giovedì 10 febbraio 2011

1.1. MORALE DEI PADRI prima parte

1. Introduzione

Dopo aver studiato il fondamento biblico è bene ora soffermarci sui fondamenti storici della morale. Vogliamo, cioè tracciare le linee fondamentali della storia della morale.
La storia della teologia morale è una disciplina relativamente giovane. E’ nata dopo la seconda guerra mondiale.
Lo spazio logico della nuova disciplina sgorga da una duplice consapevolezza:
- L’essenziale storicità dell’uomo, che costituisce uno dei parametri fondamentali dell’auto-comprensione dell’uomo odierno. Questo discorso ha coinvolto necessariamente anche il discorso teologico. L’incontro fra coscienza storica e discorso teologico ha costretto la teologia, non tanto a rivedere le sue posizioni su alcuni punti marginali, ma a porsi il problema della sua identità epistemologica. Anche la storia della teologia morale deve fare i conti con la cosiddetta "svolta antropologica".
- La seconda consapevolezza è data dal faticoso cammino della identificazione del suo statuto epistemologico. Visto che la teologia morale è la teoria critica della prassi cristiana, cioè ha il compito di svolgere una adeguata analisi ermeneutica, cercando di scoprire il significato ultimo della prassi cristiana in obbedienza al kerigma, ne segue che deve verificare le radici storiche o la genesi della vita cristiana.
La ricerca storica ha origine nel momento stesso in cui il teologo morale interpreta il suo lavoro come servizio alla comunità cristiana, per aiutarla a fare un sereno discernimento sulla sua eventuale coerenza o incoerenza al kerigma apostolico.
«La conoscenza della storia ci apre la strada di un sano relativismo, ma è al contrario un mezzo per essere e considerarsi con maggiore verità e, vedendo la relatività di quanto è effettivamente relativo, per conferire la qualità di assoluto solo a ciò che lo è veramente. Grazie alla storia, percepiamo l’esatta proporzione delle cose, evitiamo di considerare "tradizione" quello che è nato l’altro ieri e che nel corso del tempo è cambiato più di una volta»[1].

2. Preliminari

La scansione storica che adotto in questo beve trattato di storia della teologia morale è quella consueta:
- Morale dei padri,
- Morale dei teologi medioevali,
- Morale casitica
- Morale del neotomismo
- Morale dopo il Vaticano secondo.

3. Periodo patristico

Iniziando a parlare dell’origine della storia della teologia morale, è necessario soffermarci brevemente sulla situazione culturale delle origini cristiane. Essa è caratterizzata dalla presenza di numerose e varie correnti filosofiche. Correnti che è necessario conoscere se si vuole comprendere al meglio la riflessione che all’intero di esse i padri hanno sviluppato.
Dette correnti filosofiche avevano assunto un significato prevalentemente morale e religioso. La prima generazione di cristiani elaborerà la prima originale moralità proprio in questo contesto.
Si può costatare che per i primi due secoli dell’era cristiana non esiste in interesse di carattere teorico le tematiche morali e la produzione letteraria da interessi pratici, parenetici e pastorali.
L’elaborazione delle esortazioni facevano ricorso a categorie concettuali usate dalla contemporanea riflessione filosofica popolare.
Questo mutuare dalla filosofia popolare è favorita dall’obiettiva convergenza degli intenti pedagogici e protrettici e della filosofia popolare che della nuova religione.
E’ necessario, inoltre, dire che l’interesse della ricerca circa i temi di morale è strettamente legata a motivi apologetici, la necessità per Padri e i primi scrittori ecclesiastici di dimostrare la continuità con l’insegnamento biblico.
C’è però anche chi sostiene che la prima generazione cristiana è una pedissequa ripetitrice dei luoghi comuni della filosofia popolare ellenistica. Ci si serviva in modo particolare della filosofia stoica.
La ricerca storica, poi, di questo periodo è un po’ carente:
- Mancano tentativi di sintesi sufficientemente elaborati e informati;
- Abbondano, però, studi di carattere monografici;
- Gli studi di carattere sintetico hanno come oggetto lo sviluppo delle tematiche presenti nei vari padri.

Il problema principale della storiografia degli inizi della chiesa è il problema dell’ellenizzazione del cristianesimo. Era inevitabile che la religione di Cristo si confrontasse con la cultura greca, che aveva influenzato l’intero mondo allora conosciuto.
Mentre da una parte si rifiuta categoricamente le coordinate religiose della cultura greca, dall’altra si è propensi ad utilizzare le sue categorie filosofiche e culturali.
La questione della dipendenza del pensiero cristiano dalla cultura ellenistica non riguarda la legittimità del processo, ma le forme storiche in cui si è realizzato.
Più complessa è la questione del rapporto tra forme letterarie e forme di esperienza di vita. Si possono avanzare due costatazioni:
- Da una parte si costata una dipendenza del pensiero e del linguaggio cristiani dal pensiero e dal linguaggio ellenistici;
- Dall’altra le difficoltà di sviluppo di un interesse di carattere teorico per la morale.
E’ stato proprio l’accordo del cristianesimo nascente con la morale ellenistica che ha fatto ritenere non urgente una riflessione teorica su temi di morale. Invece si è sentito urgente una riflessione adeguata su temi cristologici e dogmatici.
Questa puntualizzazione è importante per lo sviluppo successivo della teologia, in quanto conserva a lungo le caratteristiche della sua origine dommatica, rimane cioè ancorata ai contenuti della fede piuttosto che alla morale. Si può condividere la tesi che la teologia all’inizio non era teologia morale e che non aveva voglia di divenirlo.

4. Morale cristiana e filosofia pagana

E’ necessario subito notare che il facile accordo con la morale proposta dalla filosofia ellenistica, ha ritardato la possibilità di una proposta morale specifica della prima cristianità.
Vi sono tuttavia alcune tematiche morali nel confronto apologetico e polemico con la filosofia pagana. Gli apologisti sostenevano che: anche se gli ideali di vita proposti dai cristiani e dai filosofi pagani erano gli stessi, si notavano due sostanziali differenze:
- I cristiani non propongono solo a parole gli ideali di vita, ma li praticano,
- Le cose che i pagani raccomandano in modo inefficace e confuso, i cristiani lo propongono con argomenti persuasivi e fondati.
Dalla prima differenza possiamo dedurre: la letteratura apologetica ha un tratto marcatamente pragmatico nell’approccio ai temi morali. L’insistenza, poi, sulle questioni pratiche fa ritenere le sottili questioni teoriche sofisticate questioni retoriche. Del tutto nuove sono le tematiche del martirio e della verginità.
La seconda differenza porta a qualche novità nell’elaborazione. Gli argomenti per rendere più urgente l’imperativo morale della pratica delle virtù sono:
- Argomento della rivelazione,
- Argomento della interiorità
- Argomento escatologico,
- Argomento della testimonianza.
Si nota inoltre che accanto ad alcune originalità vi sono diffuse dipendenze della riflessione cristiana dalla morale filosofico-popolare ellenistica. Una maggiore predisposizione c’è senz’altro nei confronti della riflessione stoica.
La ricezione delle categorie stoiche fu per il cristianesimo più immediata perché erano quasi del tutto attinenti la prassi morale. In questo modo gli ideali morali non dovevano necessariamente essere ricondotti a prospettive ontologiche o religiose. Quello stoico è un pensiero eclettico giunto agli autori cristiani da florilegi o raccolte di detti.
La scarsa compattezza dottrinale, poi, rendeva la sua ricezione più agevole e meno gravida di risvolti dottrinali.
Gli stoici consideravano il mondo fondamentalmente buono a guisa di una grande città, dimora degli uomini essenzialmente uguali.
Le categorie fondamentali della morale stoica sono:
- La vita retta e autonoma,
- La vita coerente.
La coerenza è richiesta sia con se stessi che nei riguardi del logos, inteso come legge della natura o della ragione. L’uomo deve vivere secondo natura o ragione e deve lottare contro le passioni per raggiungere l’apatia.
Il pensiero cristiano ribadisce la lotta contro le passioni, ma non adotta il concetto di apatia. Dal pensiero stoico viene mantenuta la centralità della legge di natura o di ragione con qualche piccola differenza.
L’altra grande corrente filosofica, che ha influito sul cristianesimo, è la tradizione platonica. In questo caso, però, la considerazione morale non può essere separata dall’orizzonte ontologico, antropologico e religioso.
L’insegnamento della tradizione platonica più utilizzato dal cristianesimo è il primato della "theoria" sulla prassi, destinato a diventare nel cristianesimo primato della vita contemplativa.
In questa visione il momento pratico della vita viene ricondotto al momento ascetico, preliminare all’esercizio delle virtù. La vita se è esercizio virtuoso.
Tuttavia il primato della teoria sulla pratica, rischia di far passare in secondo piano il comandamento della carità e in subordine lo steso agire rispetto al conoscere o la disposizione pratica rispetto alla conoscenza della verità (rischio gnostico).

5. Morale cristiana ed ebraismo

La rapida assimilazione delle istanze morali dell’ellenismo da parte del cristianesimo ha condizionato il rapporto tra cristianesimo e ebraismo. Questo può essere ricondotto al solo problema dell’interpretazione delle Scritture.
Gli ebrei consideravano importante il senso allegorico delle Scritture, i cristiani consideravano importante anche il senso letterale.
Un altro problema era la differenza da attribuire all’Antico Testamento rispetto al Nuovo.

6. I Padri apostolici: preliminari

I Padri apostolici sono così chiamati perché nei loro scritti, composti tra la fine del I° e la prima metà del II°, si percepisce un fedele riflesso della predicazione apostolica. Di questa tramandano anche la prima riflessione sulla moralità cristiana, senza pretesa di esaustività.
Si tratta ordinariamente di scritti occasionali, la maggioranza lettere, senza alcun intento sistematico. Avvenendo, poi, la trasmissione ordinaria attraverso la predicazione orale, la documentazione scritta è assai scarsa.
Pur non essendo i Padri apostolici dei moralisti sistematici, tuttavia elaborano una certa riflessione morale. Tutti gli scritti appartengono al genere parenetico e catechetico, per questo contengono specifiche riflessioni morali.
Appartengono ai Padri apostolici i seguenti scritti:
- Le lettere di Ignazio di Antiochia,
- La lettera ai Filippesi di Policarpo di Smirne,
- La lettera ai Corinzi di Clemente romano,
- Il martirio di Policarpo,
- L’omelia dell’Pseudo Clemente,
- La Didaché
- La lettera dello Pseudo Barnaba
- Il Pastore di Erma.
Questi scritti traggono i loro insegnamenti dalla Sacra Scrittura. Inoltre, fatta eccezione per le Lettere di Ignazio, si ispirano anche alla tradizione religiosa e culturale del giudaismo, in particolare all’essenismo, desiderando un ritorno ad esso.
Ciò sta a dimostrare la forte difficoltà a svincolarsi dal giudaismo e debole influsso dell’ellenismo. Si può notare che la riflessione morale cerca schemi e categorie utili alla predicazione nel mondi giudaico.
Detto che negli scritti apostolici non c’è una dottrina morale uniforme e sistematica, gli insegnamenti comuni e costanti sono inviti:
- alla pratica della virtù,
- a seguire la via del bene,
- a convertirsi,
- a entrare nel regno di Dio, nuovo alleanza.
Si rifiuta il legalismo formalistico tipico del giudaismo. Si pone l’accento sul nesso tra fede e morale, sulla interiorità di una religione autentica. Manca una qualsiasi analisi della natura umana. La morale è di tipo teocentrico e cristocentrico, consistente nel discernere la volontà di Dio.
I Padri apostolici prediligono schemi mutuati dal giudaismo, come la trilogia: digiuno, preghiera e elemosina, o la via del bene e del male. La Didaché considera il tema delle due vie sotto l’aspetto retributivo, altri scritti invece alla luce di una metafisica dualista, infatti il dualismo morale è connaturale allo spirito umano.
Già nella Genesi l’albero del bene e del male è associato alla contrapposizione vita-morte, bene-male. Queste categorie esprimono nella Bibbia il dualismo morale ed escatologico. Nel NT si preferiscono i temi: luce-tenebre, vita-morte e lo schema delle due vie.
Nella prima letteratura cristiana le due vie indicano l’inizio della vita cristiana con la decisione di rinunciare a Satana e decidersi per Cristo. La scelta iniziale impegna il cristiano a fondare la propria vita su orientamenti precisi. La fedeltà ad essi costituisce il criterio di appartenenza ad una via menché ad un'altra. Il tema delle due vie è l’espressione di due diversi modi di vivere, di due cammini diversi: la fede e l’empietà.
All’interno, poi, di questo contesto vengono elaborati alcuni temi morali desunti dalla Bibbia e dal giudaismo: il decalogo, il discorso della montagna, le beatitudini, la legge della carità, la regola d’oro.
I Padri apostolici mostrano interesse per i temi della morale affrontando problemi diversi non solo di ordine personale, ma anche coniugale e sociale. E’ da notare, poi, che l’insegnamento morale è strettamente collegato con l’esperienza liturgica.
La prima generazione cristiana è consapevole che l’originalità della morale cristiana non è nei contenuti, ma nei fondamenti. E’ il kerigma e non un’astratta concezione della natura, che veicola la volontà di Dio.
Credere in Cristo vuol dire cambiare vita, convertirsi. Ne segue che l’insegnamento morale è inscindibile dall’annuncio.
Oltre alle Lettere di Clemente, Ignazio e Policarpo, prenderemo in esame anche la seconda Lettera di Clemente, che è un’antica omelia morale; la Didaché, in cui la morale viene presentata in forma semplice e tratta direttamente dalla Bibbia; la lettera dello Pseudo Barnaba, esempio di reazione contro il legalismo e il ritualismo giudaico; il Pastore di Erma, in cui è forte la tendenza ascetica.
Farò, poi, riferimento anche a due scritti che ufficialmente non fanno parte dei Padri apostolici: le Odi di Salomone, esempio di gnosi giudeo-cristiano, e il Vangelo di Tommaso, esempio di morale encratista (predicava la continenza e la moderazione) in ambiente giudeo-cristiano.

7. Lettere di Vescovi

Clemente di Roma (papa dal 92 al 99)
Clemente fu il terzo successore di Pietro. E’ ritenuto essere l’autore di una Lettera ai Corinzi citata da molti padri della chiesa. Può essere datata intorno al 96, perché si fa riferimento a «calamità e sciagure» abbattutesi sulla comunità di Roma, chiaro riferimento alla persecuzione di Domiziano (m. 98). La lettera è motivata dalla deposizione di alcuni presbitero dalla comunità di Corinto senza motivazione. Essa intende portare la pace. Si tratta di un documento fondamentale per dimostrare il primato di Roma sulle altre comunità.
L’AT viene definito "unico codice conosciuto", la norma «gloriosa e veneranda della nostra vocazione». Scritto di carattere parenetico sembra una raccolta di testi scritturistici. Ciò fa supporre che Clemente fosse di origine ebraica, con una buona preparazione letteraria e filosofica.
La lettera, divisa in due Parti (cc1-38, 39-58), contiene indicazioni e ordini destinate a sedare le discordie della comunità. L’ultima parte contiene una lunga preghiera. Dopo aver elencato le virtù cristiane: carità, penitenza, obbedienza, fede, compassione, ospitalità, umiltà, pace e concordia, espone i motivi per praticare dette virtù: l’esempio di Cristo e dei santi, l’ordine e l’armonia ch devono regnare nel mondo, le promesse escatologiche, le benedizioni di Dio in Cristo.
La lettera propone una vita virtuosa secondo la sapienza cristiana. Ne individua le motivazioni: nel timore di Dio, nell’obbedienza alla sua volontà e nel suo servizio. Cristo e i santi vengono colti come modelli di umiltà. Le condizioni generali della vita virtuosa sono: fede e opere, lotta contro il peccato, pratica delle virtù fondamentali, fede, speranza e carità, le virtù sociali. Come si può costatare la lettera è una specie di trattati delle virtù pur non nominando mai la parola virtù.
Presenta la vita morale come una lotta dell’uomo contro se stesso e invita a rigettare i vizi dell’invidia e della gelosia. La morale della lettera consiste nell’obbedienza alla volontà e ai comandamenti di Dio. E’ una morale teonoma, ma anche cristonoma.
Insieme a questa lettera è conservato uno scritto che porta il titolo seconda Lettera ai Corinzi, ma che è in realtà una omelia collocabile tra il 120 1 il 150. E’ ricca di citazioni di parole di Gesù. L’idea guida dell’omelia è: la salvezza è un dono di Dio, cui va risposto con la penitenza intesa come obbedienza ai comandamenti consistenti nella castità e nella elemosina. Si presenta la vita cristiana come una lotta (agon) da cui agonismo. Si tratta di un agonismo spirituale, un esercizio continuo della virtù.

