domenica 30 marzo 2008
La Divina Misericordia
Dopo la morte di Cristo, gli apostoli rimasero soli. Ebbero paura al punto di rinchiudersi per il timore delle persone malevoli. Avevano vissuto tre lunghi anni con il Maestro, ma non l’avevano capito, al punto che Cristo dovette rimproverarli seriamente (Lc 24,25). Non l’avevano capito perché il loro modo di pensare restava troppo terra terra. Vedendo Cristo impotente e senza coscienza sulla sua croce, essi avevano gettato tutt’intorno sguardi impauriti, dimenticando ciò che era stato detto loro: "Vi vedrò di nuovo, e il vostro cuore si rallegrerà e nessuno vi potrà togliere la vostra gioia" (Gv 16,22). Ed ancora: "Voi avrete tribolazione nel mondo, ma abbiate fiducia; io ho vinto il mondo!" (Gv 16,33). I discepoli si rallegrarono al vedere Cristo, furono rassicurati dalle sue parole: "Pace a voi! Ricevete lo Spirito Santo!". Ma essi dovettero attendere la Pentecoste perché lo Spirito Santo venisse a purificare i loro spiriti e i loro cuori, a dare loro il coraggio di proclamare la gloria di Dio, di portare la buona novella agli stranieri e di infondere coraggio ai loro seguaci. Dio si è riavvicinato agli uomini ed essi si sono rimessi nelle sue mani, per mezzo di Cristo e dello Spirito Santo. Concedendo agli apostoli il potere di rimettere i peccati, Cristo ha detto loro: "Ricevete lo Spirito Santo; a chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete resteranno non rimessi" (Gv 20,22-23). Come Cristo ha fatto con gli apostoli, così il vescovo, imponendo le mani ai sacerdoti che vengono ordinati, trasmette oggi il potere dello Spirito Santo, che permette loro di dispensare i sacramenti e, attraverso di essi, di assolvere i peccati. Ogni sacramento, non solo evoca il ricordo di Cristo, ma è Cristo in persona, che agisce immediatamente per salvare l’uomo. Nel dispensare i sacramenti, la Chiesa si mette in un certo senso ai piedi della croce per portare la salvezza ai credenti. Come potrebbe quindi dimenticare la fonte dalla quale scaturiscono le grazie di salvezza che sgorgano dalle sue mani? Dio realizzerà il suo più grande desiderio, renderà l’uomo felice se egli lo vorrà, se risponderà "sì" al Padre che gli offre la gioia, a Cristo che gli porta la salvezza, allo Spirito Santo che gli serve da guida. Dio non impone il suo amore agli uomini. Egli attende che l’uomo stesso faccia un passo in avanti. Dio salva chi si apre a lui per mezzo della fede, della speranza e dell’amore. Dio si avvicina, e anche l’uomo deve avvicinarsi a lui. Allora Dio e l'uomo si incontrano sullo stesso cammino, in Cristo, nella sua Chiesa. Cristo non è solo uomo, né solo Dio. E' Dio e uomo allo stesso tempo; grazie a questa duplice natura, egli è come un ponte teso tra l'umanità e Dio. Questo ponte sarebbe rimasto deserto - né gli uomini né Dio vi avrebbero messo piede - se la causa della discordia e della separazione - il peccato - non fosse stata soppressa. Il sacrificio offerto a Dio da Cristo ha cancellato le colpe passate, presenti e future. "Egli ha fatto questo una volta per tutte, offrendo se stesso" (Eb 7,27). Da allora gli uomini possono "per mezzo di lui accostarsi a Dio" fiduciosi del fatto che "egli resta sempre" (Eb 7,25). Così, per la sua natura prodigiosa e il suo sacrificio completo, Cristo è il solo Intercessore e Sacerdote Supremo. In Cristo, gli uomini ritornano al Padre. In Cristo il Padre rivela agli uomini l'amore che egli porta loro. E' sempre più facile avvicinarsi a Dio prendendo la mano caritatevole che il Padre tende all’uomo per aiutarlo a seguire Cristo, nostro Redentore. Tale è il senso del salmo che evoca l'uomo miserabile il cui grido giunse fino agli orecchi del Signore, e che fu liberato dai suoi mali
venerdì 28 marzo 2008
Buona Pasqua
Il Vangelo di san Giovanni termina con la descrizione di un incontro ricco di simboli: Pietro e altri sei discepoli sono sulle rive del lago di Tiberiade. Là dove si trovavano prima che Gesù li chiamasse per seguirlo e diventare pescatori di uomini. Pietro decide: “Io vado a pescare” - ma senza pensare agli uomini. Gli altri si uniscono a lui. Nella notte - propizia ai pescatori - vanno sul lago. La mattina, rientrano con le reti vuote. E, sulla riva, qualcuno domanda loro un po’ di pesce. Ma non hanno pescato nulla, niente per loro stessi, niente che possano dividere. Fidandosi di una sua parola - che non hanno riconosciuto - gettano le loro reti e pescano molti pesci (anche se il mattino non è il momento migliore per la pesca). Allora il cuore del discepolo che Gesù amava si apre. "È il Signore!", esclama. In modo conforme alla sua posizione nella comunità, Giovanni è il primo a riconoscere Gesù; e Pietro è il primo a raggiungerlo. Gli altri seguono con la barca e le reti, piene di centocinquantatrè grossi pesci, una quantità inaudita. L’incontro sulla riva è colmo di una strana paura. Nessuno osa domandare: "Chi sei?". Essi lo sanno, ma tuttavia provano un’impressione di estraneità e di cambiamento. Questa volta, Gesù non mangia. Prende il pane e i pesci. Li dà a loro ed essi li prendono dalle sue mani: il pane e la vita.
giovedì 27 marzo 2008
Pasqua di risurrezione
Gli uomini e le donne che hanno conosciuto Gesù testimoniano la sua risurrezione. Dicono che è venuto vivo verso di loro, che si è offerto ai loro occhi. Siccome la risurrezione oltrepassa tutti i limiti dell’esperienza terrena, non esistono termini né frasi fatte per ritrasmettere la realtà che tocca queste persone. I discepoli di Gesù cercano delle parole e delle immagini (già pensando alle domande che verranno poste) per esprimere l’inesprimibile. Succede la stessa cosa per l’ultimo incontro pasquale con il quale termina il Vangelo secondo san Luca. L’apparizione di Gesù agli apostoli è strana e tuttavia familiare. Dice loro: “Pace a voi!”. Ma essi sono colti dalla paura e pensano - come tanti tra coloro che hanno bisogno di una spiegazione - che si tratti di uno “spirito”. Allora, egli fa toccare loro il suo corpo, e mangia davanti ai loro occhi. Perché, siccome la fede nella morte e nella risurrezione di Gesù è il fondamento di tutta la predicazione, questa non tollera alcun dubbio. Gerusalemme, città della morte e della risurrezione, diventa la città dove gli apostoli ricevono lo Spirito promesso e, con lui, la onnipotenza, che fa di loro dei testimoni per tutti i popoli della terra.
mercoledì 26 marzo 2008
Pasqua vuol dire passaggio
Gli evangelisti ci consegnano, condensata in un racconto, l’esperienza pasquale che porta una risposta sempre nuova a coloro che si interrogano. San Luca racconta dei due discepoli in cammino il giorno di Pasqua: lontano da Gerusalemme e dalla comunità degli altri. Essi vogliono lasciare dietro di sé il passato che li lega a Gesù, ma non possono impedirsi di parlare senza sosta del peso che hanno sul cuore: Gesù è stato condannato, è morto sulla croce... non può essere lui il Salvatore promesso. Tutti e due, immersi in se stessi, non riconoscono colui che li accompagna sul loro cammino di desolazione. La fede nella potenza di Dio non basta loro per superare la morte. Ed è per questo che non capiscono cosa egli vuole dire quando fa allusione a Mosè e ai profeti. È a sera, nell’ora della cena, mentre egli loda il Signore spezzando e dividendo il pane, che i loro occhi e i loro cuori si aprono. Anche se non vedono più Gesù, sono sicuri che è rimasto là, vivo; che lo si può incontrare attraverso la parola, e le cene. Con questa certezza, fanno marcia indietro per ritornare a Gerusalemme, nella comunità dei discepoli. È qui che si riuniscono e discutono gli avvenimenti di Pasqua, sui quali si basano i principi della fede. “È risuscitato e apparso a Simone” (il primo degli apostoli): ecco una delle frasi nelle quali si inserisce l’incontro pasquale dei due discepoli di Emmaus.
