei mali possibili. Resistenza al rendere il cristianesimo una estetica, al renderlo un’esperienza individuale, nel senso di un’esperienza in cui il singolo decide della verità di ciò che viene annunciato, celebrato, vissuto. Resistenza a una perdita di memoria della fede nelle nuove generazioni: se non si accetta che per loro è un fatto estraneo, si continuerà a occuparsi ossessivamente di morale, di dottrine sociali, di bioetica, mentre il cuore incandescente del cristianesimo resta in soffitta. Partire dal riconoscimento di questa estraneità significherebbe invece che i credenti sono chiamati ad annunciare una novità. Questa è una grande possibilità. Qui ci vuole resistenza: il cristianesimo non è vecchio, non è passato, non è old. La Chiesa, forse, sì! Duemila anni non sono pochi. Ma la Bibbia e il Vangelo sono ancora ben lontani dall’avere esaurito la capacità di illuminare l’umano che è comune. Un tempo di precarietà. Tutto cambia molto velocemente. Si è posti continuamente dinanzi a mutazioni politiche, economiche e sociali imprevedibili Si è raggiunti da tante notizie e sopraffatti dalle mille voci che entrano dentro il nostro spirito, inquietandolo. Non c’è solo una precarietà lavorativa, finanziaria, c’e pure una precarietà dello spirito, che tocca in sorte a ciascuno. In particolare, l’etica registra un’medita fatica nel fare i conti con le conquiste delle biotecnologie e con le grandi questioni legate al fine vita, al contenimento delle malattie sessualmente trasmissibili. Possono sul serio i responsabili della comunità dei credenti ritenere di avere una parola decisiva per tutto? Un’idea così vincolante da satu¬rare il lavoro del singolo? Domande delicate, certo, e per questo vanno poste in punta di piedi, nella consapevolezza che non sempre la chiarezza delle norme e le norme della chiarezza possano risolvere ogni questione. Si dovrebbe invece mettere più in rilievo la forza elevante, unifi¬cante che possiede il gesto della preghiera. Con più generosità si dovrebbero offrire occasioni elementari di preghiera: - nelle quali poter ritornare sulla verità del proprio essere e agire, - nelle quali potersi ri¬conciliare con la bellezza del mondo e della vita, per pensare e per entrare in contatto con una presenza Altra e alta, con quella «luce gen¬tile», di cui parlò il beato J. H. Newman (1801-1890), - occasioni per incontrare quel Dio ignoto ai più oggi, cui poter finalmente elevare una preghiera che sostenga il precario essere al mondo di ogni uomo e di ogni donna. Un tempo di inattualità. La comunità dei credenti deve accettare, arrendendosi, che non è più di moda la religione cristiana. Per la maggior parte della gente, "quelli della Chiesa" cercano e propongo¬no cose vecchie, fuori moda, fuori gusto, fuori del mondo. Ane¬lano a cose fuori del mondo. Il paradiso, per esempio. Sono gli ultimi, i credenti, a essere convinti che esso non sia nel mondo, né che sia il mondo. Il paradiso invece è qui, su questa terra, e si chiama giovinez-za. Chi la possiede, nulla gli manca. Al centro dell’attuale condiviso immaginario vi è il culto e il mito della giovinezza. Nessuno e interes¬sato alla vecchiaia, alla morte. Si vuole vita, vita piena, vita giovane da qui un continuo vivere "contromano". La fede cristiana e inattuale! Fissa lo sguardo dove nessuno guarda. Lo debbono sapere questo, i cristiani non solo sono estranei, sono inattuali. Debbono sapere di questa resistenza alla loro parola circa la verità e il destino della vita. Debbono arrendersi a questa resistenza, per poter sperare di resistere a essa. La ricerca della giovinezza oggi è ossessiva: nessun occidentale desidera diventare adulto, meno che mai vecchio. La parola "vecchiaia" è scomparsa pure da Wikipedia, la grande enciclopedia di internet. La Chiesa continua a chiamare i suoi ministri "preti", alla lettera: vecchi! L’atteggiamento giusto è quello della resistenza, non quello del risentimento! Si deve resistere anche alla dissoluzione del paradiso nella giovinezza. Un minimo di platonismo è qui necessario alla religione cristiana: il finito non regge alle sue pretese. Ha bisogno di una forza che da se stesso non sa darsi. Senza la misura del paradiso, si perde la misura del finito, del mondo, della sua contingenza, della sua ricchezza e della sua positiva limitatezza. Ecco allora il dispiegarsi di una feconda inattualità del cristianesi¬mo, di una sua conveniente estraneità: la sua denuncia decisa, profetica, che questo mondo non è il paradiso, ma che il paradiso esiste e si deve immaginare là dove esso sta. Per questo si può amare anche l’età adul¬ta, si può accogliere senza risentimento e rancore l’invecchiamento, la malattia e la morte. Si può essere liberi di non essere giovani e di passare ad altri il testimone della vita. Un tempo di debolezza. Va riconosciuto che la chiesa non è più al centro del mondo, della socie¬tà e dell’immaginario diffuso. La chiesa non è più nella cabina della regia della storia. Nessuno quasi attende più da essa il via libera per alcunché. Non ha senso far finta di nulla e stare in attesa che le cose ritornino come prima. La sua situazione di debolezza nei rapporti con la società, con le forze politiche, con l’avanzare delle nuove minoranze va accettata. Un passo indietro farebbe bene. Si torni alla verità dell’essere chiesa: luogo dove ci si trova a far festa per un Dio che ha un debole per l’uomo. Questa è la vera debo¬lezza della fede. Si torni a una chiesa della festa, esperienza antropo¬logica centrale, che permette all’uomo e alla donna di resistere alle schiavitù, alle idolatrie, alla depressione strisciante che da ogni dove oggi li tenta. Un uomo, una donna capaci di far festa sono un uomo e una donna liberi, capaci di un debole per la vita, capaci di un debole per l’altro. In un’intervista del 2011 al quotidiano «Avvenire», Jùrgen Moltmann (n. 1926) ha affermato: «Già troppo a lungo la gente ha relegato il cristianesimo nell’angolo della fede per proseguire indisturbata la secolarizzazione. E’ tempo che la fede cristiana esca dall’angolo: Cristo non ha fondato una nuova religione, ma ha portato una vita nuova!». Questo forse è il tempo opportuno per prendere sul serio tale provocazione.

mercoledì 27 novembre 2013

Agli alunni del Toniolo

mercoledì 27 novembre 2013


Carissmi alunni,
benvenuti nel regno della morale cristiana, regno di verità e di serenità!
La teologia morale, in quanto teologia, si fa più umana e più razionale.
Convive e si confronta con i problemi reali della gente reale.
Interpella il sapere umano e si lascia interpellare a sua volta. 
Fonda e propone una propria opzione, ma sempre 
con il dovuto rispetto per altre visuali autentiche e con l'obiettivo
di costruire un'unica umanità riconciliata con se stessa
e in costante ascesa verso mete ideali di perfezione e di felicità.
Si enuclea così una disciplina che sia rispettosa dello statuto epistemologico
dell'etica e porta il segno indelebile della teologia cristiana.
Diviene così etica teologica o teologia morale che risponde ad un orizzonte
di comprensione del fatto cristiano che sia all'altezza del terzo millennio di cristianesimo.
Il vostro prof. P. Carlo Baldini, passionista.

mercoledì 21 dicembre 2011

L'etica attuale della vita umana

Come gli altri trattati della teologia morale, anche il tema della vita umana si trova davanti a una sfida quella che gli è lanciata dalla situazione presente e dalla prospettiva futura.

Senza disprezzare il passato, la morale si deve orientare di preferenza sulla base delle urgenze del presente e del futuro.

Avendo l’obiettivo di indicare le strade per le quali si deve orientare la morale della vita umana, riteniamo opportuno analizzare gli orientamenti fondamentali per formulare una corretta impostazione dei rapporti tra vita umana ed etica cristiana. Esponiamo tali orientamenti fondamentali in tre momenti:

- indicando il quadro biomedico nel quale si deve situare l’impostazione etica attuale sulla vita umana;

- analiz­zando il significato della bioetica in quanto disciplina interfa­coltativa razionale, dato che la trattazione teologico-morale deve conoscere e tener conto delle impostazioni della raziona­lità etica;

- proponendo la configurazione di un discorso teo­logico morale specifico sui problemi della vita umana median­te la costituzione della bioetica teologica.