8. Ignazio di Antiochia (75-120)

Ignazio fu il terzo vescovo di Antiochia e martire a Roma sotto l’imperatore Traiano (53-117). Durante il viaggio verso Roma scrisse sette lettere: ad Efeso, Magnesia, Tralle, Roma, Filadelfia, Smirne e a Policarpo.
Questo epistolario costituisce uno dei più importanti documenti del cristianesimo antico, soprattutto per la dottrina del primato della Chiesa di Roma, e per gli inviti a guardarsi dalle correnti giudaizzanti e dal docetismo, eresia che nega la realtà della carne di Cristo e afferma che Gesù a sofferto solo in apparenza.
La mistica di Ignazio esprime i tratti fondamentali dell’esperienza cristiana. E’ la mistica di un vescovo che nutre un ardente aspirazione personale al martirio per poter diventare simile a Cristo . Ha un forte amore verso il gregge a lui affidato.
Ignazio, convinto che il cristianesimo ha stabilito un nuovo ordine, un nuovo modo di vivere e non è più possibile tornate all’antico patto, presenta la vita cristiana come un’unione con Cristo e invita a incorporarsi sempre più al suo mistico corpo, a impegnarsi a seguire Cristo con una disponibilità incondizionata anche nella sofferenza, fino al martirio. E’ la grazia la sorgente unica dell’imperativo morale.
Essere cristiani significa seguire Cristo nell’amore, nella sofferenza, nell’incondizionata prontezza a morire per lui. Centro e sorgente della vita cristiana è l’altare, l’eucarestia.

9. Policarpo di Smirne (70-155)

Fu discepolo egli apostoli, in particolare di Giovanni, da loro fu eletto vescovo di Smirne. Poco prima del martirio, compì un viaggio a Roma per discutere con papa Aniceto (155-166) la data della pasqua. Non si giunse ad un accordo.
Secondo Ireneo (m. 175) scrisse molte lettere pastorali, ma a noi ne è pervenuta una sola, indirizzata alla chiesa di Filippi. La lettera è una fonte per conoscere le costanti della morale e della predicazione antica.
Dopo una esortazione a rimanere nella verità e nella fede tenendo lontano l’avarizia, primo di tutti i mali, riporta un codice domestico, ricorda i doveri delle mogli, delle vedove, dei diaconi, dei giovani, dei presbiteri. Si esorta al timore di Dio e a chiedere perdono, a restare attaccati alla tradizione e a Cristo e a perseverare nella pazienza.
La lettera richiama al dovere dell’imitazione di Cristo, a conformarsi a Lui, alle sue virtù, al suo comportamento, camminando secondo la verità del Signore. Per Policarpo Cristo è soprattutto modello di pazienza.

10. La Didaché (130-150)

E’ uno scritto anonimo. Il testo intero fu scoperto nel 1873. Ha come sottotitolo: Dottrina dei dodici apostoli. Lo scritto, in sedici capitoli, è indirizzato da un giudeo cristiano ad una comunità di ebrei convertiti. E’ ampiamente utilizzato l’AT con citazioni espliciti e con semplici richiami. Par il NT sono molto citati Mc e Mt.
L’opera presenta il tema classico delle due vie e vuole offrire una serie di precetti morali, in particolare prescrizioni liturgiche (battesimo, digiuno, preghiera, eucarestia: cc. 7-9), informazioni sulla comunità cristiana (cc. 11-15), la parusia (c. 16).
Per poter camminare sulla via della vita è necessario osservare: il comandamento dell’amore, i doveri personali, i doveri sociali e confessare i peccati. Praticare l’amore di Dio e del prossimo, praticare la regola d’oro. Inoltre: non uccidere, non commettere adulterio, non corrompere i fanciulli, non fornicare, non rubare, non praticherai la magia, non abortirai, non ucciderai i bambini appena nati.
Viene fatto un elenco di vizi molto dettagliato. La conclusione à di non lasciarsi mai distogliere dalla retta via. Segue una serie di regole sull’ospitalità, la correzione fraterna.
La morale è assai chiara, ha leggi precise e non è lasciata all’improvvisazione. Si la netta distinzione tra precetti, che si impongono a tutti, e consigli che sono la condizione della perfezione.

11. La lettera dello pseudo Barnaba (140 ca)

E’ uno scritto anonimo in forma di lettera, diviso in ventuno capitoli, in lingua greca. E’ ricchissimo di citazioni bibliche. Con questo scritto l’autore intende comunicare ai fedeli quello che a sua volta ha ricevuto: la conoscenza perfetta.
La prima parte ha carattere polemico contro il giudaismo: l’antico patto è stato abolito ne è nato uno nuovo, la legge data a Mosè è passata attraverso la passione di Cristo ai cristiani, nuovo popolo dell’eredità.
La seconda parte descrive le due vie: quella della luce e quella delle tenebre e l’escatologia.

12. Il Pastore di Erma (150 ca)

L’opera scritta in lingua greca probabilmente in tempi successivi e a più mani a partire dalla fine del I° secolo. Erma presenta se steso come l’autore e il pastore è l’angelo che lo guida nella vita. Fa parte del genere apocalittico: viene annunciata la seconda penitenza offerta ai cristiani dopo il battesimo.
Lo scritto è suddiviso in cinque visioni, dodici precetti e dieci similitudini. La conversione deve essere l’orientamento decisivo e continuo di tutta la vita.
L’apporto alla riflessione morale del Pastore si può sintetizzare nei seguenti elementi: la valorizzazione della vocazione alla santità morale, l’arricchimento del catalogo delle virtù e dei vizi, l’affinamento della coscienza, il superamento del legalismo giudaico.
L’autore presenta la comunità cristiana della prima metà del sec. II, con le sue debolezze e i suoi meriti, annunciando l’efficacia universale della penitenza cristiana.

13. Gli Apologisti: introduzione

Gli apologisti sono scrittori del II° secolo che, confrontando la tradizione cristiana con la cultura del tempo, cercano di difendere la nuova religione dagli attacchi esterni. Le apologie sono scritti con i quali gli autori cristiani difendono la verità della fede dagli attacchi ostili provenienti da giudei o pagani.
La caratteristica fondamentale di detti scrittori è il confronto che essi stabiliscono tra la morale cristiana e quella pagana. Per loro la verità del cristianesimo è fondata sulla elevatezza della sua dottrina morale e sulla santità della vita dei cristiani.
Il diffondersi del cristianesimo produce nuovi problemi pratici tra questi: atteggiamento verso gli idoli, l’esercizio di alcune professioni, la partecipazione a spettacoli teatrali e circensi, la moda, il servizio militare.
Questi scrittori assumono spesso atteggiamenti rigoristi: si condanna radicalmente il mondo pagano e le sue istituzioni.
Gli apologisti, trovandosi a difendere il cristianesimo, gettano le fondamenta della scienza teologica. Per quanto attiene la riflessione morale, essi:
- in positivo esaltano lo stile di vita cristiano, vita seria, austera, onesta casta, vantaggiosa per lo Stato,per la società e per la civilizzazione in generale;
- in negativo, descrivono le immoralità del paganesimo.
In queste lezioni prenderemo in esame solo Giustino, la Lettera a Diogneto e Ireneo di Lione. Non parleremo degli apologisti greci.

14. San Giustino, martire (100-165)

Nacque a Sichen (Palestina) e morì a Roma martire. Era ebreo, ma ebbe una educazione greca. Fu discepolo della scuola stoica, della peripatetica e della pitagorica. Solo nel platonismo però si convinse di trovare la via giusta. A 30 anni circa si convertì al cristianesimo, ma continuò a studiare filosofia, aprendo una sua scuola a Roma con il proposito di difendere la dottrina cristiana. Fu ucciso per decapitazione.
Scrisse, secondo Eusebio, otto apologie, a noi ne sono pervenute tre sicuramente autentiche, scritte nel 160. Due Apologie e il Dialogo.
Il Dialogo, in 142 capitoli, mostra il metodo e gli argomenti usati per confutare gli ebrei. L’AT e una preparazione del NT. I profeti sono veri pedagoghi della verità. Le due Apologie, indirizzate all’imperatore Antonino Pio, difendono il cristianesimo contro l’impero romano.
Nella prima Apologia sono messi in campo tre serie di argomenti difensivi che sono:
- motivi discolpanti contro i crimini che si attribuivano loro: ateismo, immoralità, rifiuto del culto pagano;
- mettendo a confronto le due religioni si dimostra l’assoluta superiorità del cristianesimo;
- per dimostrare la legittimità delle pratiche cristiane fa la presentazione dell’iniziazione cristiana e dell’eucarestia.
La seconda Apologia prende lo spunto dalla condanna a morte di tre cristiani solo per essere seguaci di Cristo, spiega perché essi muoiono volentieri e dimostra che la dottrina morale dei cristiani è più elevata di quella degli stoici. Sviluppa la teoria dei semina verbi. Si chiede agli imperatori di essere oggettivi nel giudicare i cristiani.
Gli scritti di Giustino non sono originali. Ciò che può interessare è la sua antropologia, sulla partecipazione della ragione umana al Logos presente nella natura e nel quale è adombrato Gesù Cristo stesso.
Egli sostiene che è importante che si faccia una alleanza tra cristiani e filosofi per combattere l’idolatria e la mitologia; per difendere l’interiorità della morale cristiana e la sua fondazione escatologica.

15. La lettera a Diogneto (200)

Questo scritto spesso viene messo tra i padri apostolici. Si tratta senz’altro di uni scritto apologetico. E’ scritto in forma di lettera ed è inviata al Diogneto, un personaggio importante del paganesimo. E’ ignoto l’autore, il luogo ella composizione e la data esatta in cui è stata scritta.
Lo scritto si compone di:
- un’apologia contro i pagani e gli ebrei;
- una descrizione del ruolo dei cristiani nel mondo;
- una catechesi sommaria del cristianesimo
- una esortazione finale
E’ discussa l’antichità degli ultimi due capitoli.
Per quanto attiene la riflessione morale hanno particolare rilievo le seguenti affermazioni: i cristiani vivono come gli altri uomini, tuttavia nella società svolgono un ruolo speciale, sono come l’anima del corpo: specificità della morale cristiana; tutto è stato creato per l’uomo, centro e apice di quanto esiste: antropocentrismo morale; la carità è la sintesi della vita morale del cristiano.

16. Ireneo di Lione (130-203)

Greco di nascita, cresciuto in una famiglia già cristiana, ricevette alla scuola di Policarpo vescovo di Smirne, di Papia, di Melitone di Sardi ed altri, una buona formazione, religiosa, filosofica e teologica. Fu vescovo della città di Lugdunum (attuale Lione) dal 177, in seguito alla morte, per martirio sotto Marco Aurelio, del primo vescovo della città San Potino.
Secondo la tradizione della Chiesa fu martire a sua volta, anche se scarse sono le notizie storiche sulla sua vita e morte. Venne sepolto nella chiesa di San Giovanni, che più tardi venne chiamata di Sant'Ireneo. La sua tomba e i suoi resti vennero distrutti nel 1562 dagli Ugonotti durante le guerre di religione.
Il suo pensiero e le sue opere furono direttamente influenzati da Policarpo, che fu a suo tempo discepolo diretto di Giovanni Evangelista. Essi sono una testimonianza della tradizione apostolica, a quei tempi impegnata contro il proliferare di varie eresie, in particolare lo gnosticismo di cui Ireneo fu un forte oppositore. Delle sue opere ci permangono: Adversus haereses, che tenta di confutare le principali espressioni dello gnosticismo, e Demonstratio apostolicae praedicationis, sintetica e precisa esposizione della dottrina cattolica.
Uno dei suoi discepoli più noti è Sant’Ippolito romano.
Ireneo fu il primo teologo cristiano a tentare di elaborare una sintesi globale del cristianesimo.
All'interno di un periodo storico marcato da due eventi culturali di grande spessore:
- l'insorgere dello gnosticismo in ambito cristiano, la prima eresia in possesso di un buon impianto dottrinale che affascinava molti cristiani colti;
- il diffondersi nel mondo pagano del neoplatonismo, filosofia di vasto respiro, che presentava molte affinità con il cristianesimo.
Ireneo con la sua opera tentò di dare una risposta volta ad evidenziare i presunti errori contenuti nello gnosticismo, mentre nei confronti del neoplatonismo si aprì a un dialogo e fu disposto ad accogliere alcuni principi generali di questa filosofia.
Fu il primo teologo cristiano ad utilizzare il principio della successione apostolica, per confutare i suoi oppositori. Proprio nell'Adversus Ireneo scrive:
- La tradizione degli Apostoli manifesta in tutto quanto il mondo, si mostra in ogni Chiesa a tutti coloro che vogliono vedere la verità e noi possiamo enumerare i vescovi stabiliti dagli Apostoli nelle Chiese e i loro successori fino a noi… (Gli Apostoli) vollero infatti che fossero assolutamente perfetti e irreprensibili in tutto coloro che lasciavano come successori, trasmettendo loro la propria missione di insegnamento. Se essi avessero capito correttamente, ne avrebbero ricavato grande profitto; se invece fossero falliti, ne avrebbero ricavato un danno grandissimo (Adversus haereses, III, 3,1: PG 7,848).
Ireneo indica pertanto la rete della successione apostolica come garanzia del perseverare nella parola del Signore e si concentra poi su quella Chiesa “somma ed antichissima ed a tutti nota” che è stata “fondata e costituita in Roma dai gloriosissimi Apostoli Pietro e Paolo”, dando rilievo alla Tradizione della fede, che in essa giunge fino a noi dagli Apostoli mediante le successioni dei vescovi. In tal modo, per Ireneo e per la Chiesa universale, la successione episcopale della Chiesa di Roma diviene il segno, il criterio e la garanzia della trasmissione ininterrotta della fede apostolica:
- «A questa Chiesa, per la sua peculiare principalità (propter potiorem principalitatem), è necessario che convenga ogni Chiesa, cioè i fedeli dovunque sparsi, poiché in essa la tradizione degli Apostoli è stata sempre conservata...» (Adversus haereses, III, 3, 2: PG 7,848).
La successione apostolica - verificata sulla base della comunione con quella della Chiesa di Roma - è dunque il criterio della permanenza delle singole Chiese nella Tradizione della comune fede apostolica, che attraverso questo canale è potuta giungere fino a noi dalle origini:
- «Con questo ordine e con questa successione è giunta fino a noi la tradizione che è nella Chiesa a partire dagli Apostoli e la predicazione della verità. E questa è la prova più completa che una e medesima è la fede vivificante degli Apostoli, che è stata conservata e trasmessa nella verità» (ib., III, 3, 3: PG 7,851).

1.2. MORALE DEI PADRI parte seconda

1. La grandi tradizioni

All’inizio del II° secolo hanno inizio le cosiddette "tradizioni patristiche". Sono tradizioni e correnti che, per la loro peculiarità, costituiscono un capitolo dell’unica tradizione cristiana.
Le principali correnti o tradizioni patristiche sono: la tradizione asiatica a cui appartiene Ireneo di cui abbiamo già parla, la tradizione nordafricana, la tradizione orientale o siriaca di cui fanno parte Efrem, Afraate, e la tradizione alessandrina.

2. Moralisti nordafricani

Il Nordafrica subisce una notevole romanizzazione. Il cristianesimo si radica soprattutto su questa cultura. Il contributo della comunità nordafricana, il cui centro è Cartagine, alla riflessione morale cristiana è molto importante.
Prima del concilio di Nicea la cristianità africana costituisce una unità storica. Dall'anno 180, che col martirio degli Scillitani, segna il primo avvenimento della sua storia, fino all'anno 313 la chiesa d'Africa visse in un mondo dove la persecuzione o era sempre presente o rappresentava una minaccia.
Il principale rappresentante della scuola e senz’altro Tertilliano, seguito da Cipriano e dai due laici Lattanzio e Arnobio.
Le caratteristiche fondamentali di questi scuola sono: la concezione morale cristiana è fatta per schemi latini; la tendenza marcatamente rigorista; l’impostazione e la soluzione dei problemi morali del cristiano nella sua relazione con il mondo.
La chiesa africana tiene in massima considerazione il martirio, vivendo in uno stato di continua persecuzione. Con la tradizione morale africana nasce il primo abbozzo di morale casistica.

3. Tertulliano (160-220)

E’ il più importante dei moralisti cristiani del III secolo. Si converte al cristianesimo dopo aver ottenuto una solida formazione giuridica romana. La sua attività letteraria è imponente. Dai suoi scritti si evince un carattere impetuoso e energico. Inizia a scrivere in latino e, dopo Agostino, e il più originale e qualificato scrittore ecclesiastico latino.
Ha scritto opere apologetiche (Apologeticum) e polemiche (Adversus Marcionem), come pure trattati di disciplina ecclesiastica, di ascetica e di morale.
Tra i temi morali trattati in forma monografica vanno ricordati: gli spettacoli o giochi pubblici al circo, allo stadio o all’anfiteatro (De spectaculis); la moda femminile (De cultu feminarum); la castità e la verginità; la modestia; il servizio militare; il matrimonio.
E’ difficile riscontrare in lui i principi di una morale fondamentale. Riferimenti alle condizioni dell'agire umano, al senso della legge, al ruolo della coscienza appaiono solo incidentalmente, dato che la maggior parte dei suoi scritti risponde a situazioni particolari.
Tertulliano fu un rigorista. Questo suo rigorismo andò sempre più accentuandosi in connessione col suo passaggio, verso il 207, al montanismo, un movimento apocalittico che esigeva dai suoi adepti esigenze estreme.