lunedì 24 marzo 2008
Buona Pasqua
Sia il salmo responsoriale che la prima lettura di questo lunedì di pasqua ci offrono un bellissimo salmo da cui irradia la gioia pasquale. Infatti, nel testo degli Atti (prima lettura) è riferito da S.Pietro. Egli lo cita immediatamente dopo aver proclamato che Dio ha risuscitato Gesù "sciogliendolo dalle angosce della morte perché non era possibile che questa lo tenesse in suo potere". È dunque evidente che la vittoria di Cristo sulla morte è la premessa necessaria ad accogliere e vivere una certezza di fondo. Si tratta di una solidità di speranza che non solo impedisce alla nostra vita di barcollare ma è un pressante invito a vivere ogni giorno, ogni momento a quella presenza di Dio-Amore, la cui alleanza di pace con noi non vacillerà mai.Tutto però sta nell'esercizio perseverante di questo "porre innanzi a me il Signore", di questo esporsi alla sua presenza non solo in momenti particolari della giornata, ma ogni volta che il ricordo di lui mi fa rientrare al cuore da lui abitato.Quanto più noi siamo ricolmi, giorno e notte, della presenza di Dio, tanto più "gioisce il cuore, esulta l'anima, e perfino il corpo – come dice il salmo – riposa sicuro.
domenica 23 marzo 2008
sabato 22 marzo 2008
venerdì 21 marzo 2008
Venerdì Santo
La più grande lezione che Gesù ci dà nella passione, consiste nell’insegnarci che ci possono essere sofferenze, vissute nell'amore, che glorificano il Padre.
Spesso, è la "tentazione" di fronte alla sofferenza che ci impedisce di fare progressi nella nostra vita cristiana. Tendiamo infatti a credere che la sofferenza è sempre da evitare, che non può esserci una sofferenza "santa".
Questo perché non abbiamo ancora sufficientemente fatto prova dell’amore infinito di Dio, perché lo Spirito Santo non ci ha ancora fatto entrare nel cuore di Gesù.
Non possiamo immaginarci, senza lo Spirito Santo, come possa esistere un amore più forte della morte, non un amore che impedisca la morte, ma un amore in grado di santificare la morte, di pervaderla, di fare in modo che esista una morte "santa": la morte di Gesù e tutte le morti che sono unite alla sua.
Gesù può, a volte, farci conoscere le sofferenze della sua agonia per farci capire che dobbiamo accettarle, non fuggirle.
Egli ci chiede di avere il coraggio di rimanere con lui: finché non avremo questo coraggio, non potremo trovare la pace del suo amore.
Nel cuore di Gesù c’è un’unione perfetta fra amore e sofferenza: l’hanno capito i santi che hanno provato gioia nella sofferenza che li avvicinava a Gesù.
Chiediamo umilmente a Gesù di concederci di essere pronti, quando egli lo vorrà, a condividere le sue sofferenze.
Non cerchiamo di immaginarle prima, ma, se non ci sentiamo pronti a viverle ora, preghiamo per coloro ai quali Gesù chiede di viverle, coloro che continuano la missione di Maria: sono più deboli e hanno soprattutto bisogno di essere sostenuti.
giovedì 20 marzo 2008
Giovedì Santo
La messa vespertina, che ricorda l'istituzione dell'Eucaristia, compiuta da Gesù nella cena pasquale, ha una duplice caratteristica:
- pone in rilievo il comando di Gesù di celebrare con un rito perpetuo la sua pasqua storica di morte e di risurrezione, come già nell'antica economia si commemorava l'esodo di liberazione;
- in secondo luogo questo comando è posto in connessione essenziale con l'altro 'mandato' della carità, rievocato attraverso il rito della lavanda dei piedi, simbolo del servizio sacrificale del Cristo. "Gesù, sapendo che il Padre gli aveva dato tutto e che era venuto da Dio e a Dio ritornava, si alzò da tavola, versò dell'acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli".
Il Figlio di Dio che lava i piedi sporchi dei suoi discepoli, come uno schiavo, diventa il grande modello di cosa deve essere ogni eucaristia: il servizio di alzarsi da tavola, di deporre gli indumenti della gloria, di chinarsi verso l'altro nel mistero del perdono: questa è vera fraternità. Lavare i piedi è il segno dell'accoglienza, come si faceva per l'ospite.
Gesù con ciò dice chiaramente di accogliere e ospitare in sé i suoi discepoli, di portarli con sé nelle vicende che egli affronterà.
"Venne da Simon Pietro e questi gli disse: Signore, tu lavi i piedi a me?... non mi laverai mai i piedi!" Pietro non accetta l'umiliazione del suo Maestro, ma non poteva rifiutarsi a questo gesto, pena il non aver parte con Gesù al suo mistero di morte e di vita.
Nell'atto del servizio di amore estremo di Gesù, già simboleggiato dal gesto della lavanda, la Pasqua diventa la nostra purificazione, perché significa lasciarsi perdonare e immergere nell'acqua del Battesimo che lava in Cristo i piedi sporchi del mondo, oltre che i nostri.
mercoledì 19 marzo 2008
Gesù Nel Getsemani
Gesù lascia il Cenacolo e si dirige decisamente verso il Getsemani o frantoio per le olive, sul pendio occidentale del Monte degli ulivi.
E' un orto o giardino dove Gesù è solito appartarsi per pregare quando soggiorna a Gerusalemme.
Luca annota che "anche i discepoli lo seguirono" (22,39), senza ulteriori distinzioni. Egli imposta la scena come una lezione sulla preghiera, perciò il maestro va a i discepoli seguono per imparare.
Conclusa la lezione nel Cenacolo, ora inizia quella nell'orto.
Anche in Giovanni i discepoli seguono Gesù nel giardino, ma la scena della preghiera non è raccontata.
In Matteo e Marco Gesù entra con l'intero gruppo, ma ne sceglie tre perché lo assistino più da vicino.
Sono Pietro, Giacomo e Giovanni, che hanno particolari vincoli col maestro. Sono stati scelti tra i primi, hanno assistito alla trasfigurazione e alla risurrezione della figlia di Giairo, hanno avuto problemi col discorso della croce. hanno ascoltato insieme ad Andrea il discorso finale di Gesù concluso con l'avviso: "Vigilate" (Mc 13,37).
E' un orto o giardino dove Gesù è solito appartarsi per pregare quando soggiorna a Gerusalemme.
Luca annota che "anche i discepoli lo seguirono" (22,39), senza ulteriori distinzioni. Egli imposta la scena come una lezione sulla preghiera, perciò il maestro va a i discepoli seguono per imparare.
Conclusa la lezione nel Cenacolo, ora inizia quella nell'orto.
Anche in Giovanni i discepoli seguono Gesù nel giardino, ma la scena della preghiera non è raccontata.
In Matteo e Marco Gesù entra con l'intero gruppo, ma ne sceglie tre perché lo assistino più da vicino.
Sono Pietro, Giacomo e Giovanni, che hanno particolari vincoli col maestro. Sono stati scelti tra i primi, hanno assistito alla trasfigurazione e alla risurrezione della figlia di Giairo, hanno avuto problemi col discorso della croce. hanno ascoltato insieme ad Andrea il discorso finale di Gesù concluso con l'avviso: "Vigilate" (Mc 13,37).
martedì 18 marzo 2008
Terza Meditazione
2. Morale della fede
La fede è virtù che dà spessore alla libertà e, in subordine, all'agire morale. Detto agire viene conformato dalle attitudini proprie della virtù della fede, che qui di seguito vogliamo evidenziare nella loro specificità morale.
La fede è virtù che dà spessore alla libertà e, in subordine, all'agire morale. Detto agire viene conformato dalle attitudini proprie della virtù della fede, che qui di seguito vogliamo evidenziare nella loro specificità morale.
2.1. Fedeltà
Il cristiano, soggetto della fede, è il «fedele» (At 10,45; 2Cor 6,15; Ef 1,1). La fedeltà è il segno della fiducia con cui si accoglie la fede, espressione della fedeltà di Dio all'alleanza (cf Dt 7,9; 2Cor 1,20), al suo amore per noi, per cui il cristiano vive la sua vita di fede.