1. Quadro biomedico dell’impostazione etica attuale sulla vita umana


Crediamo che l’impostazione etica attuale sulla vita umana debba realizzarsi tenendo conto di due aspetti fondamentali che configurano la situazione attuale della biomedicina e che costituiscono l’inquadratura adeguata per il discorso teo­logico-morale sui temi della vita.

La bioetica non può essere formulata trascurando la realtà.

La ripetizione quasi meccani­ca di formule e soluzioni di altri tempi non è la posizione ade­guata davanti alle nuove impostazioni dei problemi.

Semplificando al massimo la nuova situazione biomedica, riteniamo opportuno tener conto di questi due fattori:


1.1. I progressi della scienza nel campo biologico


La bioetica si trova permanentemente sfidata dai progressi scientifici nel campo della biologia. A volte si chiede al moralista di improvvisare una valutazione morale sul filo di un’informazione più o meno seria, su nuove scoperte scientifiche.

Il fattore decisivo nella rapida configurazione della bioeti­ca consiste negli altrettanto rapidi progressi delle scienze biologiche e mediche.

Questi processi danno origine a seri interrogativi quando sono applicati all’essere umano nella pratica medica. Si pensi, per esempio, alle seguenti possibilità:

- L’ingegneria genetica applicata alla biologia umana, con l’orientamento non soltanto di dare soluzione a infermi­tà genetiche, ma anche, benché ancora in modo ipoteti­co, di manipolare la specie umana.

- Le tecniche di riproduzione umana: l’inseminazione artificiale, con il concomitante immagazzinamento, classifi­cazione e distribuzione di seme umano;

- la fecondazione artificiale, con l’impianto di embrioni nell’utero proprio o affittato, e con il congelamento e la manipolazione di embrioni umani.

- Le nuove frontiere nel trapianto di organi (cuore, cervel­lo) e nelle investigazioni sugli stati intersessuali e sulla transessualità.

- I progressi tecnici nella pratica della rianimazione (problema della eutanasia e della adistanasia), nella diagnosi prenatale (aborto eugenetico), nella sterilizzazione e nel­la contraccezione.

Ci troviamo davanti a un’autentica «rivoluzione biologi­ca». La nuova situazione lancia una sfida all’umanità. Tale sfida può essere espressa con l’interrogativo: tutto ciò che «si può» (tecnicamente) fare, «si deve» (eticamente) fare? Si tratta dell’eterna domanda sul rapporto tra «tecnica» e «eti­ca», tra «scienza» e «coscienza».


1.2. I cambiamenti operati nel concetto della salute e della pratica medica


Alcuni anni fa, Laìn Entralgo concretizzava in quattro caratteristiche la situazione attuale della medicina. «La medici­na odierna è attuale per l’opera congiunta, e a volte conflit­tuale, di quattro caratteristiche o note principali:

- La sua estrema tecnificazione strumentale e un peculiare atteggiamento del medico davanti ad essa.

- La crescente collettivizzazione dell’assistenza medica in tutti i paesi del mondo.

- La personalizzazione dell’infermo in quanto tale e, di conseguenza, la ferma acquisizione del concetto di per­sona in seno alla patologia scientifica.

- La prevenzione dell’infermità, la promozione della salute e il problema se sia tecnicamente possibile un miglioramento della natura umana».

Nella pratica medica attuale stanno emergendo sensibilità e valori che devono essere tradotti nelle considerazioni etiche e negli ordinamenti giuridici: l’autonomia dell’infermo, il ri­spetto della sua libertà, i diritti del paziente (diritto a rifiuta­re il trattamento, compensazione per l’assistenza medica defi­citaria, diritto dell’infermo alle cartelle cliniche). Davanti alla crescente disumanizzazione della medicina sorge l’aspirazione viscerale e la ricerca ragionata per una pratica medica al ser­vizio dell’uomo.

D’altra parte, la dimensione sociale della medicina dà ori­gine a nuove possibilità e a nuove ambiguità.

L’etica si sente interpellata da vari fronti;

- la determinazione delle necessità e delle priorità sanitarie, che non può essere affidata esclusiva­mente a medici e a politici, ma che richiede la partecipazione di tutta la comunità sociale;

- il discernimento tra i diversi sistemi di salute, i cui criteri ispiratori e le cui opzioni operative devono essere sottoposti all’interpellanza morale;

- la denun­cia dello spirito consumistico nell’area della salute, che si traduce nella creazione di necessità artificiali e nell’uso indiscriminato di medicine non necessarie e persino nocive.

Il concetto di salute ha acquisito un’estensione notevole. Implica non soltanto l’idea di stare bene ma anche la realtà della qualità della vita, così come la realizzazione integrale della persona umana. La promozione della salute impone nuovi compiti: alimentazione, igiene, pianificazione familia­re, la società.

Le interferenze di alcune aree con altre esigono l’analisi valutativa e la concomitante riflessione etica.


2.
L’interdisciplinarità della «bioetica» razionale


Nel corso degli ultimi decenni si è andata configurando una disciplina chiamata bioetica o etica biomedica, che in mo­do sistematico studia i problemi morali proposti dalle scienze e dalle tecniche della vita e dall’attenzione alla salute.

La bioetica si presenta come una scienza organica, in stretta rela­zione con l’etica fondamentale e con i dati della scienza e dell’attenzione mediche.

Sebbene non neghi il riferimento religio­so nei discernimenti morali, la bioetica si colloca nell’orizzon­te dell’etica razionale e intende offrire un orientamento valido per la società laica e pluralista.

La riflessione teologico-mora­le deve tener conto delle impostazioni e delle soluzioni della bioetica, mentre, allo stesso tempo, si mantiene coerente con la cosmovisione cristiana.

Qui di seguito offriamo un insieme di prospettive al fine di descrivere il significato e la funzione della disciplina della bioetica razionale.


2.1. Novità terminologica e concettuale


Il termine bioetica è di conio recente. Nato in ambiente anglosassone, ha trovato accoglienza favorevole nelle altre aree linguistiche.

Trattandosi di una novità terminologica e con­cettuale, è necessario iniziare la riflessione con un insieme di accostamenti allo stesso tempo delimitativi e chiarificatori.

Il termine deriva dalla radice greca di due parole di notevole significato: bios (vita) ed éthos (etica).

Proposito generale della bioetica è raggiungere la «composizione» adeguata tra codeste due realtà della vita e dell’etica; una composizione che non sia puramente una giustapposizione ma un’autentica inte­razione.

La relazione attiva e stimolante tra vita (bios) ed etica (éthos) può essere intesa con maggiore o minore ampiezza e con minore o maggiore precisione.

Per Potter (1971), uno dei primi a utilizzare il termine bioetica come titolo di un libro e con il senso programmatico di una nuova sezione del sapere, la bioetica consiste fondamentalmente nel servirsi delle scienze biologiche per migliorare la qualità di vita.

In que­sta considerazione si avverte immediatamente tanto l’ampiez­za di significato come la conseguente imprecisione del contenuto.

Ci sono coloro che, situati sull’estremo opposto, limitano il rapporto tra vita e valori etici all’area dell’attività medica. Secondo questa considerazione, la bioetica verrebbe a essere un nuovo termine per esprimere il vecchio concetto dell’etica medica.

Come Kieffer avverte, «per molte mentalità, questa è l’accezione predominante».

Non si può togliere importanza ai due orientamenti accen­nati. Da una parte, i fatti biologici hanno una inevitabile ri­percussione nei valori etici; i progressi scientifico-tecnici della biologia devono essere orientati per promuovere la qualità di vita, individuale o sociale, personale e ambientale.

D’altra parte, dove la vita umana si trova problematizzata in modo decisivo è nelle situazioni sottoposte alla pratica medica. Ne segue che la bioetica debba assumere i problemi e gli obiettivi sia dell’«etica della natura» (ambientale) sia dell’«etica della biomedicina».