4. Cipriano di Cartagine (m. 258)

S. Cipriano (m. 258), vescovo di Cartagine, procuratore romano si convertì al cristianesimo in età adulta. Fu pastore e martire. Di carattere moderato, antitetico a Tertulliano.
I suoi scritti, costituiti soprattutto dalle lettere sono una continuazione delle sue catechesi. Trattano della preghiera, delle sue prerogative e della sua necessità, dell'abito delle vergini, del vantaggio della pazienza e della dolcezza, delle buone opere e dell'elemosina, della gelosia e dell'invidia.
Cipriano ha elaborato concezioni del martirio e della verginità che sono importanti per la vita cristiana, ma non ha strutturato una morale fondamentale, perché i suoi principi appaiono unicamente nel contesto di problemi concreti.
Tuttavia come pastore dava facilmente consigli sui diversi stati della vita cristiana e sulle virtù che i cristiani dovevano praticare.
Muore martire attorno al 258.

5. Lattanzio (250-327)

Nato a Cartagine nel 250 circa, fu allievo di Arnobio (m. 327), che seguì anche nella conversione al cristianesimo. Fu nel 317 insegnante di retorica di Crispo, figlio dell’imperatore Costantino (280-337). Va considerato uno dei primi elaboratori del discorso teologico-morale autonomo.
Ciceroniano convinto e stilista raffinato, scrisse varie opere, tra le quali le Divinae institutiones, un trattato di filosofia cristiana. Quest’opera, scritta tra il 304 e il 313, è soprattutto un vero trattato di morale, con cui stabilisce le basi filosofiche della morale delle virtù, il bene supremo, la saggezza, le relazioni di giustizia e di religione.
Questi elementi, però, non sono originali, dal momento che la maggior parte è ispirata a Cicerone (106-43 a.C.). Tuttavia Lattanzio li ha adattati alla fede, trasformando la filosofia morale ciceroniana in teologia morale cristiana. I suoi temi preferiti sono: l’interiorità dell’atto morale, la libertà religiosa, l’esigenza morale della religione, la non violenza.

6. Le scuole teologiche del III e IV secolo

Se il II secolo è il secolo della difesa della dottrina cristiana dagli attacchi esterni e dagli eretici, il III secolo è il secolo del catecumenato. E’ necessario che i convertiti ricevano una buona formazione cristiana.
A partire dal II secolo la riflessione teologica si organizza in scuole teologiche, luoghi di educazione cristiana per i catecumeni. In esse vengono formati i teologi e in esse si trasmettono i contenuti della fede. Esse sono importanti anche per la storia della morale.
La scuola alessandrina. Ha sede ad Alessandria di Egitto. In essa si predilige la filosofia platonica e si favorisce un’interpretazione della Sacra Scrittura di carattere allegorico. I principali partecipanti sono: Panteno, il fondatore, Clemente, Origene Atanasio.
La città di Alessandria sorta con aspirazioni intellettuali e universali all’epoca di Alessandro Magno (356-323) e dei Tolomei, ebbe una numerosa comunità ebraica la quale aveva inculturato la propria fede nell’ellenismo con Filone (20 a.C.-50 d.C.), vide sorgere anche una potente comunità cristiana influenzata soprattutto dal giudaismo e della’ellenismo.
La scuola di Antiochia. Fu fondata da Luciano di Samosata (m. 312) in opposizione al metodo allegorico di Origene. Ebbe un orientamento più razionale nell’interpretazione della Scrittura. Ebbe umili esordi e conobbe il suo momento di splendore con Diodoro di Tarso, maestro di Giovanni Crisostomo. L’esponete più estremista fu senz’altro Teodoro di Mopsuestia. Il fondatore fu l’eretico Ario.
La scuola di Cesarea di Palestina. Fu fondata da Origene costretto a fuggire da Alessandria nel 232. Si distinse per l’attaccamento al suo fondatore, conservando la sua dottrina e la sua biblioteca. Tra i componenti della suola vanno ricordati: Gregorio il taumaturgo, Eusebio di Cesarea. Subirono l’influsso di questa scuola soprattutto i Cappadoci.

7. Clemente Alessandrino (ca 150-215)

Scrittore appartenente alla scuola di Alessandria. Uno degli scrittori più importanti del cristianesimo primitivo. Nacque ad Atene nel 150 circa, da genitori greci.
Fu da giovani iniziato ai misteri di Eleusi, si convertì presto al cristianesimo. Per ascoltare i maestri cristiani più celebri viaggiò molto. Fu in Italia, in Siria e in Palestina. Ad Alessandria incontrò Panteno, fondatore della scuola teologica di quella città. Da discepolo poi, diventò maestro della scuola. Costretto a fuggire da Alessandria, muore in Cappadocia intorno al 215.
A lui si deve il tentativo di instaurare un primo dialogo tra fede e cultura. Fu uno dei primi moralisti della cristianità.
Le sue opere principali sono: Protreptico, una specie di apologia del cristianesimo; Pedagogo, un manuale di istruzione cristiana; Stromata, miscellanea di temi cristiani. Inoltre l’omelia su Mc 10,17-31.
Le sue opere possono essere considerate come un primo tentativo di sistemazione della morale cristiana. La sua riflessione morale è fortemente cristocentrica. In Cristo si trova la fonte della morale. Egli non è solo il maestro e il pedagogo del cammino, ma anche il modello della perfezione cristiana. Espone i precetti e le esigenze della vita cristiana in funzione dell’obiettivo dell’imitazione di Cristo.
I temi trattati sono: la morale matrimoniale e familiare, in cui difende la bontà del matrimonio e propone una mistica cristiana coniugale e familiare; la morale economica, in cui le esigenze del Vangelo sono adattate alle condizioni della realtà umana.
Le impostazioni e le soluzioni sono di notevole equanimità, molto lontane dal radicalismo e dal rigorismo dei teologi africani, specialmente sul tema della moda, degli ornamenti e della cura del corpo.
Clemente è importante per la storia della teologia morale non solo per i contenuti morali che sviluppa, ma soprattutto per aver tentato una sintesi tra sapienza ellenica e ideale cristiano. Egli costituisce una pietra miliare e un paradigma nel processo di inculturazione della morale cristiana.
Nei suoi scritti è evidente l’influsso del platonismo e dello stoicismo.

8. Origene (m. 253 o 254)

Genio della Chiesa e dell’umanità. Di famiglia cristiana benestante, nasce ad Alessandria nel 185. Il padre Leonida subisce il martirio e i beni patrimoniali vengono confiscati. Origene è il maggiore di sette fratelli. Viaggia a Roma, in Arabia, in Palestina. Tornato ad Alessandria viene accusato e cacciato dalla scuola. Va ad abitare a Cesarea di Palestina. Qui fonda la cosiddetta scuola di Cesarea, alla quale dona la sua biblioteca composta di duemila opere.
Elabora una moltitudine di studi, era capace di dettare a vari segretari contemporaneamente. La sua opera principale, Sui principi, è una vera e propria summa del pensiero cristiano. I primi due libri trattano di Dio e del mondo creato; il terzo parla dell’uomo, della libertà umana e dell’uso che dobbiamo farne al cospetto della tentazione; il quarto tratta della Scrittura, della sua ispirazione e interpretazione. A duecento anni da Cristo e a duecento da Agostini, Origene porta la teologia alla sua piena misura.
L’opera di Origene ha subito durante la sua vita e dopo la sua morte, interpretazioni molteplici. Avversari e ammiratori hanno gareggiato nello stravolgere il suo pensiero.
Benché non abbia scritto trattati espliciti sulla riflessione morale, la dottrina di Origene offre materiale abbondante per la trattazione di molti temi morali: le virtù, il peccato e così via.

9. I Padri greci del secolo IV e V

I secoli IV e V costituiscono l’epoca d’oro della morale patristica, sia greca che latina. Tre fatti fondamentali contraddistinguono le tendenze del cristianesimo
- L’estensione del cristianesimo: si estende sono solo all’interno dell’Impero, ma anche all’esterno: Persia, Armenia, Arabia, Etiopia e Germania. La cristianizzazione dell’impero romano porta con sé una legislazione «cristiana». Per esempio la celebrazione del giorno del Signore (domenica) diventa, per legge nel 325, un giorno di festa civile.
- La fioritura del monachesimo come opzione e ideale di vita cristiana. Il modello di «monaco» succede a quello di «martire». Si noti che a maggior parte dei senti Padri, almeno per un periodo della loro vita, hanno praticato il monachesimo.
- L’apparizione, sia in oriente che in occidente, di grandi personalità che assumono la direzione della vita della chiesa.
Questi tre fattori influenzano molto migliora di molto l’elaborazione della morale cristiana che diventa anche la morale della società civile. I padri del resto utilizzano la filosofia e la cultura greco-romana (stoicismo, platonismo) per veicolare, giustificare, esporre e sviluppare l’elaborazione del pensiero morale cristiano.
Esporrò ora brevemente la dottrina di alcuni Padri greci poi parlerà di alcuni dei latini.

10. Atanasio (295-372)

La chiesa latina considera Sant’Atanasio uno dei grandi Padri greci, difensore instancabile della divinità di Cristo contro l’eresia ariana. Uomo di azione più che di pensiero.
Partecipò al concilio di Nicea come segretario del suo vescovo Sant’Alessandro di Alessandria (325). Nel 328 divenne vescovo di Alessandria. Il suo servizio episcopale durò ben 45 anni.
Per la sua lotta indefessa contro le eresia ebbe a subire esili e persecuzioni. Morì nel 372.
Per al storia della morale, va segnalata, oltre al suo trattato Sulla Verginità, la Vita di Sant’Antonio, che costituisce un documento importante del monachesimo primitivo e in cui compaiono le impostazioni della morale del monachesimo soprattutto per quanto riguarda il mondo delle tentazioni e il modo di combatterle.

11. San Basilio Magno (330-379)

Tra i Padri della chiesa del IV secolo più in vista nell’oriente cristiano vanno menzionati quelli della Cappodocia e cioè: Basilio il grande, suo fratello Gregorio di Nissa e il suo amico Gregorio di Nazianzio.
S. Basilio il Grande (m. 379), vescovo di Cesarea, è soprattutto un uomo d'azione, preoccupato dell'aspetto pratico, morale del messaggio evangelico, diversamente dagli altri padri greci che si interessano in primo luogo del suo aspetto metafisico. Nelle sue Regole morali Basilio descrive i doveri generali dei cristiani, che esorta ad una vita ascetica, e pone i fondamenti della legislazione monastica orientale rispondendo alle questioni pratiche dei monaci. Nello scritto Esortazione ai giovani sulla maniera di trarre profitto dalle Lettere elleniche risolve la questione del rapporto tra la letteratura classica greca c il cristianesimo, facendo concordare l'ideale morale dell'ellenismo e la sua dottrina sulla virtù con l'idea della grazia divina, considerata come dono di Dio.
Nei suoi Commentari della Scrittura, soprattutto dei Salmi, propone le leggi della vita cristiana insistendo sull'umiltà e sul digiuno c biasimando vizi come l'ira, l'avarizia e l'ubriachezza. S. Basilio si è segnalato inoltre per il suo insegnamento sociale. In un mondo nel quale i ricchi diventavano sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri, egli ricorda il dovere assoluto dell'elemosina: il ricco non è il proprietario delle proprie ricchezze bensì l'amministratore delle ricchezze dei poveri. Lo stesso Basilio organizzerà servizi di carità per i miserabili nella sua «casa dei poveri».

12. S. Gregorio di Nissa (m. 394)

Fratello di San Basilio, è dotato di eccezionali doti filosofiche, che impiega per l’interpretazione mistica del cristianesimo. Fu il padre del misticismo ma non trascurò la morale, il cui fondamento pone nel concetto di uomo come immagine di Dio. Di conseguenza vivere moralmente significa essere sempre in movimento verso la realizzazione in se stessi di questa immagine nelle diverse condizioni della vita, per es. nella verginità, nonostante che fosse sposato. Fu eletto vescovo di Nissa, una sorte di decanato rurale. Insiste anch’egli sull'amore verso i poveri e sull'elemosina, condannando l'usura come una calamità sociale.

13. S. Gregorio di Nazianzo (m. 390)

Amico di Basilio fin dalla giovinezza. Studiano insieme ad Atene e subisce il fascino del suo conterraneo. Di estrazione aristocratica come Basilio, fu sacerdote a Nazianzo dove è vescovo suo padre. Fu patriarca di Costantinopoli. Fu grande oratore tanto da meritarsi l’appellativo di Demostene cristiano. Riserva alla morale la stessa importanza degli altri Cappadoci.

14. La scuola di Antiochia

Altra scuola importante fu quella d'Antiochia, il cui maggior rappresentante fu S. Giovanni Crisostomo (m. 407), patriarca di Costantinopoli, ma conosciuto soprattutto come prete ad Antiochia, centro della sua splendida predicazione. La maggior parte della sua opera è costituita dalle Omelie, che commentano quasi tutto l'AT e il NT. Alla luce delle regole della sobria esegesi antiochena Giovanni Crisostomo scopre il senso spirituale della Scrittura, situa le dottrine stoiche e platoniche in un contesto cristiano e ne dà le applicazioni immediate e pratiche.
Questo autore è prima di tutto un moralista; suo scopo e promuovere il bene morale dei suoi uditori elettori. Temi preferiti del suo insegnamento morale sono i vizi e le virtù. Al primo posto della vita virtuosa egli pone l'amore di Dio e del prossimo, assegnando un luogo privilegiato all'amicizia. Condanna vizi come la vanagloria, la lussuria, la gozzoviglia; mette in guardia dalle occasioni di peccato come gli spettacoli del circo e del teatro, «assemblee di Satana». Nessuno come lui ha profuso tanto impegno nella promozione della giustizia e richiamato con tanta forza l'obbligo dell'elemosina. In alcune opere definisce i doveri morali delle diverse condizioni umane: il trattato Sul sacerdozio è «uno dei più preziosi tesori della letteratura patristica»; il trattato Sulla verginità gli ha meritato il titolo di apostolo di questa forma di vita; monaco lui stesso, canta la lode del monachesimo. Nel matrimonio vede una unione indissolubile fondata sull'amore reciproco e sulla legge divina. Sottolinea pure la necessità della educazione dei figli (è il titolo di un'altra sua opera). Si interessa della politica mostrando l'origine divina del potere ma anche le condizioni umane e morali del suo esercizio.

15. San Cirillo di Gerusalemme (313-387)

Nacque a Gerusalemme nel 313. Fu dapprima monaco e poi vescovo di Gerusalemme dal 348. Difensore strenuo della fede contro l’arianesimo, fu più volte esiliato. Non ebbe un grande influsso dottrinale nelle controversie trinitarie. Fu un grande interprete della tradizione.
La sua opera principale Le Catechesi è una esposizione semplice e popolare dei contenuti della fede
L’esortazione morale integra sempre l’insegnamento dottrinale in quanto il suo metodo è sempre didattico.
La Catechesi sono 24 precedute da una pro catechesi. Diciotto son rivolte ai catecumeni prossimi al battesimo, 5, chiamate mistagogie, sono rivolte ai neofiti nella settimana di pasqua e trattano dei sacramenti dell’iniziazione ricevuti la notte di pasqua.

16. I Padri latini del sec. IV-VII

I Padri latini presentano caratteri molto meno speculativi e sistematici di quelli dell’oriente. Sono però più interessati ai problemi sociale e morali.
La poca attenzione alla speculazione contribuisce al notevole ritardo con cui nella teologia occidentale nasce un’antropologia sistematica, che alla luce di un’antropologia complessiva rifletta sull’essenza dell’uomo, sulla sua posizione di fronte al Creatore, sulla sua prassi e sui suoi atti.
L’interesse, invece, è rivolto più verso i filosofi, per meglio risolvere le questioni morali pratiche.

17. Ambrogio di Milano (338-397)

E’ uno dei quattro grandi Padri della chiesa d’occidente. Nacque a Treviri probabilmente nel 338 da un’illustre famiglia romana. Mortogli il padre, che era cristiano, si trasferisce con la madre, la sorella Marcellina e il fratello Satiro a Roma, dove ebbe un’accurata formazione umanistica. Studiò diritto e per un tempo esercitò l’avvocatura.
Fu governatore della Liguria e dell’Emilia ma risiedeva a Milano. Il 7 dicembre del 374 fu ordinato vescovo di Milano, dopo essere stato battezzato cresimato e ordinato sacerdote. Con l’impegno dell’episcopato portò avanti la sua formazione teologica. Ebbe un enorme influsso politico.
Nei suoi scritti di riflette la sua intensa attività pastorale. L’opera che più ha influenzato il pensiero morale è senz’altro il De officiis (sui doveri) che più tardi diventerà ministro rum perché tratta primariamente dei doveri dei ministri sacri. Sia il titolo che il contenuto richiamano l’omonima opera di Cicerone, di cui Ambrogio era un ottimo conoscitore.
La moralità per Ambrogio è l’amalgama tra l’onesto e l’utile. Utilizza sovente lo schema delle virtù cardinali. Tra le opere esegetiche va segnalata per la storia della morale sociale, De Nabuthe, commento dettagliato del cap. 21 del I libro dei Re. In questo testo viene paragonato l’oppressione sofferta dal povero Nabot con la situazione sociale e politica del suo tempo.
Affermazioni di quest’opera sono state riprese dall’enciclica di Paolo VI Populorum progressio, specialmente sul tema della proprietà privata e la destinazione unversale dei beni.