La fedeltà è la fede che plasma e attiva in modo operativo la libertà cristiana.
Si tratta, sicuramente, della fedeltà a Dio, ma che coinvolge la libertà del credente nella sua responsabilità. Ne segue che tutta la vita morale è vissuta nel segno della fedeltà.
Non solo i doveri direttamente religiosi e di preghiera, ma anche quelli concernenti altri ambiti del vivere morale, come la società, la politica, l'economia, la comunicazione, la famiglia, la vita fisica, la sessualità.
1. Ciò significa, in primo luogo, che il cristiano non vive la vita morale separatamente dalla vita di fede, ma trova in questa il centro unificatore.
La vita morale è vita di fede, esprime, cioè, la fedeltà credente, per la quale il cristiano professa la sua fede mediante la fedeltà del proprio agire.
2. In secondo luogo, vivere la vita morale come fedeltà della fede, significa che il cristiano non subisce il dovere morale come imposizione eteronoma, ma lo accoglie come esigenza e compito di fedeltà.
Principi, precetti e norme di vita morale non sono prescrizioni di un Dio legislatore e giudice che detta all'uomo le condizioni salvifiche, ma espressioni della fedeltà a Dio.
La fedeltà a Dio è esigente: non è un «dire Signore, Signore», ma è fare la volontà del Padre (Mt 7,21; Lc 6,46).
Non è formale e generica ma operativa e concreta: «Chi dice "Lo conosco" e non osserva i suoi comandamenti, è bugiardo, e la verità non è in lui; ma chi osserva la sua parola, in lui l'amore di Dio è veramente perfetto» (1Gv 2,3‑4; cfr. Gv 14,15.21.23‑24; 15,10; Lc 11,28).
Il peccato, viceversa, è un atto non conforme alla legge, è un atto di infedeltà, che distrugge l'essere in Cristo e la comunione ecclesiale.
2.2. Risposta
Il cristiano vive la fedeltà morale come risposta a Dio. La relazione di fede si configura come un rapporto dialogico, vocazionale tra l'iniziativa della grazia e la risposta della libertà.
La fede, essendo virtù teologale, è dono di Dio. Non è una virtù acquisita, ma infusa dalla grazia. Per questo la libertà con cui l'uomo riconosce l'iniziativa divina, ne ascolta l'appello e si dispone a rispondere liberamente, svolge un ruolo essenziale: è risposta dell'uomo alla chiamata di Dio[1].
La fede «è la risposta dell'uomo alla radicale gratuità dell'intervento salvifico di Dio»[2]. E' una risposta che lo coinvolge in libertà di ascolto e di sequela.
Non si tratta di un ascolto distaccato e neutrale, ma coinvolgente e operante: «siate non soltanto ascoltatori ma operatori della parola» (Gc 1,22).
«Un credere attivo che non si limita semplicemente ad ascoltare il vangelo e a ritenerlo vero, ma modella la sua vita secondo le sue esigenze»[3].
Sono le esigenze espresse dalla sequela di Cristo, che devono modellare la vita del cristiano.
La morale della fede è una morale della risposta. Risposta che è obbedienza alla legge morale, vissuta come lode e gratitudine a Dio.
Il peccato, al contrario, è il non ascolto o ascolto distratto o refrattario della Parola, ascolto che non si fa sequela.
2.3. Obbedienza
La fede che chiama alla risposta operativa è «qualcosa di più ancora che una semplice "visione del mondo".
L'ascolto della fede è un udire che penetra e assimila la parola. Paolo a proposito afferma: «Ricevendo la parola divina della predicazione, l'avete accolta non come parola di uomini, ma come è veramente, quale parola di Dio, che opera in voi che credete» (1Ts 2,13).
La libertà, permeata e compenetrata dalla parola viene indirizzata verso la norma da essa delineata. Si tratta del dinamismo dell'obbedienza all'ascolto. Dell'ascolto che diventa obbedienza di fede (Rm 1,5; 16,26; 10,16; At 6,7).
Ipotesi confermata da «Paolo che chiama l'incredulità (Rm 3,3; 4,20; 11,20.23) disobbedienza (Rm 11,30.32; Ef 2,2; 5,6), per cui "non credere" (Rm 3,3) equivale a "essere disobbediente" (Rm 11,30.31). Gli "infedeli" (1Cor 6,6; 7,12.14.15; 10,27 e altri) sono coloro che sono "disobbedienti" (Rm 15,31)»[4].
«Obbedire è permettere al vangelo, liberamente accettato, di esprimere la sua forza trasformante nell'uomo, è un lasciarsi condurre in tutta la vita, rifiutando il padrone concorrente che è il peccato. "Non sapete che se vi fate schiavi, obbedendo, di qualcuno siete schiavi di quello a cui obbedite, sia del peccato per la morte, sia dell'obbedienza per la giustificazione?" (Rm 6,16)...
L'espressione "obbedienza della fede", obbedienza che "consiste e si realizza nella fede" e fa dei cristiani i figli dell'obbedienza (1Pt 1,14) al di là di una semplice espressione speculativa, afferma l'accettazione del vangelo con la mente, la volontà e il cuore, cosicché tutta la vita ne è interessata.
L'espressione paolina trova un parallelo in Giovanni, quando Gesù invita ad osservare i suoi comandamenti come egli ha osservato i comandamenti del Padre (cf Gv 15,10)»[5].
[1] «La fede ha origine dalla chiamata del Cristo e quindi sorge dall'ascolto: fides ex auditu. Essa però è un ascolto qualificato corrispondente alla chiamata» TRUTSCH J., Intelligenza teologica della fede, op. cit., p. 438).
[2] ALFARO J., Fede, op. cit., p. 745.
[3] PFAMMATTER J., La fede secondo la Sacra Scrittura, op. cit., p. 384.
[4] Ivi, p. 34.
[5] MARCONCINI B., Fede, in NDTB, op. cit., pp. 540‑541.
Il cristiano, soggetto della fede, è il «fedele» (At 10,45; 2Cor 6,15; Ef 1,1). La fedeltà è il segno della fiducia con cui si accoglie la fede, espressione della fedeltà di Dio all'alleanza (cf Dt 7,9; 2Cor 1,20), al suo amore per noi, per cui il cristiano vive la sua vita di fede.
La fedeltà è la fede che plasma e attiva in modo operativo la libertà cristiana.
Si tratta, sicuramente, della fedeltà a Dio, ma che coinvolge la libertà del credente nella sua responsabilità. Ne segue che tutta la vita morale è vissuta nel segno della fedeltà.
Non solo i doveri direttamente religiosi e di preghiera, ma anche quelli concernenti altri ambiti del vivere morale, come la società, la politica, l'economia, la comunicazione, la famiglia, la vita fisica, la sessualità.
1. Ciò significa, in primo luogo, che il cristiano non vive la vita morale separatamente dalla vita di fede, ma trova in questa il centro unificatore.
La vita morale è vita di fede, esprime, cioè, la fedeltà credente, per la quale il cristiano professa la sua fede mediante la fedeltà del proprio agire.
2. In secondo luogo, vivere la vita morale come fedeltà della fede, significa che il cristiano non subisce il dovere morale come imposizione eteronoma, ma lo accoglie come esigenza e compito di fedeltà.
Principi, precetti e norme di vita morale non sono prescrizioni di un Dio legislatore e giudice che detta all'uomo le condizioni salvifiche, ma espressioni della fedeltà a Dio.
La fedeltà a Dio è esigente: non è un «dire Signore, Signore», ma è fare la volontà del Padre (Mt 7,21; Lc 6,46).
Non è formale e generica ma operativa e concreta: «Chi dice "Lo conosco" e non osserva i suoi comandamenti, è bugiardo, e la verità non è in lui; ma chi osserva la sua parola, in lui l'amore di Dio è veramente perfetto» (1Gv 2,3‑4; cfr. Gv 14,15.21.23‑24; 15,10; Lc 11,28).
Il peccato, viceversa, è un atto non conforme alla legge, è un atto di infedeltà, che distrugge l'essere in Cristo e la comunione ecclesiale.
2.2. Risposta
Il cristiano vive la fedeltà morale come risposta a Dio. La relazione di fede si configura come un rapporto dialogico, vocazionale tra l'iniziativa della grazia e la risposta della libertà.