Tuttavia, la nozione di bioetica si estende oltre la morale medica e possiede una precisione maggiore di quella espressa dall’etica ambientale.

Nell’attuale momento, la nordamerica­na Encyclopedia of Bioethics segna il significato vigente della bioetica, la quale «può essere definita come lo studio sistema­tico del comportamento umano nell’area delle scienze della vita e della cura della salute, in quanto il detto comportamen­toe ‘ esaminato alla luce dei valori e dei principi morali».


In conformità con questa considerazione, la bioetica è formalmente un ramo o subdisciplina della scienza etica, dalla quale riceve lo statuto epistemologico basilare e con la quale mantiene un rapporto di dipendenza giustificatrice e orientatrice.

Alla bioetica i contenuti materiali sono forniti dalla real­tà della «cura della salute» e dai dati delle «scienze della vita» come la biologia, la medicina, l’antropologia, la sociologia.

L’analisi dei temi, benché abbia un onnipresente riferimento all’etica, deve essere eseguita mediante una metodologia interdisciplinare; scienza, diritto, politica sono grandezze imprescin­dibili per configurare la bioetica.


2.2.Deconfessionalizzazione e dedeontologizzazionè dell’etica


Per molto tempo i problemi morali della biomedicina sono stati orientati e regolati fondamentalmente da due istanze: la morale religiosa e i codici deontologici.

Non è giusto né esatto trascurare di riconoscere a queste due istanze un ruolo decisivo nella storia dell’etica della biomedicina.

Tanto meno è segno di maturità scientifica proscrivere come spuri ogni riferi­mento religioso e ogni codificazione deontologica in rapporto con l’etica attuale della vita umana. Sono prospettive degne di essere considerate.

Nonostante gli apprezzamenti precedenti, la bioetica si è configurata a partire dalla deconfessionalizzazione dell’etica e liberandosi dal predominio della codificazione deontologi­ca.

Questo, dal punto di vista positivo, significa che la bioeti­ca:

- deve fondarsi sulla razionalità umana laica, e condivisa da tutte le persone;

- deve situarsi sul terreno filosofico, .cercando un paradig­ma di «razionalità etica» che si situi al di là dell’ordina­mento giuridico e deontologico e al di qua delle convin­zioni religiose.


2.3. Il paradigma di razionalità in bioetica


La debolezza e la forza della bioetica dipendono in grande misura dalla teoria etica generale in cui si situano le impostazioni e gli orientamenti. La bioetica funziona all’interno di un paradigma di razionalità etica, il quale le fornisce il carattere di riferimento per i discernimenti e per le proposte operative.

Ci sono tanti paradigmi di razionalità etica quante sono le teorie filosofiche sulla moralità. Nella bioetica ne sono appli­cate diverse con maggiore o minor risultato.


2.3.1. Paradigmi teleologici


Nel mondo anglosassone prevalgono due paradigmi:

- quello consequenzialista o utilitarista;

- quello dell’etica evoluzionista.

Secondo il paradigma consequenzialista la moralità si misura dai risultati dell’azione, cioè dall’utilità, individuale o sociale, che risulta da una determinata azione.

Il paradigma dell’etica evoluzionista fa coincidere la mora­lità con quelle condizioni che «minimizzano la sofferenza umana e massimalizzano quei valori umani che innalzano la sopravvivenza della comunità umana, la qualità della vita per tutta la società e il livello di potenziale umano per ciascun individuo».


2.3.2. Paradigmi deontologici


Insieme ai due paradigmi menzionati di carattere teleologi­co ce ne sono altri di taglio più deontologico.

Sono quei siste­mi che fondano la razionalità etica su un «ordine» precedente all’azione e indipendente dalle conseguenze di questa. La teo­ria classica della «legge naturale» e il formalismo morale kan­tiano sono esempi qualificati del sistema morale deontologi­co.


2.3.3. Verso un paradigma pragmatico con funzionalità pubblica


Senza che sia necessario dirimere la discussione accademi­ca sull’uso dell’uno o dell’altro dei paradigmi etici, riteniamo che la bioetica abbia bisogno di optare per un’inquadratura di riferimento più concreto e con funzionalità pubblica.

In conformità con la situazione laica e pluralista della società democratica, la bioetica deve essere impostata all’interno d’una ra­zionalità etica delimitata dai parametri della democratizzazione, del dialogo pluralista e della convergenza d’integrazione.

Le esigenze di tale razionalità sono soddisfatte dal paradig­ma dell’etica civile.


2.3.4. I criteri di riferimento della bioetica


Il paradigma dell’etica razionale e civile può essere concretato in un complesso di validità etiche e di orientamenti estirna­tivi che hanno funzionalità diretta nel campo della biomedici­na.

Le une e gli altri costituiscono i criteri di riferimento della bioetica.



2.3.4.1. Validità etiche


Si può constatare una serie di valori che sono generalmente ammessi come orientamenti basilari per il giudizio etico nel campo della bioetica.

Così, per esempio, il principio di cercare sempre «il bene del soggetto» o, con formulazione negativa, «non causare danno al soggetto». L’assioma «primum non nocere» è un’espressione fondamentale dell’éthos della medicina a partire dal codice ippocratico fino ai nostri giorni.

Allo stes­so livello di questo criterio bisogna situarne altri, come il principio della libertà di ogni soggetto razionale e il diritto di tutti a una giusta distribuzione dei benefici e degli obblighi nell’ambito del benessere di vita.


2.3.4.2. Orientamenti estimativi


Gli interventi umani sul terreno della biomedicina sono sottoposti a orientamenti etici specifici. Qui di seguito, ne enumeriamo i più decisivi:

- In primo luogo, le formulazioni etiche della biomedicina devono liberarsi dai residui tabuistici di una morale eccessivamente «timorosa» davanti agli interventi dell’uo­mo in questo ambito della sua realtà.

La mitizzazione e la falsa sacralizzazione di un «ordine naturale» ha condotto l’etica della vita umana nei vincoli ciechi di una normatività morale «fisicista» e «naturalista».

La bioetica deve fare un grande sforzo per liberarsi da tali impostazioni.

- Da una morale «naturalista» è necessario passare a una morale nella quale il criterio fondamentale sia la persona.

Orbene, è necessario che la comprensione normativa di persona sia intesa all’interno di una visione globale.

«La mo­rale medica del futuro è alla ricerca di un concetto di totalità che abbracci tutto: la dignità e il benessere dell’uomo, in quanto persona, nel suo rapporto fondamentale con Dio, con l’uomo e con il mondo che lo circonda».

Questo perso­nalismo morale non va inteso in chiave «individualistica» e «privatistica»; si tratta di un personalismo inteso e valutato dal punto di vista dell’alterità.

I problemi concreti di morale medica gravitano attorno alla normatività etica della persona.

- Liberata la morale dai residui tabuistici di un «ordine naturale» sacralizzato e proiettata sul principio basilare della persona come realtà normativa, è opportuno inten­dere l’etica della biomedicina come l’istanza normativa del processo di umanizzazione ascendente.

L’influenza dell’uomo e della società sulla condizione corporea umana rivolge la chiave di interpretazione e di normatività preferibilmente verso il futuro: nell’idea di uomo che de­sideriamo realizzare.

Non ogni progresso tecnico deve essere iscritto senz’altro nel processo di umanizzazione. Di qui il fatto che la bioetica deve tener conto dei criteri del discernimento per esprimere l’istanza etica dei progressi scientifico-tec­nici nel campo della biologia.

I giudizi morali devono cercare il percorso difficile e incerto tra la Scilla di un’accettazione ingenua di tutto il nuovo e la Cariddi di una riserva reazionaria davanti ai progressi scientifico-tecnici.

Riconosciamo che è difficile trovare la rotta sicura. Non è facile risolvere con certezza l’ambiguità latente in ogni progresso umano. La morale della biomedicina si trova collocata tra la «manipolazione» e l’«umanizzazione».

Quali sono i criteri per distinguere l’una e l’altra?

Tale è uno dei compiti della bioetica.