18. Girolamo (347-419)

Nacque a Stridone tra la Dalmazia e la Pannonia nel 347. Visse soprattutto a Roma e in Palestina. Conoscitore straordinario del latino, traduce in questa lingua la Sacra Scrittura e testi patristici. Dotato di carattere forte, ebbe doti polemici.
Per la storia della morale sono interessanti le Lettere. Trattano in forma monografica i temi della verginità, della vedovanza, della vita monastica, della vita clericale e dell’educazione dei giovani.
Principale ispiratore della proposta morale di Girolamo è Origene. Dai filosofi antichi mutua la struttura dell’anima, la virtù in genere e le quattro virtù cardinali. Ma la vera sapienza di Girolamo e quella biblica. E’ la Bibbia la vera maestra di morale e di spiritualità di Girolamo.
L’ascetismo raccomandato a Girolamo si concretizza nella vita religiosa, di cui fu un fervido difensore. Egli concepisce che il chiamato da Dio sia pronto a sacrificare quel che ha di più caro. Perciò raccomanda l’amore alla solitudine e al ritiro, la vita comune, l’austerità nel vestire e nel mangiare, la preghiera continua, lo studio della Bibbia.
Insiste sull’obbedienza, che è come la garanzia della veracità delle altre virtù. E’ virtù opposta alla superbia e quindi equivale all’umiltà.

19. Agostino di Ippona (354-430)

La più possente e sontuosa mediazione fra cristianesimo e platonismo anche per ciò che riguarda la riflessione morale, è stata operata da S. Agostino (354‑430), il Padre che ha esercitato il più profondo, vasto e duraturo influsso in tutta la morale cristiana seguente.
E' impossibile nei limiti del presente corso dare anche una visione sintetica della dottrina morale agostiniana; l'unica cosa che forse possiamo tentare di fare è semplicemente quella di vedere la piega che con Agostino prende la costruzione della domanda morale nel pensiero cristiano o, in altre parole, la modulazione originale con cui viene sviluppata
L'originalità di simile costruzione consiste nell'aver collocato il problema morale, il problema del retto agire, nel problema del rapporto fra Pensato (legge) e vissuto, fra Bene e storia sia personale che universale. L'impianto neoplatonico del suo pensiero lo portava a questa formulazione del problema morale come problema di «elevazione al di sopra delle faccende feriali» come sforzo di adeguare il vissuto al pensato, l'agire alla legge ideale.
All'interno di questo modo di costruire la domanda morale Agostino elabora alcune categorie concettuali che da lui iniziano la loro storia mai più finita nella riflessione elica cristiana. Esse mi sembrano soprattutto due: legge eterna ‑ coscienza morale: non si tratta, specie per la seconda (atteso il discorso origeniano in merito) di creazioni ex nihilo del pensiero agostiniano, ma dall'elaborazione agostiniana escono con un volto nuovo, con una nuova carta d'identità ed è con questa che entrano nella tradizione cristiana.
La legge eterna viene da Agostino intesa come il divino pensato e pertanto il bene come tale cui tutte le cose e l'uomo devono conformarsi; l'impalcatura concettuale di simile discorso ha perso contatto con la concezione che di legge naturale aveva elaborato il diritto romano, concezione nata da precise esigenze giuridiche, cioè storiche, per radicarsi unicamente nel neoplatonismo colla conseguenza che larghe falde del vissuto dovranno essere defalcate.
Si pensi alle conseguenze di simile impostazione nel campo della morale matrimoniale agostiniana.
La coscienza, atteso lo «psicocentrismo» del discorso agostiniano e la sua tendenza ad esigere l'introspezione al centro stesso della sapienza, diviene un punto focale del discorso etico: è forse con Agostino che il discorso etico cristiano fa della riflessione sulla coscienza un tema‑chiave. La coscienza è ormai vista come il luogo della presenza del Bene all'uomo e l'ascesa di questi verso di Esso coincide con un processo di progressiva interiorizzazione ed ascolto della coscienza.
Dentro la comunità cristiana ormai il problema morale si porrà in questi termini: come conformare il vissuto umano al pensato divino? (problema del rapporto tra Bene e storia).

20. Leone Magno (400-461)

Nacque a Volterra, ma risiedette quasi sempre a Roma. Da bambini assistette all’invasione di Roma da parte delle truppe di Alarico (410).
Consacrato vescovo di Roma nel 440, in un’epoca di disgregazione politica in Occidente, Leone I si concentrò sulla creazione di un potente governo centrale nella chiesa e sulla soppressione sell’eresia. Ebbe una enorme influenza. Convocò un sidono di vescovi a Milano, la sede vescovile più potente dopo quella di Roma. Seppe convincere, nel 452, l’unno Attila a non invadere Roma. Tre anni dopo, pur non potendo impedire il sacco di Roma da parte del vandalo Genserico, riuscì ad evitare il massacro dei cittadini.
Leone ebbe anche una influsso enorme sulla chiesa d’oriente. Il suo più grande successo fu il concilio i Calcedonia (451), convocato per condannare l’eresia del monaco bizantino Eutiche, che affermava la sola natura divina in Cristo (monofisismo), negandone la natura umana. La definizione delle due nature (divina e umana) di Cristo formulata dal nostro nel Tomus ad Flavianus (449), lettera dottrinale inviata al patriarca di Costantinopoli, venne approvata dal concilio con le famose parole: «Pietro ha parlato per bocca di Leone».
Di Leone I restano Sermoni e Lettere: dalle une traspare il suo governo, dalle altre la sua personalità religiosa. La sua visione di cristianesimo è: fede nell’opera misericordiosa di Dio manifestata in Cristo, che esige una condotta coerente con la grazia ricevuta.
La sua morale: è la via della perfezione tracciata della fede, da raggiungere attraverso la buona condotta. L’impegno morale si basa sulla rivelazione misericordiosa di Dio, si incanala attraverso la ricerca della somiglianza divina, si concretizza nell’identificazione con Cristo e si manifesta nelle opere di bontà.

21. Cesario di Arles (470-543)

Entrato giovanissimo nel monastero di Lerin, fu allievo di Giuliano Pomerio. Divenne vescovo di Arles nel 502 e dal 514 fu primate della Gallia e della Spagna. Morì nel 543.
Fu un predicatore assiduo ed efficace. Scrisse numerose opere. Si ricordano: un trattato sull’Apocalisse, Sulla Trinità, Sulla grazia. Combatte efficacemente l’eresia ariana e quella pelagiana.
Abbiamo però I Sermoni giuntici in numero di 238 che offrono un interessante quadro del suo animo e della società dell’epoca. In uno stile particolarmente dimesso, ma non trascurato, voluto per venire incontro alle esigenze dei fedeli meno colti, offre spunti di riflessioni a preti e monaci, commenta testi biblici e illustra feste liturgiche. Si ispira molto ad Agostino.
Cesario non è un teologo morale propriamente detto, ma un pastore che cerca di correggere i comportamenti dei suoi fedeli. La dottrina esposta nei suoi Sermoni costituisce la transizione tra il periodo della patristica e quello del Libri penitenziali. L’influenza di Cesario sulla disciplina ecclesiastica è stata enorme: rappresenta un anello di congiunzione tra due epoche.
I temi di morale da lui più sviluppati sono temi di morale sessuale. Esorta i giovani a preservare la verginità prima del matrimonio e i coniugi a serbare la fedeltà coniugale. Condanna l’adulterio sia dell’uomo che della donna, opponendosi all’abituale severità contro le donne e al lassismo nei confronti degli uomini.
Sostiene che, se anche autorizzato dalla legge civile, il concubinato è peggiore dell’adulterio. Per prevenire simili vizi è necessario fuggire dalle conversazioni lascive e dagli eccessi di cibo. I chierici, anche se sposati, devono evitare la vicinanza con donne estranee. Le vergini devono essere caste nel corpo e nel cuore. Le religiose eviteranno ogni sguardo al volto degli uomini e ogni compiacenza nel tono della voce, inclusa quella del lettore.

22. Gregorio Magno (540-604)

Gregorio è considerato l’ultimo Padre della Chiesa e il primo scrittore medioevale. Nato a Roma nel 540, dopo essere stato prefetto di Roma, si fece monaco nel monastero sul Celio, oggi a lui dedicato. Dopo essere stato nunzio a Costantinopoli, fu eletto nel 590 vescovo di Roma.
Fornito di grande buon senso, autentico genio pratico, esercitò magnificamente l’arte del governo: con la rettitudine e la discrezione. Seppe farsi amare dalla maggioranza.
Nell’animo di Gregorio convivono due mondi: uno che finisce e l’altro che comincia. Ha saputo dare impulso all’azione pastorale in tutta la chiesa. E’ stato il grande restauratore della disciplina canonica.
Tra le sue opere ricordiamo la Regola pastorale. Scritto di grande importanza per il tutto il medioevo. I Moralia, commento al libro di Giobbe. Gregorio è stato l’autore più citato nei secoli successivi. San Tommaso se ne serve moltissimo nella sua Summa.
Da autentico romano, orientato principalmente verso i dati pratici della vita cristiana, è preoccupato di cercare e trovare nella Scrittura gli esempi per la vita morale e di esporne minutamente e imperativamente i singoli precetti e consigli. Egli infatti è sicuro che la Scrittura, come parola di Dio, oltre al senso letterale e allegorico, abbia anche sempre un senso morale che va scoperto ed esposto.

23. Altri padri greci e latini

Massimo il Confessore (579-662). Teologo che fa da ponte tra oriente ed occidente. Oltre alla sua ricerca teologica trinitaria e cristologica, è importante la sua teoria sul contributo che la fede può dare alla realizzazione umana: la fede divinizza l’uomo. Per l’insegnamento morale va ricordato la sua teologia della legge, tanto quella naturale che quella formulata dagli uomini e soprattutto la legge della grazia.

Giovanni Damasceno (m. 749). E’ uno dei primi teologi a dialogare con l’islam. A Damasco, città natale, succede a suo padre come ministro delle finanze del califfo. Dopo varie esperienze negative vende tutti i suoi beni dà il ricavato ai poveri e si fa monaco nel monastero di San Saba, presso Gerico.
Il Damasceno occupa un posto di rilievo nella riflessione teologico-morale: l’uomo, creato ad immagine di Dio è il soggetto della morale cristiana. Tale orientamento antropologico è divenuto una costante della teologia morale

Vanno anche ricordati: Eusebio di Cesarea, storico della chiesa (265-340), Ilario di Poitiers (315-365), l’Atanasio d’Occidente, Martino di Braga (M. 580) e Isidoro di Siviglia (562-636).

24. Bilancio conclusivo

La teologia patristica costituisce uno dei momenti privilegiati della morale cristiana, dal punto di vista della sua vita e della sua riflessione. Lo stile di vita cristiano riceve le sua configurazione definitiva nei primi secoli della chiesa. Da parte sua la riflessione teologico-morale ha inizio con gli scritti di quest’epoca.
L’importanza della teologia patristica risulta evidente nei seguneti punti:
- La vita della chiesa primitiva e gli scritti dei Padri sono tra gli elementi più significativi della tradizione ecclesiale, luogo normativo ed epistemologico per la vita cristiana e per la riflessione teologica. Dice il Vaticano II: «le asserzioni dei santi Padri attestano la vivificante presenza di questa tradizione le cui ricchezze sono trasfuse nella pratica e nella vita della chiesa che crede e che prega» (DV n. 8).
- In epoca patristica si realizza la prima grande inculturazione della morale. Avendo come contesto la morale dell’Antico Testamento e del periodo intertestamentario e nata direttamente dalla prassi e dall’insegnamento di Gesù, la morale cristiana si radica nella società greco-romana e nella cultura ellenistica. Se nei primi scritti è più forte l’influsso dell’ebraismo, a partire dal III secolo si passa dal contesto ebraico all’universo mentale dell’ellenismo. L’influsso dello stoicismo, nella morale patristica, è evidente in categorie etiche come quella della "legge naturale".
- La patristica non è solo testimonianza di un momento storico della formulazione della morale cristiana, ma anche una pietra miliare da considerare come espressione paradigmatica della dimensione morale della fede. Bisogna sempre tornare allo spirito della morale patristica: per derivare il comportamento morale dalla confessione di fede in Dio Padre, in Cristo Verbo incarnato e nello Spirito. Per comprendere la morale cristiana nella sua indissolubile articolazione con i sacramenti, la liturgia, la spiritualità. Per proporre un’elevazione continua dell’ideale della perfezione umana. Per mantenere in vita l’opzione cristiana a favore della dignità e della dignificazione della persona, soprattutto negli individui e nei gruppi più deboli della società.
- «La teologia morale dei Padri è una teologia della perfezione, che indica il fine al quale è necessario giungere: la virtù soprattutto la carità. E’ ispirata in primo luogo alla Scrittura, ma usa anche i grandi sistemi morali dello stoicismo e del platonismo, ai quali conferisce un colore evangelico. L’insegnamento morale è incluso nei casi pratici. Infine, la teologia morale dei Padri non è affatto influenzata dalla pratica della pubblica penitenza» (Vereecke).

mercoledì 9 febbraio 2011

2.1. MORALE MEDIOEVALE parte prima

1. Quadro generale

Consideriamo periodo medioevale quel lungo periodo che va dalla fine della patrologia, che possiamo far coincidere con la morte di San Massimo il Confessore avvenuta nel 662, all’inizio del rinascimento sec. XVI.
Geograficamente si svolge soprattutto in Europa. Culturalmente ci si riferisce a quella cristianità che nasce con l’ingresso nella fede cristiana dei popoli cosiddetti barbari, che hanno preso il potere sull’impero romano.
Ci si riferisce, inoltre, allo sviluppo della teologia morale nella cristianità occidentale romanica e gotica. In ogni modo, anche non se ne faranno cenni espliciti, non si può non tenere conto dell’esistenza di un altro universo cristiano, che si forma attorno all’ortodossia orientale e all’impero d’oriente.
Inoltre la cristianità occidentale non si potrà comprendere senza il continuo riferimento all’Islam come nuova forma religiosa di intendere e vivere l’esistenza e come ambito culturale e filosofico in cui si trasmette e si rielabora il pensiero filosofico e culturale dell’antichità greco-romana.
Nella storiografia si assiste a una rivalutazione del medioevo. Non è più considerato il "periodo buio", l’età "di mezzo" tra l’ideale dell’antichità e il rinascimento dell’età moderna. L’epoca che chiamiamo "medioevale" ha i suoi aspetti oscuri, ma presenta anche elementi di autentico "illuminismo" umano e religioso.
La teologia morale ha conosciuto uno sviluppo decisivo durante il medioevo dell’occidente cristiano. Questa è l’epoca della costituzione del sapere teologico. «Questo è il periodo più ricco della teologia in generale e anche della teologia morale» (Valsecchi).
In questo periodo la morale è una disciplina all’interno della riflessione teologica. Non esiste ancora una riflessione indipendente. Tuttavia raggiunge all’interno della teologia il suo statuto epistemologico. Ha inizio in questo periodo con l’adozione di Aristotele come autore di ispirazione, da parte della filosofia la nuova disciplina filosofica denominata etica. Questo evento, anche se in qualcuno come in Bonaventura ha significato un freno, a lungo andare ha aiutato lo sviluppo della specificità e del contenuto della riflessione morale cristiana.
Nello sviluppo del pensiero teologico-morale del medioevo possiamo distinguere due aspetti caratterizzanti: un aspetto speculativo e uno pratico. La morale speculativa è collegata all’insieme della riflessione teologica. La morale pratica, invece, è vincolata al sacramento della penitenza e assume l’aspetto di due grandi generi letterari: i Libri penitenziali e le Somme dei confessori.
Come è logico i due aspetti non sono separati ma in reciproca dialettica, ma per motivi didattici ne trattiamo in due paragrafi separati.

2. Morale speculativa

Lo sviluppo della riflessione morale va configurata in quattro momenti che possono essere simboleggiati dalle quattro stagioni:
- Inverno: il passaggio dalla patristica alla cristianità medioevale, da San Gregorio Magno (m. 604) a Sant’Anselmo d’Aosta.
- Primavera: il risvegliarsi teologico nel sec. XII.
- Estate: la maturità del sec. XIII.
- Autunno: le nuove tendenze dei sec. XIV e XV.