La fede, essendo virtù teologale, è dono di Dio. Non è una virtù acquisita, ma infusa dalla grazia. Per questo la libertà con cui l'uomo riconosce l'iniziativa divina, ne ascolta l'appello e si dispone a rispondere liberamente, svolge un ruolo essenziale: è risposta dell'uomo alla chiamata di Dio[1].
La fede «è la risposta dell'uomo alla radicale gratuità dell'intervento salvifico di Dio»[2]. E' una risposta che lo coinvolge in libertà di ascolto e di sequela.
Non si tratta di un ascolto distaccato e neutrale, ma coinvolgente e operante: «siate non soltanto ascoltatori ma operatori della parola» (Gc 1,22).
«Un credere attivo che non si limita semplicemente ad ascoltare il vangelo e a ritenerlo vero, ma modella la sua vita secondo le sue esigenze»[3].
Sono le esigenze espresse dalla sequela di Cristo, che devono modellare la vita del cristiano.
La morale della fede è una morale della risposta. Risposta che è obbedienza alla legge morale, vissuta come lode e gratitudine a Dio.
Il peccato, al contrario, è il non ascolto o ascolto distratto o refrattario della Parola, ascolto che non si fa sequela.
2.3. Obbedienza
La fede che chiama alla risposta operativa è «qualcosa di più ancora che una semplice "visione del mondo".
L'ascolto della fede è un udire che penetra e assimila la parola. Paolo a proposito afferma: «Ricevendo la parola divina della predicazione, l'avete accolta non come parola di uomini, ma come è veramente, quale parola di Dio, che opera in voi che credete» (1Ts 2,13).
La libertà, permeata e compenetrata dalla parola viene indirizzata verso la norma da essa delineata. Si tratta del dinamismo dell'obbedienza all'ascolto. Dell'ascolto che diventa obbedienza di fede (Rm 1,5; 16,26; 10,16; At 6,7).
Ipotesi confermata da «Paolo che chiama l'incredulità (Rm 3,3; 4,20; 11,20.23) disobbedienza (Rm 11,30.32; Ef 2,2; 5,6), per cui "non credere" (Rm 3,3) equivale a "essere disobbediente" (Rm 11,30.31). Gli "infedeli" (1Cor 6,6; 7,12.14.15; 10,27 e altri) sono coloro che sono "disobbedienti" (Rm 15,31)»[4].
«Obbedire è permettere al vangelo, liberamente accettato, di esprimere la sua forza trasformante nell'uomo, è un lasciarsi condurre in tutta la vita, rifiutando il padrone concorrente che è il peccato. "Non sapete che se vi fate schiavi, obbedendo, di qualcuno siete schiavi di quello a cui obbedite, sia del peccato per la morte, sia dell'obbedienza per la giustificazione?" (Rm 6,16)...
L'espressione "obbedienza della fede", obbedienza che "consiste e si realizza nella fede" e fa dei cristiani i figli dell'obbedienza (1Pt 1,14) al di là di una semplice espressione speculativa, afferma l'accettazione del vangelo con la mente, la volontà e il cuore, cosicché tutta la vita ne è interessata.
L'espressione paolina trova un parallelo in Giovanni, quando Gesù invita ad osservare i suoi comandamenti come egli ha osservato i comandamenti del Padre (cf Gv 15,10)»[5].
[1] «La fede ha origine dalla chiamata del Cristo e quindi sorge dall'ascolto: fides ex auditu. Essa però è un ascolto qualificato corrispondente alla chiamata» TRUTSCH J., Intelligenza teologica della fede, op. cit., p. 438).
[2] ALFARO J., Fede, op. cit., p. 745.
[3] PFAMMATTER J., La fede secondo la Sacra Scrittura, op. cit., p. 384.
[4] Ivi, p. 34.
[5] MARCONCINI B., Fede, in NDTB, op. cit., pp. 540‑541.
lunedì 17 marzo 2008
Seconda Meditazione
1.2. La libertà fondamentale della fede
La fede costituisce l'opzione fondamentale del cristiano. L'atto con cui decide di sé, dando significato e orientamento a tutta la sua esistenza[1].
Non, dunque, un'opzione assimilabile alle tante scelte categoriali, di cui è costellata la libertà della persona, ma è la stessa libertà che si identifica con la persona morale e che dà dinamismo a tutto il suo agire.
«Più che un atto o una serie di atti la fede è un atteggiamento personale, fondamentale e totale, che imprime all'esistenza un indirizzo nuovo e permanente. Sorge nel più profondo della libertà dell'uomo, là dove l'uomo è invitato interiormente dalla grazia all'intima comunione con Dio e abbraccia tutta la persona umana, nella sua intelligenza, volontà e azione»[2].
La libertà fondamentale si definisce dal suo rapporto con la fede, più che per la globalità del coinvolgimento, la radicalità e l'assolutezza del bene e valore in gioco.
Si tratta della libertà con la quale l'uomo si apre o si chiude al dono della grazia. Libertà con cui l'uomo ripone la sua fiducia in Dio o in altra cosa.
La fede è l'atto morale decisivo che ogni uomo è chiamato a fare, «attraverso vie che Dio solo conosce» (AG n. 7)[3]. Per il cristiano la via è Gesù Cristo, sacramento dell'amore salvifico di Dio per noi.
La fede, in quanto coinvolge la libertà fondamentale, obbliga il cristiano ad una duplice fedeltà morale:
- fedeltà della fede,
- fedeltà alla fede.
1.2.1. Fedeltà della fede
Il cristiano è anzitutto chiamato alla fedeltà della fede, ossia a tradurre in modo operativo, categoriale e concreto l'opzione fondamentale che da consistenza a tutta la sua vita.
Il vissuto del cristiano è irradiazione della sua libertà fondamentale, la quale si esprime nelle diverse opzioni particolari costitutivo dell'esistenza cristiana.
Questo vuol dire che la fede penetra nel vissuto gli dà significato e lo orienta in modo operativo[4].
Il significato e l'orientamento propri della fede vengono ordinariamente definiti "discernimento"[5].
Si tratta del 'discernimento' paolino, inteso come atto di autenticazione di se stessi e della propria situazione in rapporto alla fede.
Paolo afferma: «Esaminate voi stessi se siete nella fede, mettetevi alla prova. Non riconoscete forse che Gesù Cristo abita in voi?» (2Cor 13,5); «Non conformatevi alla mentalità di questo secolo, ma trasformatevi rinnovando la vostra mente, per discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto» (Rm 12,2).
Questi e altri testi (cf Rm 2,18; Fil 1,10; Ef 5,10.17; 1Ts 5,21) ci fanno capire il ruolo decisivo della fede nella decisione morale.
Detto ruolo è di «tipo formale», mirante cioè a informare tutto l'agire etico umano e a dargli la forma di Cristo e del Vangelo.
Si tratta di ciò che la tradizione spirituale ha inteso quando parlava di spirito di fede, quale disposizione permanente a valutare eventi e situazioni e decidersi in essi dal punto di vista della fede.
Si tratta del «pensiero di Cristo» (1Cor 2,16) e «lo Spirito di Cristo» (Rm 8,9) in noi, la sapienza divina di coloro che sono in Cristo in opposizione alla sapienza del mondo (cf 1Cor 1,17‑31).
«L'intelligenza spirituale» (Col 1,9) del cristiano, di cui parla 1'Apostolo, gli «occhi della fede» di cui parlano i Padri[6].
Lo spirito di fede viene azionato in noi dallo Spirito Santo, dall'azione convergente dei doni dell'intelligenza, della scienza, della saggezza e del consiglio.
Questo, concretamente, significa che nel fedele c'è la capacità di cogliere negli eventi e nelle situazioni la volontà di Dio, di leggerli con gli occhi di Cristo e di determinarsi in essi secondo il volere dello Spirito[7].
1.2.2. Fedeltà alla fede
La libertà per la fede esige la fedeltà alla fede secondo una duplice responsabilità:
- verso se stessi,
- verso gli altri.
La responsabilità verso se stessi vuol dire, in primo luogo:
1. accogliere la fede e farla crescere con la preghiera, la liturgia, l'ascolto meditativo della Parola, l'istruzione e la formazione cristiana, la fedeltà operativa.
Questo per diventare «saldi nella fede» (1Cor 16,3; Col 2,7; 1Pt 5,9), «fondati e fermi» (Col 1,23) e «conservare la fede» (2Tm 4,7).