I moralisti si confrontano in questo aspetto dell’accettazione più o meno ingenua oppure più o meno sospet­tosa dei progressi scientifico-tecnici nel campo della biologia.

- Negli ultimi anni si è parlato della necessità di formulare la morale in termini «provvisori», nello stile della morale accettata da Cartesio nel processo del «dubbio metodico».

Questo carattere di provvisorietà e di ricerca ha la sua applicazione nel campo della bioetica.

Come dice Sporken: «Le intuizioni che ci sono state trasmesse appaiono oggi, a motivo del mutamento delle nostre idee dell’uomo e del mondo, sottoposte a una profonda revi­sione critica. Ciò si deve dire con enfasi ancora maggiore per quanto riguarda l’etica medica, dato che l’investigazione medica e l’assistenza facoltativa si trovano in uno sviluppo progressivo straordinariamente rapido. Ne risulta un’impresa az­zardata pubblicare un libro sull’etica medica in mezzo a simile evoluzione. Ancora non si possono dare risposte definitive ai problemi impostati tanto dalle scienze mediche e affini quanto dalla stessa società umana dei nostri giorni».

Nella soluzione dei problemi morali della vita corporea la morale tradizionale ha dato molta importanza a un insieme di «principi» o assiomi, come quello del «doppio effetto» e della «totalità».

L’impostazione attuale della bioetica deve tenere conto della revisione cui tali principi sono stati

mercoledì 9 novembre 2011

Le cellule staminali

1. Chiarificazione dei termini

Ricerca: è l’anima e il motore del progresso
Essa:
- indica la direzione da seguire per conoscere la natura delle cose, dei processi, dei comportamenti;
- usa il metodo scientifico che è basato su: osservazione, formulazione di ipotesi, verifica sperimentale, validazione.
La ricerca è sempre mossa dal desiderio di conoscere, di sapere di più di una realtà data o fenomeno (ricerca pura) o finalizzata ad uno scopo (ricerca applicata).
La ricerca può comportare dei rischi perché, trovando soluzioni per migliorare la vita dell’uomo, non sempre può prevederne tutte le implicazioni.

2. Medicina e biologia

Queste due parole unite insieme (biomedicina) danno vita ad una scienza che studia la biologia e la medicina ad essa confacente.
La biologia studia i processi fisici e chimici che originano e regolano la vita e il suo ambiente.
L’essere umano è costituito di cellule.
Lo studio di esse porta a conoscere meglio il funzionamento con i suoi aspetti fisiologici e patologici.
La medicina studia le possibilità di produrre nuovi farmaci e conoscerne il meccanismo d’azione dei farmaci con la relativa azione biologica.
La ricerca biomedica avviene:
- in vitro o in laboratorio: si studiano cellule di animali sani o malati per conoscere i fenomeni biologici. Questa è medicina sperimentale;
- in vivo: studio su animali o sull’uomo per migliorare i procedimenti diagnostici e terapeutici con ricerca chimica.
E’ ovvio che le scienze sperimentali necessitano di un continuo processo di orientamento etico.

3. Cellule staminali

La biomedicina è composta di vari settori. Tra essi possiamo annoverare:
- medicina procreativa o fecondazione medicalmente assistita,
- medicina rigenerativa o stimolazione per rigenerare cellule, tessuti e organi,
Queste tecniche utilizzano le cosiddette "cellule staminali". Esse sono cellule capaci teoricamente di riprodursi all’infinito e, poste in determinate condizioni, capaci di trasformarsi in cellule specializzate: neuroni, cellule epatiche, cellule del sangue.
Ne esistono di vari tipi. I più importanti sono:
- totipotenti: possono dar vita a qualsiasi tessuto o organismo intero. Si possono estrarre da embrioni vivi (CSE),
- pluripotenti: possono dar vita a qualsiasi tessuto, ma non ad un organismo intero. Si trovano nel liquido amniotico, nella placenta, nel sangue del cordone ombelicale,
- Unipotenti o specializzate: sono presenti in ogni tessuto adulto ma in numero assai limitato.

3.1. Cellule staminali embrionali

Queste cellule, oltre a presentare ancora grosse problematiche scientifiche sul loro utilizza, sono fonte di questioni etiche, perché per ottenerle è necessario sopprimere l’embrione.
L’opinione comune tende a pensare la ricerca scientifica ad un qualcosa di neutrale. La valutazione etica entra in scena al momento dell’applicazione, in quanto può diventare strumento diagnostico (radiologia) o strumento distruttivo (la bomba atomica).
Nel caso delle cellule staminali il problema etico non si pone al momento dell’utilizzo, ma al momento della loro produzione.
Infatti per ottenerle dall’embrione è necessario prelevare le cellule interne (o blastomeri) dell’embrione di almeno quattro giorni (si tratta del blastocisti).
Si tratta di produrre embrioni umani o utilizzare quelli crio conservati in banche per embrioni e poi distruggerli.

3.2. Cellule staminali adulte

Dette anche somatiche. Sono isolate da diversi tessuti. Il loro utilizzo, per altro già ampiamente operato clinicamente e risultati sicure per i pazienti, non presenta problemi etici.
In alcuni casi si sono isolate cellule pluripotenti da tessuti con elevata plasticità, quali il midollo spinale, il sangue del cordone ombelicale, il liquido amniotico o della placenta. In altri casi si sono isolate da tessuti già ben differenziate quali la cornea, il tessuto adiposo, il bulbo alfatico.

4. Problemi etici

In genere il mondo mediatico quando parla di cellule staminali fa riferimento alla ricerca biomedica. Si parla di esse sempre in senso generale, senza specificare il tipo, adulte o embrionale.
In genere si critica il giudizio negativi della chiesa sull’uso dell’embrione umano come mezzo per raggiungere nuove metodologie terapeutiche, affermando che il giudizio della chiesa blocca la ricerca sulle cellule staminali.
In realtà la chiesa afferma che: «la ricerca sulle cellule staminali somatiche merita approvazione e incoraggiamento quando coniuga felicemente insieme il sapere scientifico, la tecnologia più avanzata in ambito biologico e l’etica che postula il rispetto dell’essere umano in ogni stadio della sua esistenza» (PAV, 2006).
L’opinione pubblica fa questo semplice ragionamento: la maggioranza delle malattie è dovuta a un insieme di fattori genetici, ambientali, comportamentali interagenti tra loro.
Questo spiega perché il progresso della conoscenza diagnostica in genetica è sempre molto più veloce di quello terapeutico.
Il ragionamento deterministico: dato un effetto deve esserci senz’altro una causa, mistifica il senso del dibattito sul paino della realtà.
Si pensi, per esempio, alla diffusione dello stretto rapporto tra diagnosi prenatale e prasi abortiva o alla diffusione di banche con seme geneticamente selezionato.
Il ragionamento sotteso e il seguente: migliore Dna uguale migliore salute, prestanza fisica, maggior benessere del nascituro.
Si pensi, inoltre, alla selezione genetica operata mediante la diagnosi reimpianto, diagnosi che precede il trasferimento in utero dell’embrione, per evitare la nascita di bambini con fattori di rischio per malattie importanti e nel futuro.
Sono all’ordine del giorno diagnosi genetica preimpianto per individuare embrioni di sesso femminile portatori di cancro al seno, malattia di origine multifattoriale.
A questo punto sorgono le seguenti domande:
- E’ lecito l’uso di embrioni umani per la produzione di cellule staminali?
- E’ lecito la selezione di embrioni in epoca preconcezionale, anche per fattori di rischio di malattie che eventualmente si svilupperà in età adulta?
La prima domanda rimanda alla natura dell’embrione e dell’azione umana. La biologia insegna che l’embrione umano è individuato da un Dna che lo caratterizza biologicamente per tutto il corso della sua vita. Il suo sviluppo prosegue in modo coordinato, continuo, graduale dalla prima cellula fecondata (zigote) fino alla morte. E’ un essere umano a pieno titolo.
La seconda domanda può essere assolta dicendo che: un atto, mosso da finalità buona, non può essere compiuto attraverso un’azione che tende a distruggere la vita umana.
A proposito la PAV (Pontificia Accademia per la Vita) afferma: «nell’elaborazione di un itinerario di ricerca biomedica che sia rispettoso del vero bene della persona risulta appropriata la seguente metodologia:
- esposizione dei dati biomedici,
- approfondimento del significato antropologico,
- individuazione dei valori in gioco che tale fatto comporta,
- elaborazione di norme etiche atte a guidare il comportamento degli operatori in determinate situazioni».
Migliorare la qualità della vita è possibile e doveroso, senza però danneggiare nessuno.
Per questo l’uso di cellule staminali embrionali non è moralmente accettabile.