3. Alto medioevo

Questo periodo va, come abbiamo detto dalla fine della patristica fino a Sant’Anselmo, dal sec. VII al sec. XI. Epoca che gli storici della morale definiscono "inverno" in quanto a vita cristiana, perché si sgretola la cultura romana, si fa strada un altro mondo quello dei popoli cosiddetti barbari, si produce una nuova inculturazione della fede con la nuova cultura e nasce il modo medioevale di intendere e di vivere il cristianesimo.
Gli autori che in successione vengono sinteticamente segnalati sono quelli che mi sembrano i più importanti per la riflessione morale.

4. Nuove tendenze

Questa è l’epoca della conversione dei popoli barbari al cristianesimo. In essa hanno giocato un ruolo importante i monaci irlandesi e bretoni.
All’inizio di questo periodo, circa il sec. VI si è diffusa, sempre per merito dei monaci, la penitenza privata o confessione auricolare. Questa consisteva:
- nella confessione dei peccati fatta in privato ad un prete,
- nell’imposizione di una penitenza determinata,
- nell’assoluzione finale.
Detta confessione era ripetibile e non comportava, come la penitenza canonica, interdetti penitenziali.
La cosa più importante in tutto questo era l’imposizione della penitenza, la quale doveva essere rispettosa della cosiddette tariffe penitenziali: ad ogni colpa era assegnata una penitenza precisa, soprattutto digiuni, secondo una distinta casistica che teneva conto: delle circostanze dell’azione e della qualità dei penitenti, cioè: clero, monaco, laico, uomo o donna.
Le tariffe erano indicate in libri riservati ai confessori, intitolati Libri penitenziali.
La storia di questi libri è veramente difficile da raccontare. Ogni diocesi praticamente aveva una sua lista di peccati e di penitenze, dove l’enumerazione delle colpe era enormemente diversificata e l’elenco delle penitenze assolutamente indipendente.
Il rinascimenti carolingio cercò di mettere un po’ d’ordine e tentò soprattutto di rendere il tutto più interiore la pratica della penitenza. Ci riuscì in parte.
L’ultimo libro penitenziale va considerato il Corrector sive Medicus, che costituiva il XIX libro del Decretum di Burcardo (m. 1010) vescovo di Worms.

5. Anelli di congiunzione

Sono quegli autori che mi sembra facciano da congiunzione tra la cultura romana e quella barbara. Sono autori che hanno avuto successo per tutto il medioevo. Il più rappresentativo è senz’altro Sant’Isidoro di Siviglia di cui abbiamo già parlato.
Boezio (480-525). Nacque a Roma e morì a Pavia. Cortigiano di Teodorico, re degli Ostrogoti. E’ considerato «l’ultimo scrittore romano» o «il primo scrittore scolastico». Incarcerato, scrive il De consolatione philosophiae, opera in cui espone la sua morale. Questa ha come obiettivo la beatitudo (felicità), intesa con evidente sfumatura stoica. Di Boezio è la definizione classica di persona: «rationalis naturae individua substantia».
Beda il Venerabile (673-735). Nacque in Inghilterra. Fu monaco. Fu uomo di grande cultura e autore prolifico. Le sue opere teologiche sono di carattere esegetico. Fu apprezzato nei secoli successisi, soprattutto da San Tommaso. Offre un inizio di fondazione teologica della vita cristiana, «una vita nuova in Cristo» iniziata con il battesimo e continuata attraverso la pratica delle virtù, specialmente delle virtù cardinali.
Rabano Mauro (784-856). Nacque e morì a Magonza. Fu monaco, abate di Fulda e vescovo di Magonza. Svolge il lavoro di formatore e di volgarizzatore della teologia. Scrive un trattato di teologia morale fondato sull’esercizio delle virtù.

6. Rinascimento carolingio

Per rinascita carolingia si intende quella ripresa culturale che ci fu alla fine delle grandi invasioni barbariche e la nuova notevole stabilità politica instaurata dall’impero carolingio.
Consolidato il potere con numerose campagne militari, Carlo Magno (742-814) si era proposto una riorganizzazione dell’amministrazione pubblica, sul modello di quella ecclesiastica e una promozione culturale del popolo, iniziando da una riqualificazione del clero. Morale cristiana e Bibbia erano il fondamento comune per una possibile rinascita. Le opere dei Padri, sfuggite alla distruzione, furono gli strumenti per la rigenerazione
Uno dei meriti di Carlo Magno fu la sviluppo della scuola anche per i ceti medio bassi.

7. Alcuino di York (735-804)

Nato a York, morto a Tours. Frequentò e poi diresse la scuola episcopale di York, fino a quanto fu nominato da Carlo Magno (791) a dirigere la Schola Palatina ad Aquisgrana. Nel 801 si ritirò a Tours , riformandovi il monastero.
Alcuino organizzò l’istruzione in tre gradi: 1. lettura e scrittura, elementi di latino volgare, comprensione iniziale della Bibbia e dei testi liturgici; 2. studio del trivio: grammatica, retorica, dialettica, e del quadrivio: aritmetica, geometria, astronomia e musica. 3. Studio approfondito della Sacra Scrittura. Per ognuna delle sette arti liberali Alcuino approntò dei manuali, che hanno però un carattere compilatorio. Alcuino è un conoscitore profondo dei padri, in modo particolare di Agostino, Cassiano e Boezio.

Alla morte di Carlo Magno vi fu un notevole mutamento sociale ed economico nell’impero con conseguenze anche sulla cultura e sull’educazione.
Il dissolvimento dell’impero fece crollare l’ordine costituito nella cristianità occidentale. Ha inizio prima la riforma del monachesimo (Cluny) e poi quella della chiesa con Gregorio VII (1073-1083).
C’è da segnalare: l’affermazione del commercio e dell’artigianato, l’espansione della religione islamica, le crociate (la prima fu proclamata da Urbano II nel 1095). Questi eventi contribuirono a mettere in crisi la struttura feudale e al sorgere della borghesia.
Il sec. XI fu un secolo di transizione in cui scoppiarono grosse polemiche in campo teologico. La più grave portò allo scisma d’oriente del 1054.
La seconda metà del secolo fu turbata dalle teorie eucaristiche di Berengario di Tours e dall’introduzione della dialettica nella ricerca teologica che ebbe un avversario di spessore San Pier Damiani (Ravenna 1007 - Faenza 1072), monaco italiano, dottore della Chiesa e santo.
Intorno al 1043 divenne priore del monastero di Fonte Avellana, vicino a Gubbio. La sua opera fu improntata alla lotta contro gli abusi e l'immoralità del clero, in particolare contro la simonia e la violazione del voto del celibato; a tale riguardo invocò riforme presso il papa Leone IX.
Divenne cardinale vescovo di Ostia (decano del Sacro Collegio dei cardinali) nel 1057, e due anni dopo presiedette un concilio a Milano. Legato di molti papi, collaborò in particolare con Ildebrando di Sovana, divenuto papa Gregorio VII nel 1073. Fu tra gli scrittori latini più fecondi ed eleganti del Medioevo, lasciò un vasto corpus di scritti teologici di vario genere.
L’inizio del secolo vide l’opera riformatrice di San Romualdo (952-1027), il quale sentì l’esigenza di una effettiva povertà, maggiore austerità e forte desiderio di vita solitaria.
Il sec. XII è senz’altro un secolo molto fecondo per l’approfondimento della teologia. Nascono in questo secolo le grandi scuole teologiche: monastiche, canonicali e urbane, nelle quali si inizia ad elaborare sistematicamente la riflessione teologica. Nascono le università con il conseguente accesso alla cultura dei ceti più vari.
Va segnalata la pubblicazione nel 1140 del Decreto di Graziano, monaco camaldolese, la più completa raccolta di leggi per un totale di 4.000 testi. E’ stato il testo di insegnamento del diritto canonico della chiesa fino al 1917.
Nella seconda metà del secolo iniziano a diffondersi le cosiddette Sentenze e le Somme: un tentativo di operare una sintesi fra le varie tendenze teologico-morale.
Alcuni teologi in questo periodo hanno cercato di dedurre dalla dottrina di Agostino il cosiddetto agostinismo politico, cioè: il potere temporale va diminuito al massimo ai laici e rafforzato quello ecclesiastico e particolarmente papale. Si tende di attribuire alla chiesa e al Papa il fondamento di ogni potere, giurisdizione e diritto anche nell’ordine temporale. Il Papa deve essere detentore del potere spirituale e di quello temporale.

8. La teologia del sec. XII

Gli storici della teologia parlano di rinascita teologica nel sec. XII. Si passa dalla sacra pagina alla teologia scolastica.
In questo secolo le scuole divengono ambiti di trasmissione del sapere, della formazione teologica e della ricerca nelle scienze cristiane. La varietà della riflessione teologica è data dalla differenza tra le scuole. Come abbiamo già annotato vanno distinte le scuole monastiche, canonicali e urbane.

9. Le scuole monastiche

Esse iniziano a fiorire dalla riforma di Cluny (950) e quella di Citeaux (inizio del 1100). I due protagonisti delle rispettive riforme sono Pietro il Venerabile (m. 1156) e Bernardo di Chiaravalle (1091-1153), ma il vero iniziatore della scuola monastica è da ritenersi Sant’Anselmo di Aosta (1033-1109).
Il primo impulso dello sviluppo della teologia monastica fu la fioritura delle scuole nate all’ombra dei monasteri. L’ordine monastico sentì la necessità di un profondo rinnovamento spirituale specialmente in ciò che riguardava la solitudine e la povertà. Abbiamo già detto di Cluny e di Citeaux e della Regola di Romualdo. Il clima di riforma fu senz’altro alimentato dall’intensificarsi della teologia monastica, la quale era alimentata in profondità dalla Sacra Scrittura e dalla letteratura patristica. Diffidò dell’uso toppo esteso della dialettica e richiese disposizioni di umiltà e di semplicità
Oggetti preferiti di riflessione furono la storia della salvezza, in specie i misteri di Cristo, testimoniati dalla Sacra Scrittura e celebrati dalla liturgia. Il problema dell’unione dell’anima con Dio e della conseguente antropologia.
La teologia monastica era molto sensibile ai problemi morali anche se considerati in una prospettiva spirituali e ascetici. Non mancarono inevitabili tensioni con la teologia cosiddetta speculativa, perché c’era un forte rifiuto ad accettare i nuovi fermenti razionali e la conseguente necessità di mettere insieme dati tradizionali e audacia innovativa fervore religioso e preoccupazioni metodologiche.
Si può affermare senza paura di essere smentiti che la teologia elaborata nei monasteri in questo periodo è prima di tutta una profonda riflessione sulla ricerca della perfezione. L’interesse dei monaci era quello di ricercare ciò che edifica e attrae la volontà all’amore della virtù. Un posto importante viene dato alla riflessione sulla libertà, collegato al progresso spirituale e di ciò che lo ostacola: i vizi, i peccati capitali, la tentazione e l’amore carnale.
La prima fonte di riflessione è la Bibbia i cui testi vengono letti secondo un’esegesi messa appunto da San Gregorio Magno, con una lettura spirituale e morale, facendo attenzione soprattutto su ciò che edifica e attrae la volontà all’amore della virtù. La Scrittura è la norma suprema non solo in materia di dottrina e di fede, ma soprattutto in materia morale.
La riflessione morale monastica si ispira a quella patristica. Si ispira a San Basilio, alle Collationes di Giovanni Cassiano, ma la fonte principale di ispirazione fu il Moralia in Job di San Gregorio Magno.

10. Sant’Anselmo di Aosta (1033-1109)

Nacque ad Aosta e morì a Canterbury. Di nobile famiglia compì i suoi studi nell’abbazia bnedettina di Bec in Normandia. Ebbe come maestro un certo Lanfranco (1007-1089)che fu suo predecessore come vescovo di Canterbury. Questi profondo teologo insegno ad Anselmo il rigore metodologico e il senso spirituale. Nel 1060 divenne monaco nella stessa abbazia dove qualche anno dopo vi fu eletto abate. Nel 1093 fu eletto vescovo di Canterbury. Il suo compito più impegnativo fu quello di difendere le prerogative e l’autonomia della chiesa contro l’ingerenza dei sovrani inglesi. E’ dottore della chiesa.
Le sue opere sono: il Monologion, soliloquio sulle ragioni della fede; il Proslogion, colloquio che come sottotitolo fides quaerens intellectum. Inoltre ha scritto: sulla Trinità, sull’Incarnazione sulla Redenzione (Cur deus homo?) .
Anselmo non ha trattato ex professo questioni morali, ma ci lasciato un breve trattato sugli atti umani, sul peccato che viene definito privazione del retto ordine, sulla obbligazione morale e sulla verità.
Anselmo nella sua riflessione teologica parte dalla convinzione che è possibile approfondire la fede a partire dalle sue ragioni interiori: credo ut intelligam, intelligo ut credam. Ragione e fede non due entità separate, ma complementari. La riflessione teologica di Anselmo è guidata dalla convinzione che Dio vuole comunicare agli uomini la sua felicità.
La dignità dell’uomo consiste nel suo essere immagine di Dio, immagine deturpata dal peccato di origine e dignità sporcata. La gloria di Dio consiste nella volontà di restaurare questa rettitudine e la conseguente destinazione a Dio. Secondo Anselmo dio lo può perché è sommamente libero. Libertà che è a fondamento della libertà umana.
Dal punto di vista della riflessione morale, Anselmo è preoccupato di presentare a tutti i fedeli l’insegnamento autentico di Cristo e come la carità debba dare forma a tutti i comportamenti morali.
Anselmo propone una morale dell’autenticità: il cristiano è chiamato ad agire per Dio. Egli riflette molto sulla bontà morale e del legame di questa con la libertà . La bontà consiste nell’adeguamento all’idea di bontà divina sulla quale è modellata. La motivazione dell’atto di volontà non può consistere nell’ottenimento della beatitudine, ma il giusto voluto per se stesso, e, in ultima analisi, la gloria di Dio amata con vera carità.
Gli uomini hanno avuto in dono la libertà non per raggiungere ciò che vogliono, ma per volere ciò che essi devono e quindi ciò che per loro è conveniente volere, cioè la rettitudine o bontà.
La definizione di bontà morale passa attraverso la definizione di libertà umana, che per Anselmo è: libertà e libero arbitrio. La libertà propriamente detta, in quanto ordinata al bene non può scegliere il male. La scelta del bene e del male è appannaggio del libero arbitrio. E’ la volontà, atteggiamento tipicamente umano, l’elemento moralmente determinante.
Anselmo è il primo teologo a definire la moralità non in base al fine dell’azione (morale della terza persona), ma in base alla volontà (morale della prima persona).
Con Anselmo la riflessione teologico-morale assume i connotati della razionalità e dell’interiorizzazione, perché introduce nell’agire umano la coscienza e la decisione come regole della moralità dell’atto, evitando di creare una morale della pure intenzionalità. Anche se nella valutazione morale l’aspetto soggettivo o l’intenzione restano essenziali.
Parlando di scuola monastica no si può non parlare della celebre abbazia di Cluny. Fondata nel 909, ebbe nell’abate Oddone il suo grande riformatore, dandole una robusta linea di spiritualità. Orientamento principale del monastero era la vita contemplativa per arrivare alla più alta ed intima unione con Dio. I mezzi per raggiungere tali altezze dovevano essere utilizzati i seguenti mezzi: canto delle lodi divine, vita comune ritirata, attività moderata, studio delle sacre discipline, austerità effettiva, ma non eccessiva, culto delle arti decorative.
Cluny sentì la necessità di federarsi con altri monasteri e creare così un ordine centralizzato. I più famosi abati di Cluny furono Pietro il Venerabile (1092-1158) e Bernardo di Cluny (1091-1153).
La scuola cistercense ebbe come caratteristica una interpretazione letterale della Regola di Benedetto. Cistercense deriva dalla cittadina francese Citeaux, vicino a Digione, dove fu fondato da Roberto abate di Molesmes il primo monastero riformato nel 1098. Suoi successori furono Alberico e Stefano Harding.
Lo scopo della riforma ritornare alle fonti autentiche del monachesimo, alla monastica puritas. Sua caratteristica: la contemplazione che deve portare alla unione mistica con Dio. I mezzi utilizzati sono: la recita delle ore canoniche, austerità nella vita e povertà nel mangiare.