2. Vuol dire, in secondo luogo, avere coscienza della possibilità di essere non fedeli alla fede, cioè del peccato di fede e della sua gravità.
Questo prende corpo:
- nell'indifferenza nella crescita, la quale indebolisce l'adesione a Dio in Cristo;
- nel disconoscimento della fede, che si esprime nell'incredulità come rifiuto di accogliere la fede, di aderire al messaggio cristiano;
- nell'eresia come adesione selettiva alle verità della fede e perciò negazione o messa in dubbio di talune di esse[8];
- nell'apostasia come abiura e ripudio della fede;
- nella superstizione come falsificazione magico e divinatoria della relazione di fede a Dio[9].
La responsabilità verso gli altri, invece, è quella dell'annuncio della fede, cioè l'evangelizzazione.
Si tratta di un compito esigito dalla comunione ecclesiale e dalla vocazione missionaria, che il cristiano adempie come partecipazione ed espressione del 'dono profetico' di Cristo, quale servizio della Parola.
Un compito ecclesiale che riguarda, sia pure in forme diverse, in relazione alla diversità delle vocazioni, dei carismi e dei ministeri nella Chiesa, tutti i cristiani.
Questi sono non solo destinatari della fede, cioè evangelizzati, ma anche ministri, cioè evangelizzatori.
I cristiani adempiono il ministero della fede mediante:
- «la testimonianza di una vita autenticamente cristiana»[10];
- «la proclamazione verbale del messaggio» nella predicazione della Parola, intimamente persuasi che «la fede dipende dalla predicazione e la predicazione a sua volta si attua per la parola di Cristo» (Rm 10,14‑17)[11];
- la celebrazione della liturgia, in cui «Dio parla al suo popolo e Cristo annuncia ancora il suo vangelo» (SC n. 33; EN n. 43);
- la catechesi nella chiesa, nella scuola, nella famiglia per l'iniziazione e la formazione sistematica alla fede (EN n. 44);
- il dialogo intersoggettivo della fede «mediante cui la coscienza personale di un uomo è raggiunta, toccata da una parola del tutto straordinaria che egli riceve da un altro» (EN n. 46);
- l'utilizzo o l'accesso ai mezzi odierni della comunicazione sociale, «capaci di estendere quasi all'infinito il campo di ascolto della parola di Dio» (EN n. 45).
La fede non ammette un vissuto privato, individualistico, intimistico, che, però, non va confuso con il silenzio e il raccoglimento e con il vissuto claustrale ed eremitico.
La fede è un evento ecclesiale di accoglienza e di annuncio. Nella fede non si matura individualmente.
[1] RATZINGER J., Introduzione al cristianesimo, op cit., p. 21.
[2] ALFARO J., Fede, op. cit., p. 742.
[3] Cf Lumen gentium, 13, 16; Gaudium et spes, 22; Ad gentes, 7, in Ench. Vat. 1, 321; 326; 1389; 1104. «Dalla volontà salvifica universale di Dio (Mc 10,45, 14,24 Rm 5,12‑20; 1Cor 15,20ss; 1Tm 2,1‑ó; 4,10; Gv,1,29; 3,14‑17; 1Gv 2,2) e dalla assoluta necessità della lede per la salvezza (Eb 11,6; Gv 3,16‑21, D 1532 (801)) consegue che ogni uomo è chiamato da Dio alla opzione fondamentale della fede, cioè a determinare il senso della propria esistenza mediante l'accettazione o il rifiuto liberi della grazia» (ALFARO J., Fede, op. cit., p. 745).
[4] E vero anche l'inverso, e cioè che gli atti che non esprimono in situazione l'opzione fondamentale di fede sono atti di infedeltà.
[5] AUBERT J.M., Abrégé de la morale, op. cit., p. 179.
[6] Cf Clemente di Roma, Ad Corinthios, 36; PG 1, 281a, Cirillo di Gerusalemme, Catechesis, 5, 4; PG 33, 509a; Giovanni Crisostomo, Expositio in Psalmos, 45, 3; PG 55, 207c; Agostino, Epistulae 120, 8; PL 33, 455; Enarratio in Psalmos, 145, 19 PL 37, 1897d.
[7] Cf DE BPVIS A, Foi, op. cit., pp. 603‑613.
[8] L'eretico è uno «accecato dall'orgoglio» (1Tm 6,4), che antepone il suo punto di vista alla verità della rivelazione accolta e proposta dalla comunità di fede.
[9] Cf TRUTSCH J., Opposizioni alla fede, deformazioni della fede, in Mysterium salutis, op. cit., vol. II, pp. 498‑504; TETTAMANZI D., Fede e ZALBA M., Superstizione, in DETM, Roma 1973, pp.390‑392 1021‑1026, HARING B., Liberi e fedeli in Cristo. Teologia morale per preti e laici, Roma 1980, vol. II, pp. 283‑291.
[10] Cf PAOLO VI, Esortazione apostolica «Evangelii nuntiandi», 41, in Ench. Vat. 5 1634; LG n. 11, in Ench. Vat. 1, 313.
[11] Cf Evangelii nuntiandi, 42, in Ench. Vat. 5, 1635. «come, si domanda 1'Apostolo, potranno credere senza averne sentito parlare? E come potranno sentirne parlare senza uno che lo annunzi?» (Rm 10,14).
La fede costituisce l'opzione fondamentale del cristiano. L'atto con cui decide di sé, dando significato e orientamento a tutta la sua esistenza[1].
Non, dunque, un'opzione assimilabile alle tante scelte categoriali, di cui è costellata la libertà della persona, ma è la stessa libertà che si identifica con la persona morale e che dà dinamismo a tutto il suo agire.
«Più che un atto o una serie di atti la fede è un atteggiamento personale, fondamentale e totale, che imprime all'esistenza un indirizzo nuovo e permanente. Sorge nel più profondo della libertà dell'uomo, là dove l'uomo è invitato interiormente dalla grazia all'intima comunione con Dio e abbraccia tutta la persona umana, nella sua intelligenza, volontà e azione»[2].
La libertà fondamentale si definisce dal suo rapporto con la fede, più che per la globalità del coinvolgimento, la radicalità e l'assolutezza del bene e valore in gioco.
Si tratta della libertà con la quale l'uomo si apre o si chiude al dono della grazia. Libertà con cui l'uomo ripone la sua fiducia in Dio o in altra cosa.
La fede è l'atto morale decisivo che ogni uomo è chiamato a fare, «attraverso vie che Dio solo conosce» (AG n. 7)[3]. Per il cristiano la via è Gesù Cristo, sacramento dell'amore salvifico di Dio per noi.
La fede, in quanto coinvolge la libertà fondamentale, obbliga il cristiano ad una duplice fedeltà morale:
- fedeltà della fede,
- fedeltà alla fede.
1.2.1. Fedeltà della fede
Il cristiano è anzitutto chiamato alla fedeltà della fede, ossia a tradurre in modo operativo, categoriale e concreto l'opzione fondamentale che da consistenza a tutta la sua vita.
Il vissuto del cristiano è irradiazione della sua libertà fondamentale, la quale si esprime nelle diverse opzioni particolari costitutivo dell'esistenza cristiana.
Questo vuol dire che la fede penetra nel vissuto gli dà significato e lo orienta in modo operativo[4].
Il significato e l'orientamento propri della fede vengono ordinariamente definiti "discernimento"[5].
Si tratta del 'discernimento' paolino, inteso come atto di autenticazione di se stessi e della propria situazione in rapporto alla fede.
Paolo afferma: «Esaminate voi stessi se siete nella fede, mettetevi alla prova. Non riconoscete forse che Gesù Cristo abita in voi?» (2Cor 13,5); «Non conformatevi alla mentalità di questo secolo, ma trasformatevi rinnovando la vostra mente, per discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto» (Rm 12,2).
Questi e altri testi (cf Rm 2,18; Fil 1,10; Ef 5,10.17; 1Ts 5,21) ci fanno capire il ruolo decisivo della fede nella decisione morale.
Detto ruolo è di «tipo formale», mirante cioè a informare tutto l'agire etico umano e a dargli la forma di Cristo e del Vangelo.
Si tratta di ciò che la tradizione spirituale ha inteso quando parlava di spirito di fede, quale disposizione permanente a valutare eventi e situazioni e decidersi in essi dal punto di vista della fede.