giovedì 10 febbraio 2011

1.1. MORALE DEI PADRI prima parte

1. Introduzione

Dopo aver studiato il fondamento biblico è bene ora soffermarci sui fondamenti storici della morale. Vogliamo, cioè tracciare le linee fondamentali della storia della morale.
La storia della teologia morale è una disciplina relativamente giovane. E’ nata dopo la seconda guerra mondiale.
Lo spazio logico della nuova disciplina sgorga da una duplice consapevolezza:
- L’essenziale storicità dell’uomo, che costituisce uno dei parametri fondamentali dell’auto-comprensione dell’uomo odierno. Questo discorso ha coinvolto necessariamente anche il discorso teologico. L’incontro fra coscienza storica e discorso teologico ha costretto la teologia, non tanto a rivedere le sue posizioni su alcuni punti marginali, ma a porsi il problema della sua identità epistemologica. Anche la storia della teologia morale deve fare i conti con la cosiddetta "svolta antropologica".
- La seconda consapevolezza è data dal faticoso cammino della identificazione del suo statuto epistemologico. Visto che la teologia morale è la teoria critica della prassi cristiana, cioè ha il compito di svolgere una adeguata analisi ermeneutica, cercando di scoprire il significato ultimo della prassi cristiana in obbedienza al kerigma, ne segue che deve verificare le radici storiche o la genesi della vita cristiana.
La ricerca storica ha origine nel momento stesso in cui il teologo morale interpreta il suo lavoro come servizio alla comunità cristiana, per aiutarla a fare un sereno discernimento sulla sua eventuale coerenza o incoerenza al kerigma apostolico.
«La conoscenza della storia ci apre la strada di un sano relativismo, ma è al contrario un mezzo per essere e considerarsi con maggiore verità e, vedendo la relatività di quanto è effettivamente relativo, per conferire la qualità di assoluto solo a ciò che lo è veramente. Grazie alla storia, percepiamo l’esatta proporzione delle cose, evitiamo di considerare "tradizione" quello che è nato l’altro ieri e che nel corso del tempo è cambiato più di una volta»[1].

2. Preliminari

La scansione storica che adotto in questo beve trattato di storia della teologia morale è quella consueta:
- Morale dei padri,
- Morale dei teologi medioevali,
- Morale casitica
- Morale del neotomismo
- Morale dopo il Vaticano secondo.

3. Periodo patristico

Iniziando a parlare dell’origine della storia della teologia morale, è necessario soffermarci brevemente sulla situazione culturale delle origini cristiane. Essa è caratterizzata dalla presenza di numerose e varie correnti filosofiche. Correnti che è necessario conoscere se si vuole comprendere al meglio la riflessione che all’intero di esse i padri hanno sviluppato.
Dette correnti filosofiche avevano assunto un significato prevalentemente morale e religioso. La prima generazione di cristiani elaborerà la prima originale moralità proprio in questo contesto.
Si può costatare che per i primi due secoli dell’era cristiana non esiste in interesse di carattere teorico le tematiche morali e la produzione letteraria da interessi pratici, parenetici e pastorali.
L’elaborazione delle esortazioni facevano ricorso a categorie concettuali usate dalla contemporanea riflessione filosofica popolare.
Questo mutuare dalla filosofia popolare è favorita dall’obiettiva convergenza degli intenti pedagogici e protrettici e della filosofia popolare che della nuova religione.
E’ necessario, inoltre, dire che l’interesse della ricerca circa i temi di morale è strettamente legata a motivi apologetici, la necessità per Padri e i primi scrittori ecclesiastici di dimostrare la continuità con l’insegnamento biblico.
C’è però anche chi sostiene che la prima generazione cristiana è una pedissequa ripetitrice dei luoghi comuni della filosofia popolare ellenistica. Ci si serviva in modo particolare della filosofia stoica.
La ricerca storica, poi, di questo periodo è un po’ carente:
- Mancano tentativi di sintesi sufficientemente elaborati e informati;
- Abbondano, però, studi di carattere monografici;
- Gli studi di carattere sintetico hanno come oggetto lo sviluppo delle tematiche presenti nei vari padri.

Il problema principale della storiografia degli inizi della chiesa è il problema dell’ellenizzazione del cristianesimo. Era inevitabile che la religione di Cristo si confrontasse con la cultura greca, che aveva influenzato l’intero mondo allora conosciuto.
Mentre da una parte si rifiuta categoricamente le coordinate religiose della cultura greca, dall’altra si è propensi ad utilizzare le sue categorie filosofiche e culturali.
La questione della dipendenza del pensiero cristiano dalla cultura ellenistica non riguarda la legittimità del processo, ma le forme storiche in cui si è realizzato.
Più complessa è la questione del rapporto tra forme letterarie e forme di esperienza di vita. Si possono avanzare due costatazioni:
- Da una parte si costata una dipendenza del pensiero e del linguaggio cristiani dal pensiero e dal linguaggio ellenistici;
- Dall’altra le difficoltà di sviluppo di un interesse di carattere teorico per la morale.
E’ stato proprio l’accordo del cristianesimo nascente con la morale ellenistica che ha fatto ritenere non urgente una riflessione teorica su temi di morale. Invece si è sentito urgente una riflessione adeguata su temi cristologici e dogmatici.
Questa puntualizzazione è importante per lo sviluppo successivo della teologia, in quanto conserva a lungo le caratteristiche della sua origine dommatica, rimane cioè ancorata ai contenuti della fede piuttosto che alla morale. Si può condividere la tesi che la teologia all’inizio non era teologia morale e che non aveva voglia di divenirlo.

4. Morale cristiana e filosofia pagana

E’ necessario subito notare che il facile accordo con la morale proposta dalla filosofia ellenistica, ha ritardato la possibilità di una proposta morale specifica della prima cristianità.
Vi sono tuttavia alcune tematiche morali nel confronto apologetico e polemico con la filosofia pagana. Gli apologisti sostenevano che: anche se gli ideali di vita proposti dai cristiani e dai filosofi pagani erano gli stessi, si notavano due sostanziali differenze:
- I cristiani non propongono solo a parole gli ideali di vita, ma li praticano,
- Le cose che i pagani raccomandano in modo inefficace e confuso, i cristiani lo propongono con argomenti persuasivi e fondati.
Dalla prima differenza possiamo dedurre: la letteratura apologetica ha un tratto marcatamente pragmatico nell’approccio ai temi morali. L’insistenza, poi, sulle questioni pratiche fa ritenere le sottili questioni teoriche sofisticate questioni retoriche. Del tutto nuove sono le tematiche del martirio e della verginità.
La seconda differenza porta a qualche novità nell’elaborazione. Gli argomenti per rendere più urgente l’imperativo morale della pratica delle virtù sono:
- Argomento della rivelazione,
- Argomento della interiorità
- Argomento escatologico,
- Argomento della testimonianza.
Si nota inoltre che accanto ad alcune originalità vi sono diffuse dipendenze della riflessione cristiana dalla morale filosofico-popolare ellenistica. Una maggiore predisposizione c’è senz’altro nei confronti della riflessione stoica.
La ricezione delle categorie stoiche fu per il cristianesimo più immediata perché erano quasi del tutto attinenti la prassi morale. In questo modo gli ideali morali non dovevano necessariamente essere ricondotti a prospettive ontologiche o religiose. Quello stoico è un pensiero eclettico giunto agli autori cristiani da florilegi o raccolte di detti.
La scarsa compattezza dottrinale, poi, rendeva la sua ricezione più agevole e meno gravida di risvolti dottrinali.
Gli stoici consideravano il mondo fondamentalmente buono a guisa di una grande città, dimora degli uomini essenzialmente uguali.
Le categorie fondamentali della morale stoica sono:
- La vita retta e autonoma,
- La vita coerente.
La coerenza è richiesta sia con se stessi che nei riguardi del logos, inteso come legge della natura o della ragione. L’uomo deve vivere secondo natura o ragione e deve lottare contro le passioni per raggiungere l’apatia.
Il pensiero cristiano ribadisce la lotta contro le passioni, ma non adotta il concetto di apatia. Dal pensiero stoico viene mantenuta la centralità della legge di natura o di ragione con qualche piccola differenza.
L’altra grande corrente filosofica, che ha influito sul cristianesimo, è la tradizione platonica. In questo caso, però, la considerazione morale non può essere separata dall’orizzonte ontologico, antropologico e religioso.
L’insegnamento della tradizione platonica più utilizzato dal cristianesimo è il primato della "theoria" sulla prassi, destinato a diventare nel cristianesimo primato della vita contemplativa.
In questa visione il momento pratico della vita viene ricondotto al momento ascetico, preliminare all’esercizio delle virtù. La vita se è esercizio virtuoso.
Tuttavia il primato della teoria sulla pratica, rischia di far passare in secondo piano il comandamento della carità e in subordine lo steso agire rispetto al conoscere o la disposizione pratica rispetto alla conoscenza della verità (rischio gnostico).