11. San Bernardo di Chiaravalle (1090-1153)

Nacque a Fontaines, vicino a Digione nel 1090. I suoi genitori sono Aletta e Tescelino, vassalli di Oddone I di Borgogna. Delle sette arti liberali studiò solo la grammatica e la retorica. Nel 1111 insieme a fratelli e amici decise di vivere una vita penitenziale in casa, Nel 1112 insieme a dodici amici si fece monaco nel monastero riformato di Citeaux.
Nel 1115 fu inviato dall’abate Stefano Harding di Citeaux a fondare un monastero a Clairveaux (Chiaravalle), per decongestionare Citeaux dove da tre anni affluivano in grandissimo numero i postulanti. Alla sua morte Bernardo aveva fondato 160 monasteri. A Chiaravalle i monaci raggiunsero il numero a settecento.
Sconfigge l’antipapa Anacleto II (1138). Sconfigge le temerarie audacie dell’insegnamento teologico di Abelardo. Nel 1146 iniziò la predicazione della seconda crociata, che guidata dal re di Francia e di Germania, fallì miseramente. Visse il trauma della vicenda di Papa Eugenio III (1145-1153) e Arnaldo da Brescia (m. 1155). Morì a Clerveaux nel 1153.
Scrisse 332 Sermoni, importanti quelli che commentano Il Cantico dei Cantici, I gradi dell’umiltà, L’amore di Dio, La Grazia e il libero arbitrio. Scrisse svariati altri opuscoli di teologia, di liturgia e di agiografia.
La via maestra per arrivare a Dio non è la speculazione, ma l’umiltà, che sorella della verità: la via che conduce alla verità è Cristo e il grande insegnamento di Cristo consiste nell’umiltà.
L’umiltà nel suo primo grado insegna di conoscere se stesso, nel secondo di avere compassione del prossimo e nel terzo rende l’anima di contemplare Dio.
L’umiltà permette di permette di salire la "mistica scala di Giacobbe". Invece di vien meno alla perfezione a causa di curiosità, di leggerezza spirituale, pazza gioia, singolarità, ostinazione, arroganza, presunzione, ipocrisia.
La preoccupazione principale degli scritti di Bernardo è di condurre gli interlocutori alla perfezione, per questo insiste molto sulla legge del progresso: rifiutare di salire più in alto è cessare di essere buoni. La tensione costante alla perfezione è già possederla in qualche modo.
Assertore della tradizione e studioso attento dei Padri della chiesa, in modo particolare di Sant’Agostino, pensa e parla come la Sacra Scrittura, per cui la predicazione è profondamente legata al dogma e alla spiritualità.
Vari sono i temi morali trattati da Bernardo nei suoi scritti:
- il ritorno a Dio dell’uomo creato a sua immagine e deturpato dal peccato, ma purificato dall’umiltà;
- il passaggio dalla dissomiglianza alla somiglianza con il Dio ritrovato;
- la morale dell’amore che solo converte le anime e le conduce al loro principio: misura dell’amore di Dio è di non avere misura;
- l’imitazione di Cristo, sposo e amico, nella sua umanità.
Nell’ultima parte del suo Sermoni sui Cantici si propone di esporre la grande dottrina dell’unione sponsale e amorosa dell’anima con Dio e della restaurazione in noi dell’immagine di Dio, deformata dal peccato.
Ne trattato sulla Grazia, riprendendo Agostino, insegna che i meriti dell’uomo altro che i doni di Dio, ma che suppongono la cooperazione della volontà umana. E’ Dio che in ordine al bene produce in noi: il pensiero senza di noi, il volere insieme a noi, l’atto perfetto per mezzo di noi. Creata per un atto di amore divino, la volontà dell’uomo è essenzialmente un atto di amore di Dio, un atto di carità divina.
Il peccato consiste propriamente nell’atto con cui l’uomo vuole se stesso per se stesso o vuole per se le altre creature di Dio, invece di volere se stesso e il resto per Dio.
Per progredire spiritualmente l’uomo deve cercare di riconquistare la piena libertà di amare Dio. Si tratta della possibilità di scegliere e la libertà dal peccato, avuta in dono nello stato originale, ridonata dalla redenzione, per cui si può non peccare il che vuol dire il non poter peccare, fino a raggiungere la liberazione totale e definitiva in paradiso.
Bernardo tratta sovente del tema della coscienza, sottolineandone soprattutto il valore religioso, intendendola come voce e presenza di Dio. Ma ne tratta anche sul piano propriamente morale intendendola come il giudizio dei nostri atti, la norma prossima della moralità. La coscienza è il testimone di Dio in noi, ispira il rimorso della azioni cattive e la gioia di aver agito bene.
La teologia di Bernardo può essere sintetizzata nell’amore: Dio è carità e fonte di amore: vive di amore, fa in modo che lo si ami, dona l’amore e il motivo di amare.
L’amore per Bernardo è la legge, la giustizia, il desiderio e il possesso, l’uscire da sé e l’estasi. E’ la spiegazione di Dio e dell’uomo. E’ la più elevata delle conoscenze, che aiuta a pervenire alla più alta contemplazione e alla più attiva opera a favore della chiesa.
Bernardo non ha tralasciato di trattare della morale politica fondata sulla pace e sulla promozione sociale dei contadini e degli artigiani.

12. La scuola di San Vittore

In parallelo con la scuola monastica sorsero le scuole canonicali, si tratta di scuole di teologia gestite dai canonici regolari, i quali pur vivendo la vita conventuale, si dedicavano anche ad attività pastorali. Dette scuole sono caratterizzate dal metodo teologico, cioè si rifacevano alla riflessione monastica, ma erano aperte alle nuove correnti di pensiero.
La più famosa fu la scuola di S. Vittore di Parigi.
Detta scuola era tenuta dai canonici regolari di Sant’Agostino. Fu fondata nel 1108 o 1109 da Guglielmo di Champeaux (1070-1122) che era stato discepolo di Sant’Anselmo di Laon (1050-1117). La scuola di San Vittore fu resa illustre da Ugo e Riccardo, ma divenne ben presto un grande centro intellettuale con varie filiazioni sparse un po’ ovunque.
La caratteristica fondamentale della scuola è quella di essere propedeutica alla vita mistica. Infatti, accanto ad una scienza propriamente teologica, basata sullo studio della Sacra Scrittura, si insegnavano anche discipline propriamente razionali. Si insisteva sulla necessità della preghiera e della contemplazione, si fondeva mistica e cultura.
I teologi di San Vittore, detti vittorini, sostengono che la creazione è opera del Verbo, la parola di Dio esteriore. Ogni creatura è come una sillaba che esprime il Verbo e che permette all’uomo di innalzarsi fino al Creatore. Poiché l’ordine dell’universo è stato messo a soqquadro dal peccato, Dio ha donato all’uomo un nuovo segno l’umanità di Cristo, perché questi possa elevarsi. L’umanità di Cristo è incentivo all’imitazione e guida per arrivare all’amorosa contemplazione.
Nella scuola di San Vittore accanto all’insegnamento della sacre Scritture si impartisce anche l’insegnamento delle «scritture secolari». Innovazione però incerta, non si tratta di una integrazione, ma di semplice giustapposizione, non integrazione, ma correlazione tra i due campi del sapere.
A San Vittore si ha una visione pessimistica della filosofia profana, in modo particolare dell’etica filosofica. Questa è ritenuta una morale tronca e senza vita, incapace di dare una precisa impostazione alla vita umana. Sola la scienza morale fondata sulla Sacra Scrittura può riformare l’uomo. Intuizione importante che però resta tale.
Ugo di San Vittore (1096-1141). Nacque probabilmente in Lorena nel 1196. Entrato nel 1118 nell’abbazia di San Vittore, a Parigi, ben presto divenne direttore della scuola che aveva ivi la sua collocazione e così contribuì al suo sviluppo e al suo prestigio. Spirito aperto cercò di amalgamare le scienze sacre con quelle profane per volgerle alla contemplazione di Dio.
Studioso attento della Sacra Scrittura ne trasse l’idea ispiratrice della sua dottrina teologica e spirituale: la restaurazione dell’uomo decaduto.
La sua opera fondamentale è il Didascalion, in sei libri, una specie di introduzione allo studio delle arti liberali. Ben presto divenne il testo base della pedagogia medioevale. L’idea portante è: la realtà visibile segno delle realtà invisibili.
Nel De sacramentis, esposizione della fede cristiana, che per completezza e originalità rappresenta il sistema teologico più completo del medioevo. Si tratta del primo tentativo di fare teologia della storia, scoprire, cioè, il senso della storia umana a partire della economia della salvezza. La storia dell’umanità ruota intorno all’idea della creazione della restaurazione.
Per la trattazione di problemi di morale Ugo si serve di piccoli opuscoli che trattano specificamente queste tematiche. Presenta la sua riflessione morale suddivisa in tra momenti:
- morale solitaria: riguarda il comportamento dei singoli;
- morale economica: riguarda la condotta famigliare;
- morale politica: riguarda la vita di una città o di uno stato.
Ugo non elabora una teologia morale fondamentale.
L’amore precede sempre la conoscenza. Esso conduce oltre ogni meta accessibile alla cogitatio, alla meditatio, all’oratio, all’operatio e introduce alla conmplazione.
Riccardo di San Vittore (m. 1173). Di origine scozzese, fu dal 1162 priore dell’abbazia di San Vittore. Si ispira a Ugo, ritenuto un grande teologo, facendo più attenzione ai dati dell’esperienza. Ritiene che la ragione debba fornire alla fede il maggior numero di argomenti dimostrativi.
La sua opera maggiore è il De Trinitate. Dedica diversi opuscoli ad argomenti morali e spirituali. Riccardo è un grande mistico e la sua riflessione teologica è profondamente mistica.
All’inizio dell’itinerario etico e spirituale vi è l’amore, che si fonda su una volontà ferita dal peccato d’origine, ma che può ritrovare l’originaria purezza e raggiungere Dio con l’aiuto della grazia. Egli sostiene che l’amore, essendo il tutti e la verità di Dio, deve essere anche il tutto e la verità dell’uomo.

2.2. MORALE MEDIOEVALE parte seconda

1. Le scuole urbane

In parallelo con le scuole monastiche sorgono nel sec. XII le scuole urbane, chiamate anche episcopali o collegiate.
In queste scuole, la cui età d'oro si apre contemporaneamente all'emergere di una borghesia urbana, si manifesta una tendenza completamente diversa dalle scuole monastiche.
Esse intendono restaurare le sette arti liberali e le tre parti della filosofia: logica, fisica, etica. I vari maestri, non potendo commentare i filosofi greci, cercano di si stabilire una alleanza tra la grammatica, la retorica e l'etica. Il fine è quello di riscoprire l'insegnamento morale degli antichi, ma integrandone gli elementi in una sintesi cristiana superiore. Il loro metodo consiste nella lettura delle opere morali dell'antichità, commentate capitolo per capitolo secondo le regole dell'allegoria che lascia maggior libertà al commentatore.
Si compongono così dei Florilegi nei quali si raggruppano secondo un piano personale, o tradizionale come quello delle quattro virtù cardinali, i testi morali dei più diversi autori. Il più celebre, il Florilegium gallicanum, cita i testi con i nomi degli autori.
Così, per esempio, veniamo a conoscere tutta una serie di note morali di Orazio sulla povertà, sull'ubriachezza, sul buon rapporto coniugale.
La scuola urbana più famosa è quella di Chartres. Essa passa dal florilegio sistematico ad opere di elaborazione personale arricchite da numerose citazioni.
Il maestro più famoso della scuola è Bernardo di Chartres (m. 1130), il quale abituava i suoi allievi a raccogliere e raggruppare i brani morali degli autori studiati.
Un altro grande maestro è Guglielmo di Conches (m. 1145), al viene attribuito il Moralium dogma philosophorum, che non è altro che un adattamento del De officiis di Cicerone.
Giovanni di Salisbury (m. 1180), vescovo di Chartres, insegna una morale basata sull'idea del bene e della virtù. Distribuisce i doveri dell'individuo secondo quattro temi: la ricerca del bene proprio; il disprezzo del mondo; il rispetto del prossimo; la religione verso Dio. In lui si trovano gli elementi di una morale familiare e politica.

2. Pietro Abelardo (1079-1142)

Il personaggio più rappresentativo della scuola urbana è senz’altro Abelardo. Nacque a Le Pallet vicino Nantes nel 1079 e morì a Chalon sur Saon nel 1142. Fu un vero girovago tanto da essere definito "peripateticus palatinus".
Ebbe come maestri a Tours il nominalista Roscellino e a Parigi Guglielmo di Champeaux . Fu così critico dei suoi maestri tanto da ripudiarli. Per rimediare ai loro errori aprì una scuola a Parigi nel 1108 sulle colline di Santa Genoveffa, nonostante l’opposizione del maestro Guglielmo.
Frequentò, poi, per alcuni anni la scuola di Anselmo di Laon (1150- 1117), poi nel 1113 tornò a Parigi per insegnare al posto di Guglielmo che nel frattempo si era ritirato a San Vittore.
In questo periodo si innamora di Eloisa, sua discepola e nel 1116 la sposa clandestinamente suscitando la reazione scomposta di Fulberto, zio di Eloisa. Questa fu costretta a farsi monaca nel monastero di clausura di Srgenteuil, Abelardo nel 1118 riparò prima a S. Denis, dove scrisse il suo trattato sulla Trinità, che fu condannato si istigazione di Bernando dal sinodo di Soissons nel 1121.
Nonostante le sue disavventure ebbe sempre alle sue lezioni un gran numero di alunni!
Nel 1140 fu condannato dal Concilio di Sens e venne accolto a Cluny da Pietro il Venerabile il quale lo preparò a riconciliarsi con Bernardo suo principale rivale e con la chiesa.
La sua vita ci è nota dall’autobiografia dal titolo "Historia calamitatum mearum".
Abelardo ha esercitato sui posteri una enorme influenza!
Egli insegna che la teologia non deve limitarsi a commentare la Sacra Scrittura, ma deve utilizzare la dialettica che aiuta lo spirito umano a comprendere la fede e a dialogare con i filosofi.
Questo principio lo mise in contrasto con le scuole monastiche e soprattutto con Bernando.
Nel secondo libro della Theologia cristiana fa un’appassionata apologia dei filosofi. Nel Dialogo sostiene che l’etica pagana è così perfetta che gli autori cristiani non devono avere nessun timore di assumerla nella riflessione morale cristiana. Anch’essa, infatti, indica in che consiste il supremo bene e come conseguirlo.
Non ci si deve meravigliare se Abelardo tratta i problemi morali con il rigore logico del ragionamento.
E’ seguace di Agostino, ma non crede alla specificità della morale cristiana, pur mantenendone l’autonomia, suddividendola in fides, caritas et sacramentum.
Nel capitolo sulla carità tratta sia delle virtù teologali che quelle morali o cardinali. Sostituisce la prudenza con la scienza e la considera virtù naturale e non date dalla grazia o infuse.
Nel trattato di Etica, opera filosofica, nega una morale troppo oggettiva, cioè accentuando troppo l’elemento materiale e disattendendo le condizioni psicologiche.
Abelardo insegna l’importanza del fattore personale, dell’intenzione e della responsabilità. L’elaborazione della sua morale è rigorosamente basata sull’intenzione.
Con la tesi dell’intenzione Abelardo intende correggere forme di oggettivismo morale presenti nella cultura del tempo che tendevano a ridurre l’agire umano alla semplice esteriorità, al materialismo morale presente nei libri penitenziali. Il passaggio dalla moralità dell’atto alla qualità dell’intenzione provocò vivaci reazioni.
Privilegiando l’intenzione si andava a negare la possibilità di compiere atti intrinsecamente cattivi. Fu soprattutto Bernardo a polemizzare con Abelardo. Si trattava di mantenere un difficile equilibrio tra coscienza e legge, fra rettitudine di intenzione e norma oggettiva.
Secondo Abelardo ciò che determina il bene e il male è l’intenzione, il consenso, la coscienza. L’agire non può essere considerato per se stesso virtuoso o peccaminoso, lo diventa secondo l’intenzione.
Questo principio porta Abelardo a rendere autonoma la coscienza da leggi morali oggettive. Egli pone, inoltre, il problema del peccato spostandolo nel rapporto intimo con Dio. Distingue tra peccato propriamente detto, vizio dell’anima e azione cattiva. Il vizio dell’anima consiste nell’inclinazione ad acconsentire a ciò che è proibito o vietato. Solo il consenso intenzionale costituisce il peccato che è il non fare ciò che si deve fare.
L’azione cattiva è quella fatta ma non voluta o preterintenzionale. Il pericolo consiste nella possibilità che ognuno possa farsi una legge universale ed eterna.
Per Abelardo la regola immanente e assoluta della moralità è costituta dalla coscienza individuale, una specie di soggettivismo morale, Se la moralità di un atto è essenzialmente interiore, la regola della moralità è data dall’adeguamento dell’atto alla legge di Dio. Il problema è la conoscibilità di tale legge.
L’elaborazione morale che dopo Agostino si era sviluppata sul rapporto tra legge e storia, ponendo l’interiorità come luogo in cui tale rapporto viene posto in maniera corretta o sbagliata, entrò nella riflessione medioevale attraverso Anselmo e Abelardo diventando il vero problema morale e cioè: il soggetto è chiamato ad operare la mediazione tra bene-legge-storia, collocandosi in modo cosciente e libero nell’ordine morale.
In questo periodo vengono non caso elaborati i primi trattati sulla coscienza.