Si tratta del «pensiero di Cristo» (1Cor 2,16) e «lo Spirito di Cristo» (Rm 8,9) in noi, la sapienza divina di coloro che sono in Cristo in opposizione alla sapienza del mondo (cf 1Cor 1,17‑31).
«L'intelligenza spirituale» (Col 1,9) del cristiano, di cui parla 1'Apostolo, gli «occhi della fede» di cui parlano i Padri[6].
Lo spirito di fede viene azionato in noi dallo Spirito Santo, dall'azione convergente dei doni dell'intelligenza, della scienza, della saggezza e del consiglio.
Questo, concretamente, significa che nel fedele c'è la capacità di cogliere negli eventi e nelle situazioni la volontà di Dio, di leggerli con gli occhi di Cristo e di determinarsi in essi secondo il volere dello Spirito[7].
1.2.2. Fedeltà alla fede
La libertà per la fede esige la fedeltà alla fede secondo una duplice responsabilità:
- verso se stessi,
- verso gli altri.
La responsabilità verso se stessi vuol dire, in primo luogo:
1. accogliere la fede e farla crescere con la preghiera, la liturgia, l'ascolto meditativo della Parola, l'istruzione e la formazione cristiana, la fedeltà operativa.
Questo per diventare «saldi nella fede» (1Cor 16,3; Col 2,7; 1Pt 5,9), «fondati e fermi» (Col 1,23) e «conservare la fede» (2Tm 4,7).
2. Vuol dire, in secondo luogo, avere coscienza della possibilità di essere non fedeli alla fede, cioè del peccato di fede e della sua gravità.
Questo prende corpo:
- nell'indifferenza nella crescita, la quale indebolisce l'adesione a Dio in Cristo;
- nel disconoscimento della fede, che si esprime nell'incredulità come rifiuto di accogliere la fede, di aderire al messaggio cristiano;
- nell'eresia come adesione selettiva alle verità della fede e perciò negazione o messa in dubbio di talune di esse[8];
- nell'apostasia come abiura e ripudio della fede;
- nella superstizione come falsificazione magico e divinatoria della relazione di fede a Dio[9].
La responsabilità verso gli altri, invece, è quella dell'annuncio della fede, cioè l'evangelizzazione.
Si tratta di un compito esigito dalla comunione ecclesiale e dalla vocazione missionaria, che il cristiano adempie come partecipazione ed espressione del 'dono profetico' di Cristo, quale servizio della Parola.
Un compito ecclesiale che riguarda, sia pure in forme diverse, in relazione alla diversità delle vocazioni, dei carismi e dei ministeri nella Chiesa, tutti i cristiani.
Questi sono non solo destinatari della fede, cioè evangelizzati, ma anche ministri, cioè evangelizzatori.
I cristiani adempiono il ministero della fede mediante:
- «la testimonianza di una vita autenticamente cristiana»[10];
- «la proclamazione verbale del messaggio» nella predicazione della Parola, intimamente persuasi che «la fede dipende dalla predicazione e la predicazione a sua volta si attua per la parola di Cristo» (Rm 10,14‑17)[11];
- la celebrazione della liturgia, in cui «Dio parla al suo popolo e Cristo annuncia ancora il suo vangelo» (SC n. 33; EN n. 43);
- la catechesi nella chiesa, nella scuola, nella famiglia per l'iniziazione e la formazione sistematica alla fede (EN n. 44);
- il dialogo intersoggettivo della fede «mediante cui la coscienza personale di un uomo è raggiunta, toccata da una parola del tutto straordinaria che egli riceve da un altro» (EN n. 46);
- l'utilizzo o l'accesso ai mezzi odierni della comunicazione sociale, «capaci di estendere quasi all'infinito il campo di ascolto della parola di Dio» (EN n. 45).
La fede non ammette un vissuto privato, individualistico, intimistico, che, però, non va confuso con il silenzio e il raccoglimento e con il vissuto claustrale ed eremitico.
La fede è un evento ecclesiale di accoglienza e di annuncio. Nella fede non si matura individualmente.
[1] RATZINGER J., Introduzione al cristianesimo, op cit., p. 21.
[2] ALFARO J., Fede, op. cit., p. 742.
[3] Cf Lumen gentium, 13, 16; Gaudium et spes, 22; Ad gentes, 7, in Ench. Vat. 1, 321; 326; 1389; 1104. «Dalla volontà salvifica universale di Dio (Mc 10,45, 14,24 Rm 5,12‑20; 1Cor 15,20ss; 1Tm 2,1‑ó; 4,10; Gv,1,29; 3,14‑17; 1Gv 2,2) e dalla assoluta necessità della lede per la salvezza (Eb 11,6; Gv 3,16‑21, D 1532 (801)) consegue che ogni uomo è chiamato da Dio alla opzione fondamentale della fede, cioè a determinare il senso della propria esistenza mediante l'accettazione o il rifiuto liberi della grazia» (ALFARO J., Fede, op. cit., p. 745).
[4] E vero anche l'inverso, e cioè che gli atti che non esprimono in situazione l'opzione fondamentale di fede sono atti di infedeltà.
[5] AUBERT J.M., Abrégé de la morale, op. cit., p. 179.
[6] Cf Clemente di Roma, Ad Corinthios, 36; PG 1, 281a, Cirillo di Gerusalemme, Catechesis, 5, 4; PG 33, 509a; Giovanni Crisostomo, Expositio in Psalmos, 45, 3; PG 55, 207c; Agostino, Epistulae 120, 8; PL 33, 455; Enarratio in Psalmos, 145, 19 PL 37, 1897d.
[7] Cf DE BPVIS A, Foi, op. cit., pp. 603‑613.
[8] L'eretico è uno «accecato dall'orgoglio» (1Tm 6,4), che antepone il suo punto di vista alla verità della rivelazione accolta e proposta dalla comunità di fede.
[9] Cf TRUTSCH J., Opposizioni alla fede, deformazioni della fede, in Mysterium salutis, op. cit., vol. II, pp. 498‑504; TETTAMANZI D., Fede e ZALBA M., Superstizione, in DETM, Roma 1973, pp.390‑392 1021‑1026, HARING B., Liberi e fedeli in Cristo. Teologia morale per preti e laici, Roma 1980, vol. II, pp. 283‑291.
[10] Cf PAOLO VI, Esortazione apostolica «Evangelii nuntiandi», 41, in Ench. Vat. 5 1634; LG n. 11, in Ench. Vat. 1, 313.
[11] Cf Evangelii nuntiandi, 42, in Ench. Vat. 5, 1635. «come, si domanda 1'Apostolo, potranno credere senza averne sentito parlare? E come potranno sentirne parlare senza uno che lo annunzi?» (Rm 10,14).
giovedì 13 marzo 2008
Prima meditazione
Fede e vita morale
Introduzione
La fede è l'elemento che rende autentica l'intera esistenza del credente. La fede, in Cristo, e per Cristo in Dio, è, allo stesso tempo, il modo di essere e il modo di agire.
La fede si esprime con l’agire. Il credente, cioè, è colui che «vive nella fede del Figlio di Dio» (Gal 2,20).
Ne segue che tutto il vissuto morale è sollecitato, motivato e intenzionato dalla fede.
In altre parole credere equivale a vivere moralmente.
Questo coinvolgimento della fede nell’agire morale:
- suscita la libertà della fede,
- ridisegna la morale come morale della fede,
- delinea il rapporto fede e morale come specifico della morale cristiana.
l. Libertà della fede
La fede si esprime nell’atto morale che l'uomo pone in piena libertà. Questa, pur essendo libertà di ascolto accogliente e fedele all'iniziativa della grazia, è pienamente evento di libertà, perché fa parte della decisione e della responsabilità morale, in relazione alla salvezza operata da Dio in Cristo.
La fede, in quanto opzione decisiva e qualificante tutta l'esistenza credente, coincide con la libertà fondamentale della persona.
Analizziamo la libertà morale della fede e il suo carattere fondamentale che chiama alla fedeltà.
1.1. La libertà morale della fede
La fede è virtù intellettiva che rende capaci di conoscere la verità divina. Non si tratta di un conoscere astratto, ma concreto e fattivo.
Un conoscere intuitivo e morale, in quanto coinvolge la persona nella sua libertà. E' un conoscere immanente alla libertà del credere[1].
Si tratta di una verità che rimane inefficace senza la libertà. Non perché la libertà sia artefice della verità, ma perché è essa ad accettarla e riconoscerla come tale.