5. Morale cristiana ed ebraismo

La rapida assimilazione delle istanze morali dell’ellenismo da parte del cristianesimo ha condizionato il rapporto tra cristianesimo e ebraismo. Questo può essere ricondotto al solo problema dell’interpretazione delle Scritture.
Gli ebrei consideravano importante il senso allegorico delle Scritture, i cristiani consideravano importante anche il senso letterale.
Un altro problema era la differenza da attribuire all’Antico Testamento rispetto al Nuovo.

6. I Padri apostolici: preliminari

I Padri apostolici sono così chiamati perché nei loro scritti, composti tra la fine del I° e la prima metà del II°, si percepisce un fedele riflesso della predicazione apostolica. Di questa tramandano anche la prima riflessione sulla moralità cristiana, senza pretesa di esaustività.
Si tratta ordinariamente di scritti occasionali, la maggioranza lettere, senza alcun intento sistematico. Avvenendo, poi, la trasmissione ordinaria attraverso la predicazione orale, la documentazione scritta è assai scarsa.
Pur non essendo i Padri apostolici dei moralisti sistematici, tuttavia elaborano una certa riflessione morale. Tutti gli scritti appartengono al genere parenetico e catechetico, per questo contengono specifiche riflessioni morali.
Appartengono ai Padri apostolici i seguenti scritti:
- Le lettere di Ignazio di Antiochia,
- La lettera ai Filippesi di Policarpo di Smirne,
- La lettera ai Corinzi di Clemente romano,
- Il martirio di Policarpo,
- L’omelia dell’Pseudo Clemente,
- La Didaché
- La lettera dello Pseudo Barnaba
- Il Pastore di Erma.
Questi scritti traggono i loro insegnamenti dalla Sacra Scrittura. Inoltre, fatta eccezione per le Lettere di Ignazio, si ispirano anche alla tradizione religiosa e culturale del giudaismo, in particolare all’essenismo, desiderando un ritorno ad esso.
Ciò sta a dimostrare la forte difficoltà a svincolarsi dal giudaismo e debole influsso dell’ellenismo. Si può notare che la riflessione morale cerca schemi e categorie utili alla predicazione nel mondi giudaico.
Detto che negli scritti apostolici non c’è una dottrina morale uniforme e sistematica, gli insegnamenti comuni e costanti sono inviti:
- alla pratica della virtù,
- a seguire la via del bene,
- a convertirsi,
- a entrare nel regno di Dio, nuovo alleanza.
Si rifiuta il legalismo formalistico tipico del giudaismo. Si pone l’accento sul nesso tra fede e morale, sulla interiorità di una religione autentica. Manca una qualsiasi analisi della natura umana. La morale è di tipo teocentrico e cristocentrico, consistente nel discernere la volontà di Dio.
I Padri apostolici prediligono schemi mutuati dal giudaismo, come la trilogia: digiuno, preghiera e elemosina, o la via del bene e del male. La Didaché considera il tema delle due vie sotto l’aspetto retributivo, altri scritti invece alla luce di una metafisica dualista, infatti il dualismo morale è connaturale allo spirito umano.
Già nella Genesi l’albero del bene e del male è associato alla contrapposizione vita-morte, bene-male. Queste categorie esprimono nella Bibbia il dualismo morale ed escatologico. Nel NT si preferiscono i temi: luce-tenebre, vita-morte e lo schema delle due vie.
Nella prima letteratura cristiana le due vie indicano l’inizio della vita cristiana con la decisione di rinunciare a Satana e decidersi per Cristo. La scelta iniziale impegna il cristiano a fondare la propria vita su orientamenti precisi. La fedeltà ad essi costituisce il criterio di appartenenza ad una via menché ad un'altra. Il tema delle due vie è l’espressione di due diversi modi di vivere, di due cammini diversi: la fede e l’empietà.
All’interno, poi, di questo contesto vengono elaborati alcuni temi morali desunti dalla Bibbia e dal giudaismo: il decalogo, il discorso della montagna, le beatitudini, la legge della carità, la regola d’oro.
I Padri apostolici mostrano interesse per i temi della morale affrontando problemi diversi non solo di ordine personale, ma anche coniugale e sociale. E’ da notare, poi, che l’insegnamento morale è strettamente collegato con l’esperienza liturgica.
La prima generazione cristiana è consapevole che l’originalità della morale cristiana non è nei contenuti, ma nei fondamenti. E’ il kerigma e non un’astratta concezione della natura, che veicola la volontà di Dio.
Credere in Cristo vuol dire cambiare vita, convertirsi. Ne segue che l’insegnamento morale è inscindibile dall’annuncio.
Oltre alle Lettere di Clemente, Ignazio e Policarpo, prenderemo in esame anche la seconda Lettera di Clemente, che è un’antica omelia morale; la Didaché, in cui la morale viene presentata in forma semplice e tratta direttamente dalla Bibbia; la lettera dello Pseudo Barnaba, esempio di reazione contro il legalismo e il ritualismo giudaico; il Pastore di Erma, in cui è forte la tendenza ascetica.
Farò, poi, riferimento anche a due scritti che ufficialmente non fanno parte dei Padri apostolici: le Odi di Salomone, esempio di gnosi giudeo-cristiano, e il Vangelo di Tommaso, esempio di morale encratista (predicava la continenza e la moderazione) in ambiente giudeo-cristiano.