Nella seconda metà del sec. XII si opera una specie di sintesi tra tutte le tendenze presenti fin dall’inizio del secolo. Nasce il genere letterario delle Sentenze e delle Somme, come anche dei trattati teologici. Prende cioè corpo l’esigenza di raccogliere e riportare, insieme ai brani biblici esprimenti la fede, anche le interpretazioni che di esse avevano dato i Padri. Le Summe sententiarum furono vere e proprie enciclopedie della dottrina cristiana, strumenti essenziali per lo studio e l’insegnamento nel medioevo.
Tra le Sentenze più celebri citiamo quelle di Anselmo di Laon (1050-1117) e di Pier Lombardo (m. 1159).
La teologia morale sembra esservi presente con un ragionamento incrociato: se nel libro II si trova un embrione di morale generale ‑ atto libero, peccato ‑, la morale speciale è presente nel m: Cristo ebbe le virtù teologali? che cosa sono? cos'è la carità? è superiore ai comandamenti? quali sono? Nel libro IV si parla dei sacramenti e di conseguenza della penitenza e del matrimonio. Nelle Sentenze del Lombardo la morale non occupa certo un posto specifico: dogma e morale sono intimamente legati. Per questo la morale delle Sentenze è centrata sui valori positivi: non sul peccato e sulle interdizioni bensì sulla carità e sulla dignità cristiana dell'immagine di Dio. Si può comprendere l'importanza delle Sentenze di Pier Lombardo se si tiene presente che il commentario di esse sarà materia obbligatoria per la formazione di tutti i dottori in teologia dall'inizio del sec. XIII fin quasi alla fine del XIV.
Nel suo trattato De virtutibus, de vitiis, de donis Spiritus Sancti, scritto nel 1161, Alano di Lilla (m. 1202) utilizza per la prima volta l'espressione theologia moralis. Egli mette in evidenza l'idea di natura e per mezzo di essa crea un punto di equilibrio rispetto alla morale dell'intenzione di Abelardo, insegnando che il contenuto dell'intenzione è determinato dalla legge naturale illuminata dalla fede.
Anche questo autore solleva la questione del valore per il cristiano delle virtù naturali, segno della difficoltà di integrare fra loro virtù teologali e virtù morali.
L'insegnamento morale di Alano di Lilla è caratterizzato dallo sviluppo culturale e dalla ricerca di un ritorno alle fonti del Vangelo.

3. Il secolo XIII

Nel corso del XIII secolo si danno maggiori possibilità di contatti con il vicino oriente, l’intensificarsi di scambi mercantili, mutamenti socio-culturali all’interno del mondo cristiano. In particolare si può ricordare: il consolidamento della borghesia, la presente autonomia del potere politico di fronte a quello religioso, l’affermarsi un "certo spirito laico" nella vita sociale.
Per la riflessione teologica il sec. XIII è il secolo d’oro, il cui culmine fu senz’altro Tommaso (1224-1274), la cui riflessione fu preceduta e accompagnata da quella dei maestri parigini, della scuola francescana e di Alberto Magno.
Dal tempo di Agostino lo sviluppo teologico è più o meno ristagnato o si è completamente esaurito nel ripetere, sunteggiare e commentare. Con il sec. XIII ha inizio, favorita dalla situazione socio-politica, una nuova fase creativa, dove trovano sistemazione organica tutta la riflessione teologica dei secoli precedenti con appropriati approfondimenti.
Tre fatti importanti hanno influenzato decisamente la stia della morale cristiana:
- La fondazione delle università,
- La fondazione degli ordini mendicanti
- La scoperta della filosofia aristotelica.
Intorno alla metà del secolo si colloca la nascita e lo sviluppo della "scuola francescana" con Alessandro di Hales (1185-1245) e della "scuola domenicana" con Alberto Magno (1295-1280).

4. San Bonaventura da Bagnoreggio (1218- 1274)

Nacque a Bagnoreggio (VT) nel 1218 e morì a Lione nel 1274. Al battesimo fu chiamato Giovanni e siccome il suo papà si chiamava Fidanza fu chiamato Giovanni di Fidanza. Nel 1243 etrò nell’ordine dei francescani assumendo il nome di Bonaventura. Compì i suoi studi teologici s Parigi dove ebbe come maestro Alessandro di Hales. Nel 1248 iniziò l’insegnamento come baccalaureato e nel 1254 fu promosso magister. Non ottenne mai la cattedra universitaria per l’opposizione dei maestri laici contro i religiosi. Anche San Tommaso si troverà coinvolto nello stesso problema. Nel 1257 vi fu un intervento della santa Sede che dipanò la questione. Nello stesso anno Bonaventura fu eletto maestro generale dell’ordine e non poté mai occupare la cattedra alla Sorbona. Nel 1273 fu nominato vescovo di Albano e cardinale. E’ dottore della chiesa dal 1588.

Bonaventura ha composto molte opere di indole filosofica, teologica, esegetica, ascetica e oratoria. Quelle teologiche precedono quelle ascetico-mistiche. La sua esegesi è ancora informata allo stile platonico agostiniano, per riservando largo spazio alle nuove acquisizione e soprattutto all’aristotelismo, che però rifiuta come sistema.
Scrisse: un Commento alle sentenze, il Breviloquium, Itinerario della mente a Dio, Itinerario della mente in se stesso e la Triplice via. In quest’ultima opera propone le celebri tre vie: la purgativa, la illuminativa e l’unitiva, intese non come a sé stanti e successive, ma componenti sincroniche del movimento vero Dio.
Egli non assegna un posto distinto alle considerazioni morali, ma le espone seguendo sia l’ordine del Lombardo che quello di A. di Hales.

Bonaventura fa un uso limitato delle categorie filosofiche ed è restio a far uso della morale dei filosofi. Egli esalta il primato della teologia sulla filosofia e ne dichiara la sua ancillarità, ritenendo che la ragione non è in grado di produrre una metafisica adeguata se la filosofia non è illuminata dalla luce della fede. La fede nella verità rivelata deve essere all’origine di ogni speculazione filosofica. Egli dimostra che tutte le scienze, le artri e soprattutto la filosofia, hanno bisogno dell’aiuto teologia per raggiungere la loro perfezione.
Per Bonaventuta il problema morale si riduce al cammino della mente in Dio, ne consegue che ogni discorso teologico è anche etico, perché la cosa più importante che compiamo il bene.
Pertanto non accettando la divisione della teologia in speculativa e pratica, rifiuta l’elaborazione di una teologia morale distinta entro l’universale sapere teologico. In questo si dissocia dal maestro di Hales il quale nella sua Summa sosteneva il contrario.
Il maestro francescano sostiene l’idea che la teologia abbia una funzione prevalentemente affettiva e spirituale e sia una conoscenza che spinge all’amore, perché ha per fine di renderci più buoni. Questo principio ha il merito indiscutibile di difendere con forza l’unità del sapere teologico.
La teologia morale , come tutta la teologia ha lo scopo di portare alla santità. Tale impostazione non permette a Bonaventura di considerare l’agire cristiano come oggetto di uno studio speculativo e scientifico, impedendogli l’elaborazione di una teologia morale come scienza dell’agite.
Per il dottore serafico il punto di partenza di ogni riflessione teologica e sempre e solo Cristo (cristocentrismo), Verbo di Dio, fonte di tutte le scienze e supremo esemplare. Cristo è anche centro della vita morale. Ne segue che il suo insegnamento e la sua vita sono il fondamento e la norma ermeneutica dell’agire morale.
Ogni creatura viene da Dio e può ritornare a Dio seguendo gli esempi di Cristo. Dio è il principio movente, la regola dirigente e il fine che da quiete non solo di ogni essere, ma di ogni atto.
Ne segue che l’agire e retto se è: a Deo. Secundum Deum e ad Deum!
Dio è il fine verso cui tende la nostra volontà informata dalla carità, assolutamente necessaria perché l’azione possa essere buona e meritoria. L’uomo, immagine di Dio, deve agire conformemente alla carità e alla volontà di Dio che si manifesta nella legge naturale. Le azioni quotidiane che non sono informate alla carità sono moralmente indifferenti.
Tutto l’insegnamento di Bonaventura è informato alla tradizione agostiniana e alla spiritualità francescana.
Di fronte al pericolo di un dualismo di pensiero cristiano insito nella scoperta dell’aristotelismo, egli ha inteso salvare l’ideale cristiano di un sapere unico, innestato attraverso la fede nella scienza divina, in una unità non confusa, ma organicamente ordinata
La spiritualità francescana, poi, lo aiutava a considerare i singoli momenti del sapere come progressive tappe verso la piena unione con Dio, che avviene solo nell’amore.
E’ vero che l’atto morale esige la partecipazione della ragione, che cerca la norma morale nei principi innati della legge naturale, espressione della legge eterna, ma il cammino dell’uomo verso Dio non si può sul solo piano intellettuale: richiede anche l’apporto della volontà illuminata dalla luce divina. E’ grazie a questa illuminazione che ogni giudizio razionale e ogni scelta libera vengono intrinsecamente ordinati e diretti al fine rappresentato dai valori assoluti dell’Essere, come verità e come bene.
Non solo l’intelligenza viene illuminata da Dio, ma anche la volontà è intrinsecamente inclinata verso il bene. Si tratta della sinderesi che, illuminata da Dio, guida il giudizio della coscienza a conformare le singole scelte al Bene sommo.
La volontà, che gode del libero arbitrio, è la facoltà che si determina da se stessa in vista della gloria di Dio, oltre il bene semplicemente naturale.

L’agire morale, secondo Bonavntura, dipende molto dalle virtù, che definisce come inclinazioni permanenti della volontà ad agire rettamente. Le virtù sono realtà naturali se non interviene la grazia di Dio con le relative virtù infuse o teologali. Queste ultime hanno il potere:
- di favorire lo sviluppo delle abitudini virtuose,
- di sopraelevare le virtù naturali esistenti,
- di comunicare la possibilità di compiere opere perfette.
Sotto l’influsso della grazia, le virtù illuminano l’anima e la conducono verso Dio. I doni dello Spirito Santo a loro volta perfezionano le virtù. Alla perfezione, poi, si giunge per gradi, purgante, illuminante e perfettiva. Al di là di tutto c’è la vita contemplativa.
Le fede dispone alla carità, la speranza dona la confidenza in Dio. Le virtù cardinali, invece, sono mezzi che permettono all’uomo di agire secondo le esigenze della carità. La giustizia regola i rapporti interpersonali.

In conclusione si può affermare che Bonaventura concepisce Dio come causa ultima di tutte le cose, le quali sono ordinate intrinsecamente a Lui. L’uomo, immagine di Dio, raggiunge la pienezza di senso nel pieno possesso di Dio.
Nell’uomo è costitutivamente in possesso del desiderio della beatitudine soprannaturale, ma che non può raggiungere con la sola natura e ha quindi bisogno della grazia. L’esperienza cristiana raggiunge la sua pienezza quando lo Spirito Santo, con il dono della sapienza, unisce l’anima a Dio.
Si può affermare che per Bonaventura la vita morale corrisponde con l’esperienza mistica. L’esperienza morale raggiunge la sua pienezza di senso quando affettività dell’uomo viene trasformata in Dio. La vita morale allora coincide con la imitazione mistica di Cristo.
La profonda unità tra teologia e vita, la sapienza del cuore e della mente e della mente, di teologia morale mistica, fanno assurgere la riflessione teologica di Bonaventura a una sintesi completa della vita.
I punti chiave della sintesi teologica di Bonvntura sono:
- l’esemplarismo cristologico,
- il primato della carità,
- il volontarismo.
I suoi successori Duns Scoto e Guglielmo di Ockham portarono quest’ultimo elemento alle estreme conseguenze.

5. Tommaso D’Aquino (1224-1274)

Nacque a Roccasecca di Aquino (FR) nel 1224 e morì a Fossanova (LT) nel 1274.Compì i primi studi nel monastero di Montecassino. Li perfezionò a Napoli nello studio generale dei domenicani.
Entrò nell’ordine nel 1244 e nel 1245 fu mandato a compiere gli studi filosofici e teologici prima Parigi e poi a Colonia dove ebbe come maestro Sant’Alberto Magno. Nel 1252 iniziò l’insegnamento a Parigi prima come baccalaureato e poi come magister. Dal 1257 fu aggregato al corpo accademico dell’università la Sorbona.
Nel 1260 dovette lasciare l’insegnamento per divenire segretario di Urbano IV prima e Clemente IV poi. Dal 1268 al 1272 tornò ad insegnare a Parigi che lasciò definitivamente per prendere la direzione dello studio generale di Napoli. Invitato da Gregorio X al Concilio di Lione, morì a Fossanova (LT) mentre era in viaggio nel 1274. Fu proclamato dottore della chiesa nel 1567.
Trasmise la sua dottrina in varie opere: Commentari alla Sacra Scrittura, Commentari filosofici, Commentario alle Sentenze, De malo, De virtutibus, De veritate, Summa contra gentes, Summa Theologiae. Tommaso fu un autore fecondissimo.
Tommaso fu un grande filosofo, ma soprattutto fu teologo. Nel Commento alle Sentenze sostiene che la teologia ha un carattere eminentemente speculativo, ha cioè come fine la contemplazione della verità. Questo lo sostiene contro la scuola francescana e contro il suo maestro Alberto Magno.
Certamente la teologia è anche pratica, perché la Sacra Scrittura, fonte primaria del suo studio, offre numerosi insegnamenti che riguardano i comportamenti pratici. L’aspetto pratico deve lo stesso essere trattato con metodo speculativo.
Il concetto di teologia introdotto da Tommaso è essenziale per la elaborazione di una dottrina morale cristiana, fondata sui principi dedotti della rivelazione, organizzato sul carattere scientifico della teologia nel suo insieme. L’Angelico sviluppa questi principi nella Summa Theologiae.
La Summa è l’opera più riuscita e rappresentativa dell’intero pensiero di Tommaso. Di carattere espressamente teologico, redatta in epoca matura, si pone come testo di introduzione degli studenti alla teologia.
Un trattato di teologia deve occuparsi di Dio: come essere in sé e come principio delle cose; come bene, cioè come fine ultimo delle creature, come via in Cristo che ricondurre a sé l’uomo decaduto.
La Summa contiene una trattazione che regola la vita morale di estensione pari agli altri trattati, si pone come contributo originale rispetto agli altri contributo teologici del tempo.
La distinzione del tema morale dal resto della teologia viene spiegata nel prologo della "prima secundae", dove si da una definizione di uomo estremamente originale e importante: «l’uomo e creato ad immagine di Dio, intelligente, libero e avente potere sui propri atti (per se potestativum)».
Tommaso, dopo aver trattato di Dio e delle sue prerogative, passa a parlare dell’uomo, considerato capace di essere principio del suo agire.
Dell’uomo e dell’antropologia, l’Angelico aveva già parlato nella Prima parte (qq. 75-102), aveva, cioè, parlato dell’uomo così come è stato creato da Dio. Nella Seconda parte si descrive come l’uomo deve farsi mediante i propri atti.
Il grande spazio all’esposizione del tema morale, all’agire dell’uomo e alla sua valutazione, e le varie spiegazioni concettuali che vengono dedotte, non toglie all’insieme l’aspetto speculativo. In altre parole Tommaso ha prodotto un grande sforzo teorico per dare al sapere cristiano i connotati della scienza, non si è limitato a ripetere quando già affermato dalle "auctoritates".
Tuttavia in Tommaso prevale sempre l’attenzione alle auctoritates rispetto alle esigenze speculative, ciò perché viene posto maggiore attenzione all’autorità della fede rispetto all’autorità dell’intelletto.
La riflessione di Tommaso come il pensiero scolastico procede con la proposta delle cose note, cioè dalle affermazioni autorevoli (auctoritates), per cercare di pervenire ad una fruttuosa sintesi.
Questo è lo schema della trattazione della riflessione morale di Tommaso. Prima secundae: dopo aver trattato del fine o della beatitudine (beatitudo) ad quale tende ogni uomo (qq. 1-5), si passa a trattare degli atti mediante i quali viene perseguito il fine. Gli atti umani in se stessi: sono quegli atti volontari propri dell’uomo, la loro psicologia e la moralità (qq. 6-21) e gli atti comuni con gli animali o istinti. Si passa a parlare della passioni (qq. 22-48) e i principi degli umani, che sono: interiori (gli abiti buoni o virtù e doni e cattivi o vizi e peccati) (49-89), esteriori: la legge e la grazia (90-114), che hanno origine fuori dall’uomo, ma influiscono sul suo agire.
Nella Seconda parte si tratta degli particolari: gli atti comuni a tutti gli uomini (le virtù teologali (qq 1-46) e quelle delle virtù cardinali (47-170) e gli atti propri di alcune persone (171-170).
La morale di Tommaso è una morale della virtù e dei doni e non ei doveri, degli obblighi e dei peccati.
Come abbiamo già affermato, l’elaborazione morale di Tommaso è essenzialmente teologica, perché si iscrive nel suo generale discorso su Dio. E’ teocentrica.
Essa si inscrive nello schema dell’exitus delle creatura da Dio e del reditus delle creature a Dio. Il reditus è il ritornare all’origine della creazione attraverso l’agire umano. E’ in questa verità che l’agire morale, che il suo punto di partenza nella creazione, trova il suo spessore.
L’uomo, creato ad immagine di Dio e reso capace di gestire i propri atti, deve realizzare al meglio il suo orientamento a Dio in Gesù Cristo.
Se la realtà morale costituisce la realtà dell’uomo in cammino verso Dio, ne segue che il fine è la categoria fondamentale della riflessione morale dell’aquinate.Infatti il trattato sul fine è il fulcro dell’intero sistema morale del dottore angelico.
L’aver collocato il trattato sul fine all’inizio delle due sezioni in cui è divisa la Seconda parte si tratta di una profonda intuizione, vuol dire che la beatitudine è il principio necessario e immutabile che funge da norma ad ogni azione concreta e costituisce il fondamento scientifico di dette azioni.
Tutto l’agire acquista senso e valore perché fa riferimento al fine. E’ il fine che specifica gli atti: sia come umani che come morali.
L’uomo realizza la sua vocazione nella storia e nel mondo ed è responsabile con Dio e gli altri dell’attuazione del disegno fondamentale che ha la sua realizzazione nel tempo, ma che trascende il tempo.
Come ogni creatura, l’uomo ha un fine, il suo bene, da realizzare, perché così ha voluto Dio nella creazione. Ne segue che egli ha un progetto stabilito da Dio da portare a realizzazione con la sua libera attività.
Il progetto per tutti è costituito dalla legge eterna di Dio di cui l’uomo è reso partecipe. La legge eterna costituisce il piano razionale di Dio, l’ordine dell’universo attraverso cui la divina sapienza dirige tutte le cose al loro fine.
L’uomo, come creatura razionale, partecipa del piano della divina provvidenza.
Partecipazione: è una categoria fondamentale nel discorso morale di Tommaso. Essa è decisiva per capire la natura umana. Infatti l’uomo, in quanto essere capace di autodominio (per se potestativum), non si inerisce nel piano divino in maniera solo esecutiva, non secondo una conformazione automatica alla lex aeterna, ma secondo il suo libero orientamento al bene.
Detta partecipazione si realizza in due modi: nella legge naturale e nella legge dello Spirito.
La prima e fondamentale partecipazione alla legge eterna avviene attraverso l’obbedienza alla legge naturale, in forza della quale la persona diviene consapevole della sua radicale vocazione.
Essa è il sigillo di Dio in noi, che è carico di promesse e responsabilità. Non è una imposizione dall’esterno, ma è iscritta nel più profondo della natura umana.
Nucleo essenziale della legge naturale è il precetto: «fa il bene ed evita il male» (bonum facednum et malum vitandum).
La legge naturale, in quanto partecipazione formale alla legge eterna, si distingue dal diritto naturale, che ne è una semplice partecipazione materiale.
Questa distinzione porta Tommaso a superare i limiti della tradizione precedente: sostenendo che l’uomo, obbedendo alla legge naturale, si realizza pienamente nella storia e attraverso la storia.
La legge umana costituisce il diritto positivo, la legge promulgata dall’uomo in vista del bene comune.
La seconda partecipazione avviene per mezzo del dono dello Spirito (lex Spiritus): per mezzo di essa l’uomo può con efficacia tendere a realizzare pienamente il progetto di Dio.
La legge dello spirito o la legge nuova del Vangelo è una legge interiore, infusa nel cuore del fedele, che ha come elemento costitutivo il dono dello Spirito Santo con la sua grazia.
Essa è luce, ma anche forza che permette al fedele di realizzare ciò che lo Spirito gli fa capire, cioè la sua vocazione.
In virtù di detta duplice partecipazione, il credente è reso capace di cooperare al progetto di Dio. Detta capacità passa attraverso il giudizio della coscienza, che si definisce come partecipazione della verità umana a quella divina, della conoscenza umana a quella divina.
La coscienza è la terza categoria fondamentale della riflessione morale di Tommaso.
La sua dignità consiste nel fatto che essa è elemento insostituibile della persona umana alla realizzazione del progetto di Dio. Per Tommaso solo l’atto che è emesso dall’interiore principio conoscitivo, cioè l coscienza, è personale.
Il fondamento della dottrina di Tommaso sulla coscienza è:
- La partecipazione,
- Il modo con cui questa si realizza nella soggetto.
Ne segue che il giudizio di coscienza è criterio irrinunciabile dell’agire umano, tuttavia non è norma assoluta.
Non sono criteri morali decisivi né l’efficacia storica, né ragioni ideali e astoriche.
A questo punto si può dire che per Tommaso i due elementi fondamentali dell’elaborazione morale sono la legge e la grazia.
L’uomo trova le regole dell’agire morale nella propria natura razionale, sia:
- come persona,
- come membro di una famiglia
- come essere sociale.
Le leggi umane, poi, precisano i principi generali della legge naturale.
La ragione deve stimolare l’ingegno umano affinché produca i complementi e i supplementi utili alla natura umana.