La rivelazione storico-salvifico del mistero di Dio non si presenta come una verità registrabile da un conoscere reso valido per chiunque da un'indagine scientifica, a prescindere dal soggetto conoscente.
Esso è per l'uomo una chiamata.
«Vieni e vedi» (Gv 1,46; 1,39).
Senza il «venire» della libertà l'uomo non vede nulla, gli è preclusa ogni possibile verità.
Esempio di Abramo (Gn 12), di Samuele (1Sam 3,9.10), di Geremia (Ger 20,7), Maria (Lc 1,30..)
Paolo afferma che: «la giustizia di Dio si è manifestata per mezzo della fede in Gesù Cristo, per tutti quelli che credono nel suo nome» (Rm 3,21‑22; cf Rm 5,19): e «noi abbiamo creduto per essere giustificati dalla fede in Cristo» (Gal 2,16).
Si tratta della libertà radicale con la quale il cristiano risponde alla chiamata di Dio.
La fede diviene conoscitiva e credibile, costitutiva e salvifica nella libertà. La libertà, in altre parole, entra nello statuto epistemologico della fede: «L'atto di fede è per sua stessa natura un atto libero» (DH n. 10).
La fede è, a partire dalla libertà, l’elemento con cui il credente oltrepassa la logica dell'evidenza del sapere oggettuale e sperimentale. Essa si compie nella libera fiducia, adesione, partecipazione e comunione, elementi che ne connotano la logica.
La libertà, poi, si connota come decisione e responsabilità morale. Esse così si enucleano:
- decisione e responsabilità dell'uomo per la fede;
- decisione e responsabilità del cristiano nella fede.
1.1.1. Decisione e responsabilità per la fede
1. Parliamo, innanzitutto, di decisione e responsabilità per la fede, in quanto non ci si può aspettare di essere determinati da apodittici e cogenti motivi razionali per credere. Tanto meno si può legare la fede a motivi sentimentali ed emozionali.
Occorre assumere la fede all'interno del proprio essere e del proprio agire, poiché non si può rinchiudere la verità entro una razionalità scientifica e sperimentale.
In questo senso la libertà dell'uomo, di ogni uomo, ha in sé la responsabilità della fede.
Questa responsabilità assume oggi uno spessore socioculturale, perché il progresso scientifico e tecnico sta imponendo la sua logica. Il conoscere si è orientato sul fare e sull'avere, sull'efficienza e sull'utilità.
Questa situazione tende a condizionare le coscienze:
- distraendole, per cui si perde il senso del Trascendente;
- sviandole, per cui si perde la via di accesso col Trascendente.
Questo è un peccato: un peccato contro la fede che affonda le sue radici in precise responsabilità, diventando «peccato sociale» o, come si esprime l'enciclica Sollicitudo rei socialis, «struttura di peccato» (SRS n. 36).
Il rifiuto di credere non consiste nel negare l'esistenza di Dio, ma nella responsabilità di chiudersi alla verità di Dio e di Cristo, espressa con piena consapevolezza, condizionata dalle ideologie dominanti, o dalle tante contraddizioni e paradossi che caratterizzano l'esistenza umana attuale.
1.1.2. Decisione e responsabilità nella fede
2. In secondo luogo abbiamo la decisione e responsabilità nella fede, in quanto non si può fare della fede un fatto:
- di tradizione: familiare, ambientale, etnica, nazionale;
- di consuetudine: all'interno del proprio stile di vita.
Nel primo caso ci si ritrova ad essere naturalmente cristiani, senza che la fede diventi una scelta personale, significativa e coinvolgente. La fede resta ai margini o fuori del proprio vivere, relegata a momenti o a eventi circoscritti e parcellari. Diventa una sovrastruttura garantita dalla chiesa dei cui servizi ci si avvale in modo episodico e funzionale. E' il caso dei cosiddetti cristiani anagrafici in una società fortemente secolarizzata.
C'è, in questo caso, una responsabilità morale, perché ci si lascia vivere, non assumere la propria esistenza, ma la si inclina verso il fare e l'avere, l'utile e il dilettevole, l'indifferente e l'effimero. Per cui si diventa insensibili e refrattari all'interiorità e allo Spirito. Si resta alla superficie delle cose.
Nel secondo caso ci si sente e professa cristiani, ma la fede rimane un ambito esterno, superficiale, senza motivazioni profonde. Si tratta di una fede fortemente divisa tra celebrazione e azione, professione e testimonianza, ortodossia e ortoprassi. Una fede che non feconda il vissuto, non incide sulla realtà, non suscita la fedeltà, non chiama all'impegno evangelizzatore.
E' una fede statica e standardizzata. Si è come parcheggiati in essa. Una fede da «arrivati», piuttosto che da «viandanti». E' la fede di cristiani che si dicono praticanti, ma che non diventa quotidianità, si ferma sulla soglia della chiesa.
Anche in questo caso c'è una responsabilità morale.
Non basta dirsi cristiani, bisogna esserlo, assumendone la dinamica e accogliendone le implicanze. Occorre fare un'opzione permanente e agire di conseguenza.
Si tratta della responsabilità che ognuno deve acquisire all'interno della propria realtà e del proprio stato di vita.
Tutti, infatti, corrono il rischio dell'acquiescenza.
[1] «Alla sovrana gratuità della rivelazione e della salvezza corrisponde la libertà della fede (D 1525s (797s) 300 (1786) 3010 (1791); Conc. Vat. II, Declaratio de libertate religiosa n 10)» (ALFARO J., Fede, in Sacramentum mundi. Enciclopedia teologica, op. cit., vol. III, p. 741).
Introduzione
La fede è l'elemento che rende autentica l'intera esistenza del credente. La fede, in Cristo, e per Cristo in Dio, è, allo stesso tempo, il modo di essere e il modo di agire.
La fede si esprime con l’agire. Il credente, cioè, è colui che «vive nella fede del Figlio di Dio» (Gal 2,20).
Ne segue che tutto il vissuto morale è sollecitato, motivato e intenzionato dalla fede.
In altre parole credere equivale a vivere moralmente.
Questo coinvolgimento della fede nell’agire morale:
- suscita la libertà della fede,
- ridisegna la morale come morale della fede,
- delinea il rapporto fede e morale come specifico della morale cristiana.
l. Libertà della fede
La fede si esprime nell’atto morale che l'uomo pone in piena libertà. Questa, pur essendo libertà di ascolto accogliente e fedele all'iniziativa della grazia, è pienamente evento di libertà, perché fa parte della decisione e della responsabilità morale, in relazione alla salvezza operata da Dio in Cristo.
La fede, in quanto opzione decisiva e qualificante tutta l'esistenza credente, coincide con la libertà fondamentale della persona.
Analizziamo la libertà morale della fede e il suo carattere fondamentale che chiama alla fedeltà.
1.1. La libertà morale della fede
La fede è virtù intellettiva che rende capaci di conoscere la verità divina. Non si tratta di un conoscere astratto, ma concreto e fattivo.
Un conoscere intuitivo e morale, in quanto coinvolge la persona nella sua libertà. E' un conoscere immanente alla libertà del credere[1].
Si tratta di una verità che rimane inefficace senza la libertà. Non perché la libertà sia artefice della verità, ma perché è essa ad accettarla e riconoscerla come tale.
La rivelazione storico-salvifico del mistero di Dio non si presenta come una verità registrabile da un conoscere reso valido per chiunque da un'indagine scientifica, a prescindere dal soggetto conoscente.
Esso è per l'uomo una chiamata.
«Vieni e vedi» (Gv 1,46; 1,39).
Senza il «venire» della libertà l'uomo non vede nulla, gli è preclusa ogni possibile verità.
Esempio di Abramo (Gn 12), di Samuele (1Sam 3,9.10), di Geremia (Ger 20,7), Maria (Lc 1,30..)
Paolo afferma che: «la giustizia di Dio si è manifestata per mezzo della fede in Gesù Cristo, per tutti quelli che credono nel suo nome» (Rm 3,21‑22; cf Rm 5,19): e «noi abbiamo creduto per essere giustificati dalla fede in Cristo» (Gal 2,16).
Si tratta della libertà radicale con la quale il cristiano risponde alla chiamata di Dio.
La fede diviene conoscitiva e credibile, costitutiva e salvifica nella libertà. La libertà, in altre parole, entra nello statuto epistemologico della fede: «L'atto di fede è per sua stessa natura un atto libero» (DH n. 10).