7. Lettere di Vescovi

Clemente di Roma (papa dal 92 al 99)
Clemente fu il terzo successore di Pietro. E’ ritenuto essere l’autore di una Lettera ai Corinzi citata da molti padri della chiesa. Può essere datata intorno al 96, perché si fa riferimento a «calamità e sciagure» abbattutesi sulla comunità di Roma, chiaro riferimento alla persecuzione di Domiziano (m. 98). La lettera è motivata dalla deposizione di alcuni presbitero dalla comunità di Corinto senza motivazione. Essa intende portare la pace. Si tratta di un documento fondamentale per dimostrare il primato di Roma sulle altre comunità.
L’AT viene definito "unico codice conosciuto", la norma «gloriosa e veneranda della nostra vocazione». Scritto di carattere parenetico sembra una raccolta di testi scritturistici. Ciò fa supporre che Clemente fosse di origine ebraica, con una buona preparazione letteraria e filosofica.
La lettera, divisa in due Parti (cc1-38, 39-58), contiene indicazioni e ordini destinate a sedare le discordie della comunità. L’ultima parte contiene una lunga preghiera. Dopo aver elencato le virtù cristiane: carità, penitenza, obbedienza, fede, compassione, ospitalità, umiltà, pace e concordia, espone i motivi per praticare dette virtù: l’esempio di Cristo e dei santi, l’ordine e l’armonia ch devono regnare nel mondo, le promesse escatologiche, le benedizioni di Dio in Cristo.
La lettera propone una vita virtuosa secondo la sapienza cristiana. Ne individua le motivazioni: nel timore di Dio, nell’obbedienza alla sua volontà e nel suo servizio. Cristo e i santi vengono colti come modelli di umiltà. Le condizioni generali della vita virtuosa sono: fede e opere, lotta contro il peccato, pratica delle virtù fondamentali, fede, speranza e carità, le virtù sociali. Come si può costatare la lettera è una specie di trattati delle virtù pur non nominando mai la parola virtù.
Presenta la vita morale come una lotta dell’uomo contro se stesso e invita a rigettare i vizi dell’invidia e della gelosia. La morale della lettera consiste nell’obbedienza alla volontà e ai comandamenti di Dio. E’ una morale teonoma, ma anche cristonoma.
Insieme a questa lettera è conservato uno scritto che porta il titolo seconda Lettera ai Corinzi, ma che è in realtà una omelia collocabile tra il 120 1 il 150. E’ ricca di citazioni di parole di Gesù. L’idea guida dell’omelia è: la salvezza è un dono di Dio, cui va risposto con la penitenza intesa come obbedienza ai comandamenti consistenti nella castità e nella elemosina. Si presenta la vita cristiana come una lotta (agon) da cui agonismo. Si tratta di un agonismo spirituale, un esercizio continuo della virtù.

8. Ignazio di Antiochia (75-120)

Ignazio fu il terzo vescovo di Antiochia e martire a Roma sotto l’imperatore Traiano (53-117). Durante il viaggio verso Roma scrisse sette lettere: ad Efeso, Magnesia, Tralle, Roma, Filadelfia, Smirne e a Policarpo.
Questo epistolario costituisce uno dei più importanti documenti del cristianesimo antico, soprattutto per la dottrina del primato della Chiesa di Roma, e per gli inviti a guardarsi dalle correnti giudaizzanti e dal docetismo, eresia che nega la realtà della carne di Cristo e afferma che Gesù a sofferto solo in apparenza.
La mistica di Ignazio esprime i tratti fondamentali dell’esperienza cristiana. E’ la mistica di un vescovo che nutre un ardente aspirazione personale al martirio per poter diventare simile a Cristo . Ha un forte amore verso il gregge a lui affidato.
Ignazio, convinto che il cristianesimo ha stabilito un nuovo ordine, un nuovo modo di vivere e non è più possibile tornate all’antico patto, presenta la vita cristiana come un’unione con Cristo e invita a incorporarsi sempre più al suo mistico corpo, a impegnarsi a seguire Cristo con una disponibilità incondizionata anche nella sofferenza, fino al martirio. E’ la grazia la sorgente unica dell’imperativo morale.
Essere cristiani significa seguire Cristo nell’amore, nella sofferenza, nell’incondizionata prontezza a morire per lui. Centro e sorgente della vita cristiana è l’altare, l’eucarestia.

9. Policarpo di Smirne (70-155)

Fu discepolo egli apostoli, in particolare di Giovanni, da loro fu eletto vescovo di Smirne. Poco prima del martirio, compì un viaggio a Roma per discutere con papa Aniceto (155-166) la data della pasqua. Non si giunse ad un accordo.
Secondo Ireneo (m. 175) scrisse molte lettere pastorali, ma a noi ne è pervenuta una sola, indirizzata alla chiesa di Filippi. La lettera è una fonte per conoscere le costanti della morale e della predicazione antica.
Dopo una esortazione a rimanere nella verità e nella fede tenendo lontano l’avarizia, primo di tutti i mali, riporta un codice domestico, ricorda i doveri delle mogli, delle vedove, dei diaconi, dei giovani, dei presbiteri. Si esorta al timore di Dio e a chiedere perdono, a restare attaccati alla tradizione e a Cristo e a perseverare nella pazienza.
La lettera richiama al dovere dell’imitazione di Cristo, a conformarsi a Lui, alle sue virtù, al suo comportamento, camminando secondo la verità del Signore. Per Policarpo Cristo è soprattutto modello di pazienza.

10. La Didaché (130-150)

E’ uno scritto anonimo. Il testo intero fu scoperto nel 1873. Ha come sottotitolo: Dottrina dei dodici apostoli. Lo scritto, in sedici capitoli, è indirizzato da un giudeo cristiano ad una comunità di ebrei convertiti. E’ ampiamente utilizzato l’AT con citazioni espliciti e con semplici richiami. Par il NT sono molto citati Mc e Mt.
L’opera presenta il tema classico delle due vie e vuole offrire una serie di precetti morali, in particolare prescrizioni liturgiche (battesimo, digiuno, preghiera, eucarestia: cc. 7-9), informazioni sulla comunità cristiana (cc. 11-15), la parusia (c. 16).
Per poter camminare sulla via della vita è necessario osservare: il comandamento dell’amore, i doveri personali, i doveri sociali e confessare i peccati. Praticare l’amore di Dio e del prossimo, praticare la regola d’oro. Inoltre: non uccidere, non commettere adulterio, non corrompere i fanciulli, non fornicare, non rubare, non praticherai la magia, non abortirai, non ucciderai i bambini appena nati.
Viene fatto un elenco di vizi molto dettagliato. La conclusione à di non lasciarsi mai distogliere dalla retta via. Segue una serie di regole sull’ospitalità, la correzione fraterna.
La morale è assai chiara, ha leggi precise e non è lasciata all’improvvisazione. Si la netta distinzione tra precetti, che si impongono a tutti, e consigli che sono la condizione della perfezione.

11. La lettera dello pseudo Barnaba (140 ca)

E’ uno scritto anonimo in forma di lettera, diviso in ventuno capitoli, in lingua greca. E’ ricchissimo di citazioni bibliche. Con questo scritto l’autore intende comunicare ai fedeli quello che a sua volta ha ricevuto: la conoscenza perfetta.
La prima parte ha carattere polemico contro il giudaismo: l’antico patto è stato abolito ne è nato uno nuovo, la legge data a Mosè è passata attraverso la passione di Cristo ai cristiani, nuovo popolo dell’eredità.
La seconda parte descrive le due vie: quella della luce e quella delle tenebre e l’escatologia.

12. Il Pastore di Erma (150 ca)

L’opera scritta in lingua greca probabilmente in tempi successivi e a più mani a partire dalla fine del I° secolo. Erma presenta se steso come l’autore e il pastore è l’angelo che lo guida nella vita. Fa parte del genere apocalittico: viene annunciata la seconda penitenza offerta ai cristiani dopo il battesimo.
Lo scritto è suddiviso in cinque visioni, dodici precetti e dieci similitudini. La conversione deve essere l’orientamento decisivo e continuo di tutta la vita.
L’apporto alla riflessione morale del Pastore si può sintetizzare nei seguenti elementi: la valorizzazione della vocazione alla santità morale, l’arricchimento del catalogo delle virtù e dei vizi, l’affinamento della coscienza, il superamento del legalismo giudaico.
L’autore presenta la comunità cristiana della prima metà del sec. II, con le sue debolezze e i suoi meriti, annunciando l’efficacia universale della penitenza cristiana.

13. Gli Apologisti: introduzione

Gli apologisti sono scrittori del II° secolo che, confrontando la tradizione cristiana con la cultura del tempo, cercano di difendere la nuova religione dagli attacchi esterni. Le apologie sono scritti con i quali gli autori cristiani difendono la verità della fede dagli attacchi ostili provenienti da giudei o pagani.
La caratteristica fondamentale di detti scrittori è il confronto che essi stabiliscono tra la morale cristiana e quella pagana. Per loro la verità del cristianesimo è fondata sulla elevatezza della sua dottrina morale e sulla santità della vita dei cristiani.
Il diffondersi del cristianesimo produce nuovi problemi pratici tra questi: atteggiamento verso gli idoli, l’esercizio di alcune professioni, la partecipazione a spettacoli teatrali e circensi, la moda, il servizio militare.
Questi scrittori assumono spesso atteggiamenti rigoristi: si condanna radicalmente il mondo pagano e le sue istituzioni.
Gli apologisti, trovandosi a difendere il cristianesimo, gettano le fondamenta della scienza teologica. Per quanto attiene la riflessione morale, essi:
- in positivo esaltano lo stile di vita cristiano, vita seria, austera, onesta casta, vantaggiosa per lo Stato,per la società e per la civilizzazione in generale;
- in negativo, descrivono le immoralità del paganesimo.
In queste lezioni prenderemo in esame solo Giustino, la Lettera a Diogneto e Ireneo di Lione. Non parleremo degli apologisti greci.