Alla produzione degli atti umani concorrono diversi principi, che sono interni ed esterni.
I principi interni, che aiutano le facoltà a rendere più facile e perfetta la produzione degli atti, vengono definiti da Tommaso "abiti", che ha il senso di qualità operative, inteso in senso lato:
- abiti buoni son le virtù alle quali sono legati i doni,
- abiti cattivi sono i vizi che si oppongono alle virtù.
La virtù è un abiti operativi buono e principi esclusivo di bene. Vi sono virtù teologali o infuse e quelle cardinali o morali. Inoltra ci sono le virtù intellettuali speculative, le quali tendono a perfezionare la mente perché possa apprendere la verità. Esse sono: intelligenza, scienza, sapienza e prudenza.
Tommaso articola la teologia morale sulle virtù teologali (fede, speranza e carità) e su quelle cardinali (fortezza, temperanza e giustizia) tra le quali la prudenza ha un ruolo molto importante.
L’Aquinate ha senz’altro mutuato da Aristotele molti elementi della sua elaborazione morale, per esempio l’adozione dello schema delle quattro virtù cardinali, ma li trasforma facendo derivare la sua vitalità dai doni dello Spirito Santo.
Tuttavia l’assunzione dello schema delle virtù cardinali ha impedito a Tommaso di sviluppare adeguatamente le virtù della religione e dell’umiltà, fondamentali per l’uomo redento.
L’esistenza cristiana, in quanto ha come legge propria la legge dello Spirito di vita in Cristo, va considerata non come obbedienza a dei precetti, ma come attuazione delle potenze interiori che essa ha e che sono le virtù.
Esse sono mezzi per l’autorealizzazione umana, orientamenti verso la perfezione morale in senso teologico.
Oltre agli abiti virtuosi, che fanno tendere l’uomo al bene, ci sono gli abiti cattivi, i vizi (orgoglio, cupidigia, vanagloria, invidia, collera, avarizia, accidia, gola e lussuria), che lo distolgono dal bene. Essi, secondo Tommaso sono le principali cause del peccato.
Agostino così definiva il peccato: «est aliquid factum, vel dictum, vel concupitum contra legem eternam». Tommaso ne raccoglie l’eredità. Li distingue però in peccati veniali e mortali.
Misura della perfezione è la carità afferma Tommaso. Tutte le altre virtù sono necessarie alla perfezione, ma non ne sono costitutive come la carità, che ha la caratteristica di unire a Dio. Essa è la più importante di tutte le virtù e senza di essa non v’è vita virtuosa.
Si può allora affermare senza timore di essere smentiti che il criterio ultimo e definitivo e l’acquisizione progressiva della carità. Alla sua acquisizione concorrono: la grazia, i sacramenti, la devozione a Cristo, la preghiera.
La morale di Tommaso è l’elaborazione più completa che sia stata mai tentata.

6. Guglielmo di Ockham (1280-1349)

Nacque a Ockham, piccolo villaggio della periferia di Londra nel 1280 ca. e morì a Monaco di Baviera nel 1349.
Giovanissimo entrò nell’ordine dei francescani. Compì i suoi studi nella celebre università di Oxford. Conseguito il titolo di baccalaureato nel 1318, scrisse un commento al Libro delle Sentenze del Lombardo, dove fu molto critico nei confronti della riflessione teologica precedente.
Queste critiche gli costarono una convocazione nel 1324 ad Avignone per difendersi dall’accusa di eresia. Il processo durò diversi mesi con forti polemiche. Nel 1328 Guglielmo lasciò Avignone scortato da Michele da Cesena, allora ministro generale dell’ordine.
Nella polemica sul potere del Papa e quello dell’Imperatore si schierò a favore dell’Imperatore Ludovico IV, detto il Bavaro (1287-1347).
Perseguitato dalla chiesa si rifugiò presso l’Imperatore a Monaco dove morì di peste.

Fu un valido filosofo e un altrettanto valido teologo. La sua influenza sul pensiero occidentale è enorme e la sua riflessione ha contribuito in modo determinante nell’elaborazione del pensiero moderno. Tutta la riflessione morale successiva è sotto il suo influsso.
Caratteristiche del suo insegnamento sono:
- L’estrema coerenza,
- Un rigore esigente.
Tanto da essere considerato un grande dialettico.
Scrisse: Opera plurima in 4 volumi; Opera politica in 3 volumi; Opera philosophica in 7 volumi; Opera teologica in 10 volumi.
La riflessione di Ockhm è una limpida testimonianza della grave crisi che attraversò il pensiero morale cristiano all’inizio del 1300.
Mette in discussione:
- L’armonia tra fede ragione,
- La relazione tra grazia e libertà,
- La possibilità per la ragione di affrontare e risolvere grandi problemi della metafisica e dell’antropologia.
Presupposti fondamentali della scolastica medioevale.
Con la riflessione di Ockham ebbe inizio «lo spirito laico», perché fece suoi i principi gli ideali della insorgente proclamazione della dignità della uomo, della potenza creativa dell’individuo, della nuova cultura umanistica che il risorgimento farà sua e svilupperà.
Ockham è spirito libero e con grande libertà va alla ricerca di valori autentici come: la verità, la giustizia e il bene comune.
Il punto di partenza della sua riflessione è l’assoluta onnipotenza di Dio. Egli può fare tutto ciò che non è contraddittorio. E’ infinitamente libero, per cui in Lui non vi può essere obbligazione alcuna.
Il suo agire non conosce norme né interne, né esterne, per cui è la causa di ogni obbligo morale, pur trascendendo questa categoria.
Da questa concezione teologica deriva un nuovo modo di intendere la persona umana, specialmente la sua libertà, definita come assenza di ogni obbligazione.
Ockham concepisce l’universo costituito da realtà singole, esistenti sia separatamente, che unite fra loro senza però formare degli assoluti. Dio è un assoluto, ma anche l’uomo lo è. Questi nel momento che esiste non può non esistere, altrimenti verrebbe compromesso il principio di non contraddizione.
Il fatto che l’uomo è libero non dimostrabile con il ragionamento, lo si evince dall’esperienza. La libertà è la possibilità di fare o non fare una cosa , di determinarsi verso una scelta con la volontà.
Si tratta del potere mediante il quale, secondo indifferenza e contingenza, egli può produrre un effetto. Può, cioè, conoscerlo e non conoscerlo senza che vi sia differenza per il potere della volontà. Essere libero vuol dire suprema indifferenza e assoluta spontaneità.
Di fronte alla libertà dell’uomo tutti i possibili oggetti sono sullo stesso piano. Ciò vale anche per Dio, nei confronti del quale non si dà alcun intrinseco e ontologico rimando dall’interno dell’uomo.
L’obbligo morale spetta solo all’uomo perché è essenzialmente contingente, ma anche la morale romane contingente.
Bene e male non sono assoluti, ma realtà contingenti che hanno la loro origine nella volontà di Dio. La bontà e la cattiveria sono termini che non connotano un in se, ma un precetto divino. Essi sottintendono la volontà di Dio.
Il male non altro che: «aliquid facere ad cuius oppositum faciendum aliquis obbligatur».
La norma dell’agire dell’uomo è la volontà di Dio, la quale stabilisce ciò che è male e ciò che è bene. Poste l’assoluta onnipotenza e libertà di Dio, l’intero ordine creato, compresa la legge morale, è completamente contingente.
L’essenza tra il bene e il male non è data dall’arbitrio della volontà di Dio, perché in Dio non c’è distinzione reale tra essenza, intelligenza e volontà. Tutto ciò che Dio vuole, lo vuole con la sua intelligenza infinitamente perfetta. Ne segue che l’obbligo morale ha il suo fondamento ontologico nell’essenza stessa di Dio.
L’uomo con la sola ragione non può conoscere l’ordine morale stabilito da Dio, a meno che non sia Dio stesso a rivelarlo. E Dio lo ha rivelato.
L’ordine morale rivelato è opera della sua potenza ordinata, ma in Dio esiste anche una potenza assoluta la quale potrebbe stabilire altri ordini morali, altrettanto razionale con l’ordine esistente.
La volontà di Dio, fondamento dell’obbligo morale, si rende manifesta all’uomo attraverso la legge morale, alla quale l’uomo, libero e responsabile, può obbedire o disobbedire e quindi meritare o demeritare. Senza la libertà non ci potrebbe essere azione lodevole o riprovevole.
Ockham da grande importanza alla libertà di indifferenza, cioè alla libertà di fare o fare il contrario.
L’alternativa morale è tra l’obbedire al comandamento di Dio o obbedire a degli obiettivi scelti dalla propria volontà quali criteri dell’agire.
La morale allora è strettamente congiunta alla religione o meglio alla fede. Infatti la conoscenza della volontà di Dio, cioè la legge, avviene con la rivelazione e con la ragione retta, la quale è consapevole che alcune azioni sono comandate altre proibite. Ciò significa che esiste una legge interiore, la quale ci indica il nostro dovere. Si tratta dell’imperativo categorico o voce di Dio.
La «retta ragione» e i suoi obblighi si impongono direttamente all’uomo. Il primo precetto di detta legge è: è necessario metter in pratica la tal cosa perché è comandata dalla retta ragione, altrimenti l’atto morale sarebbe per lo meno indifferente.
La coscienza in questo contesto si pone come il giudizio che riferisce un atto ad un ordine o ad un divieto divino. Detto giudizio è emesso dalla ragione, ma ha il suo ultimo fondamento nella fede che accoglie la rivelazione della volontà di Dio.
L’insieme dei precetti rivelati da Dio costituisce il diritto naturale, che è assoluto, immutabile e comune a tutti gli uomini. Viene mutuato dal decalogo.
Da detti obblighi scaturiscono i fondamentali diritti umani, che secondo Ockham sono: la libertà e la proprietà. Se l’uomo è libero davanti a Dio ne consegue che è molto più libero davanti all’autorità umana sia politica che religiosa. La libertà è il punto di partenza dell’intera riflessione ackhamista.
Da questo principio sgorga la teoria dei diritti umani. Ma ciò si avvererà in seguito.
Le leggi umane, positive, civili o religiose, non possono essere contrari alla legge di Dio. Il loro ambito riguarda gli atti indifferenti e, quindi, non obbligano in coscienza.
Si può affermare, senza il timore di essere smentiti, che la morale di Ochìkam è di tipo positivo e legalista. Se la moralità consiste nell’obbedienza la legge, è necessario accertarsi che la legge esista.
La morale di Ockham poi si interessa solo degli atti, ne segue che possa disattendere il ruolo della grazia, la quale diviene una condizione esterna all’atto, esigendosi poi per ogni merito la libera accettazione di Dio.
L’aspetto più rilevante della riflessione morale di Ockham è costituito dalla dal fatto che egli nega che il riferimento a Dio sia parte integrante e sostanziale dell’esperienza morale umana. La sua riflessione morale non è più teologica come quella di Tommaso.
Il suo modo di determinare e risolvere il problema morale è in sintonia con la negazione di ogni possibile elaborazione di una teologia naturale. Detta impossibilità costituisce il punto di partenza di ogni riflessione morale.
La riflessione morale di Ockham porta in sé quella «rottura ontologica» fra l’uomo e Dio, che di fatto ha portato al fideismo, al radicale scetticismo e finanche all’ateismo. Determinando quella corrente di pensiero che sostiene che la fondazione morale è sempre più impossibile.
In questo modo possiamo comprendere perché nella definizione di coscienza di Ockham non si fa più riferimento al fine ultimo o alla felicità e si fa riferimento al comandato o al proibito. Essa non viene considerata nel contesto globale della storia della persona, ma come momento a sé stante, il quale si pone tra la libertà e la volontà precettiva o proibente di Dio.
Le virtù vengono considerate come un aiuto per meglio realizzare la decisione liberamente presa e per meglio superare gli ostacoli. Esse vengono collocate al sotto della libertà e perdono il loro valore morale, non essendo più una determinazione decisa nell’agire, essenziale per assicurare la perfezione delle azioni morali e doverle compiere.
La grandiosa sintesi operata da Tommaso non ebbe uno sviluppo adeguato nei secoli successivi.
Due eventi segnarono profondamente la riflessione teologico morale nel prosieguo della storia della chiesa:
- Il concilio lateranense IV (1215) voluto da Innocenzo IV che stabilì l’obbligo della confessione annuale.
- La condanna di alcune tesi tomiste pronunciate e dalle università di Parigi e di Londra e dall’autorità pontificia.
Il secolo XIV si espande all’ombra delle molte condanne e dell’aristotelismo e del tomismo e delle polemiche tra tomisti e scotisti. Tutti questi motivi portarono alla caduta di quella tensione creativa che aveva caratterizzato il duecento.
Emerge lentamente la corrente definita umanesimo, la quale collocherà l’uomo al centro dell’universo in opposizione al teocentrismo medioevale.