14. San Giustino, martire (100-165)

Nacque a Sichen (Palestina) e morì a Roma martire. Era ebreo, ma ebbe una educazione greca. Fu discepolo della scuola stoica, della peripatetica e della pitagorica. Solo nel platonismo però si convinse di trovare la via giusta. A 30 anni circa si convertì al cristianesimo, ma continuò a studiare filosofia, aprendo una sua scuola a Roma con il proposito di difendere la dottrina cristiana. Fu ucciso per decapitazione.
Scrisse, secondo Eusebio, otto apologie, a noi ne sono pervenute tre sicuramente autentiche, scritte nel 160. Due Apologie e il Dialogo.
Il Dialogo, in 142 capitoli, mostra il metodo e gli argomenti usati per confutare gli ebrei. L’AT e una preparazione del NT. I profeti sono veri pedagoghi della verità. Le due Apologie, indirizzate all’imperatore Antonino Pio, difendono il cristianesimo contro l’impero romano.
Nella prima Apologia sono messi in campo tre serie di argomenti difensivi che sono:
- motivi discolpanti contro i crimini che si attribuivano loro: ateismo, immoralità, rifiuto del culto pagano;
- mettendo a confronto le due religioni si dimostra l’assoluta superiorità del cristianesimo;
- per dimostrare la legittimità delle pratiche cristiane fa la presentazione dell’iniziazione cristiana e dell’eucarestia.
La seconda Apologia prende lo spunto dalla condanna a morte di tre cristiani solo per essere seguaci di Cristo, spiega perché essi muoiono volentieri e dimostra che la dottrina morale dei cristiani è più elevata di quella degli stoici. Sviluppa la teoria dei semina verbi. Si chiede agli imperatori di essere oggettivi nel giudicare i cristiani.
Gli scritti di Giustino non sono originali. Ciò che può interessare è la sua antropologia, sulla partecipazione della ragione umana al Logos presente nella natura e nel quale è adombrato Gesù Cristo stesso.
Egli sostiene che è importante che si faccia una alleanza tra cristiani e filosofi per combattere l’idolatria e la mitologia; per difendere l’interiorità della morale cristiana e la sua fondazione escatologica.

15. La lettera a Diogneto (200)

Questo scritto spesso viene messo tra i padri apostolici. Si tratta senz’altro di uni scritto apologetico. E’ scritto in forma di lettera ed è inviata al Diogneto, un personaggio importante del paganesimo. E’ ignoto l’autore, il luogo ella composizione e la data esatta in cui è stata scritta.
Lo scritto si compone di:
- un’apologia contro i pagani e gli ebrei;
- una descrizione del ruolo dei cristiani nel mondo;
- una catechesi sommaria del cristianesimo
- una esortazione finale
E’ discussa l’antichità degli ultimi due capitoli.
Per quanto attiene la riflessione morale hanno particolare rilievo le seguenti affermazioni: i cristiani vivono come gli altri uomini, tuttavia nella società svolgono un ruolo speciale, sono come l’anima del corpo: specificità della morale cristiana; tutto è stato creato per l’uomo, centro e apice di quanto esiste: antropocentrismo morale; la carità è la sintesi della vita morale del cristiano.

16. Ireneo di Lione (130-203)

Greco di nascita, cresciuto in una famiglia già cristiana, ricevette alla scuola di Policarpo vescovo di Smirne, di Papia, di Melitone di Sardi ed altri, una buona formazione, religiosa, filosofica e teologica. Fu vescovo della città di Lugdunum (attuale Lione) dal 177, in seguito alla morte, per martirio sotto Marco Aurelio, del primo vescovo della città San Potino.
Secondo la tradizione della Chiesa fu martire a sua volta, anche se scarse sono le notizie storiche sulla sua vita e morte. Venne sepolto nella chiesa di San Giovanni, che più tardi venne chiamata di Sant'Ireneo. La sua tomba e i suoi resti vennero distrutti nel 1562 dagli Ugonotti durante le guerre di religione.
Il suo pensiero e le sue opere furono direttamente influenzati da Policarpo, che fu a suo tempo discepolo diretto di Giovanni Evangelista. Essi sono una testimonianza della tradizione apostolica, a quei tempi impegnata contro il proliferare di varie eresie, in particolare lo gnosticismo di cui Ireneo fu un forte oppositore. Delle sue opere ci permangono: Adversus haereses, che tenta di confutare le principali espressioni dello gnosticismo, e Demonstratio apostolicae praedicationis, sintetica e precisa esposizione della dottrina cattolica.
Uno dei suoi discepoli più noti è Sant’Ippolito romano.
Ireneo fu il primo teologo cristiano a tentare di elaborare una sintesi globale del cristianesimo.
All'interno di un periodo storico marcato da due eventi culturali di grande spessore:
- l'insorgere dello gnosticismo in ambito cristiano, la prima eresia in possesso di un buon impianto dottrinale che affascinava molti cristiani colti;
- il diffondersi nel mondo pagano del neoplatonismo, filosofia di vasto respiro, che presentava molte affinità con il cristianesimo.
Ireneo con la sua opera tentò di dare una risposta volta ad evidenziare i presunti errori contenuti nello gnosticismo, mentre nei confronti del neoplatonismo si aprì a un dialogo e fu disposto ad accogliere alcuni principi generali di questa filosofia.
Fu il primo teologo cristiano ad utilizzare il principio della successione apostolica, per confutare i suoi oppositori. Proprio nell'Adversus Ireneo scrive:
- La tradizione degli Apostoli manifesta in tutto quanto il mondo, si mostra in ogni Chiesa a tutti coloro che vogliono vedere la verità e noi possiamo enumerare i vescovi stabiliti dagli Apostoli nelle Chiese e i loro successori fino a noi… (Gli Apostoli) vollero infatti che fossero assolutamente perfetti e irreprensibili in tutto coloro che lasciavano come successori, trasmettendo loro la propria missione di insegnamento. Se essi avessero capito correttamente, ne avrebbero ricavato grande profitto; se invece fossero falliti, ne avrebbero ricavato un danno grandissimo (Adversus haereses, III, 3,1: PG 7,848).
Ireneo indica pertanto la rete della successione apostolica come garanzia del perseverare nella parola del Signore e si concentra poi su quella Chiesa “somma ed antichissima ed a tutti nota” che è stata “fondata e costituita in Roma dai gloriosissimi Apostoli Pietro e Paolo”, dando rilievo alla Tradizione della fede, che in essa giunge fino a noi dagli Apostoli mediante le successioni dei vescovi. In tal modo, per Ireneo e per la Chiesa universale, la successione episcopale della Chiesa di Roma diviene il segno, il criterio e la garanzia della trasmissione ininterrotta della fede apostolica:
- «A questa Chiesa, per la sua peculiare principalità (propter potiorem principalitatem), è necessario che convenga ogni Chiesa, cioè i fedeli dovunque sparsi, poiché in essa la tradizione degli Apostoli è stata sempre conservata...» (Adversus haereses, III, 3, 2: PG 7,848).
La successione apostolica - verificata sulla base della comunione con quella della Chiesa di Roma - è dunque il criterio della permanenza delle singole Chiese nella Tradizione della comune fede apostolica, che attraverso questo canale è potuta giungere fino a noi dalle origini:
- «Con questo ordine e con questa successione è giunta fino a noi la tradizione che è nella Chiesa a partire dagli Apostoli e la predicazione della verità. E questa è la prova più completa che una e medesima è la fede vivificante degli Apostoli, che è stata conservata e trasmessa nella verità» (ib., III, 3, 3: PG 7,851).