La fede è, a partire dalla libertà, l’elemento con cui il credente oltrepassa la logica dell'evidenza del sapere oggettuale e sperimentale. Essa si compie nella libera fiducia, adesione, partecipazione e comunione, elementi che ne connotano la logica.
La libertà, poi, si connota come decisione e responsabilità morale. Esse così si enucleano:
- decisione e responsabilità dell'uomo per la fede;
- decisione e responsabilità del cristiano nella fede.
1.1.1. Decisione e responsabilità per la fede
1. Parliamo, innanzitutto, di decisione e responsabilità per la fede, in quanto non ci si può aspettare di essere determinati da apodittici e cogenti motivi razionali per credere. Tanto meno si può legare la fede a motivi sentimentali ed emozionali.
Occorre assumere la fede all'interno del proprio essere e del proprio agire, poiché non si può rinchiudere la verità entro una razionalità scientifica e sperimentale.
In questo senso la libertà dell'uomo, di ogni uomo, ha in sé la responsabilità della fede.
Questa responsabilità assume oggi uno spessore socioculturale, perché il progresso scientifico e tecnico sta imponendo la sua logica. Il conoscere si è orientato sul fare e sull'avere, sull'efficienza e sull'utilità.
Questa situazione tende a condizionare le coscienze:
- distraendole, per cui si perde il senso del Trascendente;
- sviandole, per cui si perde la via di accesso col Trascendente.
Questo è un peccato: un peccato contro la fede che affonda le sue radici in precise responsabilità, diventando «peccato sociale» o, come si esprime l'enciclica Sollicitudo rei socialis, «struttura di peccato» (SRS n. 36).
Il rifiuto di credere non consiste nel negare l'esistenza di Dio, ma nella responsabilità di chiudersi alla verità di Dio e di Cristo, espressa con piena consapevolezza, condizionata dalle ideologie dominanti, o dalle tante contraddizioni e paradossi che caratterizzano l'esistenza umana attuale.
1.1.2. Decisione e responsabilità nella fede
2. In secondo luogo abbiamo la decisione e responsabilità nella fede, in quanto non si può fare della fede un fatto:
- di tradizione: familiare, ambientale, etnica, nazionale;
- di consuetudine: all'interno del proprio stile di vita.
Nel primo caso ci si ritrova ad essere naturalmente cristiani, senza che la fede diventi una scelta personale, significativa e coinvolgente. La fede resta ai margini o fuori del proprio vivere, relegata a momenti o a eventi circoscritti e parcellari. Diventa una sovrastruttura garantita dalla chiesa dei cui servizi ci si avvale in modo episodico e funzionale. E' il caso dei cosiddetti cristiani anagrafici in una società fortemente secolarizzata.
C'è, in questo caso, una responsabilità morale, perché ci si lascia vivere, non assumere la propria esistenza, ma la si inclina verso il fare e l'avere, l'utile e il dilettevole, l'indifferente e l'effimero. Per cui si diventa insensibili e refrattari all'interiorità e allo Spirito. Si resta alla superficie delle cose.
Nel secondo caso ci si sente e professa cristiani, ma la fede rimane un ambito esterno, superficiale, senza motivazioni profonde. Si tratta di una fede fortemente divisa tra celebrazione e azione, professione e testimonianza, ortodossia e ortoprassi. Una fede che non feconda il vissuto, non incide sulla realtà, non suscita la fedeltà, non chiama all'impegno evangelizzatore.
E' una fede statica e standardizzata. Si è come parcheggiati in essa. Una fede da «arrivati», piuttosto che da «viandanti». E' la fede di cristiani che si dicono praticanti, ma che non diventa quotidianità, si ferma sulla soglia della chiesa.
Anche in questo caso c'è una responsabilità morale.
Non basta dirsi cristiani, bisogna esserlo, assumendone la dinamica e accogliendone le implicanze. Occorre fare un'opzione permanente e agire di conseguenza.
Si tratta della responsabilità che ognuno deve acquisire all'interno della propria realtà e del proprio stato di vita.
Tutti, infatti, corrono il rischio dell'acquiescenza.
[1] «Alla sovrana gratuità della rivelazione e della salvezza corrisponde la libertà della fede (D 1525s (797s) 300 (1786) 3010 (1791); Conc. Vat. II, Declaratio de libertate religiosa n 10)» (ALFARO J., Fede, in Sacramentum mundi. Enciclopedia teologica, op. cit., vol. III, p. 741).
martedì 11 marzo 2008
Quarta meditazione
2.3 La fede per cui credo: la verità della fede
Il Vaticano II sostiene che «l'atto di fede è volontario per sua stessa natura, giacché l'uomo, redento da Cristo salvatore e chiamato in Gesù a essere figlio adottivo, non può aderire a Dio che si rivela, se, attratto dal Padre, non presta a Dio un ossequio di fede ragionevole e libero» (DH n. 10).
In questo modo il Vaticano II ha delineato e qualificato l'atteggiamento con cui il credente si rapporta a Dio in Cristo nella fede. Un atto della persona che si relaziona a Gesù Cristo.
Lo specifico che qualifica la persona e l'ambito dei rapporti interpersonali, è lo stesso della ragione e della libertà.
Ragione
La fede, dunque, si dà solo nella ragione e nella libertà, cioè, in modo ragionevole e libero. Ragione e libertà costituiscono il contesto in cui si rende certa la verità della fede.
La fede è anzitutto un «ragionevole ossequio» (Rm 12,1): «atto conforme alla ragione»[1]. Questo significa che deve essere un atto credibile e perciò motivato, adeguatamente fondato e giustificato. Altrimenti diventa cieco, irrazionale e perciò volontaristico, fideistico[2].
L'uomo, dunque, per credere deve essere certo, deve poter legittimare razionalmente la sua fede.
Libertà
Ma al tempo stesso la fede è un ossequio libero alla libera iniziativa di Dio, che si rivela e chiama l'uomo alla fede[3].
Libertà di Dio e libertà dell'uomo, dunque, sono in relazione interpersonale nella fede.
La libertà di Dio consiste nel non essere condizionato nella sua iniziativa: qualità fondamentale del dono della fede.
La libertà dell'uomo è una risposta responsabile.
L'una e l'altra non sono determinate e vincolate da necessità alcuna, altrimenti si cadrebbe nel razionalismo, anch'esso non degno di Dio e dell'uomo, perché li espropria della qualità costitutiva e specifica della libertà.
Visto che la fede deve avere valenza di ragionevolezza e libertà, è necessario comporre entrambe in una sintesi armonica che salvaguardi la originalità della verità e della conoscenza della fede.
Problematica
- Chi mi dice che la fede che credo è vera?
- Qual è il suo fondamento?
- Come posso io giustificarla, per darne ragione?
Il «credo» si qualifica sempre come atto di libertà.
La verità di fede non si offre all'intelligenza come un dato accessibile, perché trascendente sempre il conoscente e la sua intelligenza. Il conosciuto della fede è Dio nella realtà ineffabile del suo mistero e nella libertà del suo agire.
Di fronte a tutto ciò sta l'uomo con la sua limitatezza e incapacità di comprendere Dio.
L'uomo, in altre parole, non può conoscere Dio se non si rivela.
Per questo il conoscere della fede è strettamente collegato al libero rivelarsi e comunicarsi di Dio, alla testimonianza che Dio dà di sé mediante i segni della sua presenza e del suo agire.
La rivelazione di Dio acquista piena autorità nell'intelligenza del credente, diventa luce di verità: «Alla tua luce vediamo la luce» (Sal 35,10).
San Tommaso ha definito la fede: «un abito intellettivo con il quale s'inizia in noi la vita eterna, facendo aderire l'intelletto a cose non evidenti»[4].
L'abito intellettivo della fede non è un sapere speculativo su Dio, un'adesione astratta a verità divine, ma partecipazione alla vita divina (cf Gv 3,16; 5,24), dove il non evidente si offre all'intelligenza in modo credibile e dove nessuna dimostrazione e comprensione è possibile.
Le possibilità per l'uomo di pervenire alla fede risiede nella rivelazione divina come luce, come possibilità per grazia di far accettare la testimonianza di Dio.
Il cristiano coglie la testimonianza di Dio mediante i segni rivelatori di Dio. Questi svolgono un ruolo di fondamento, sono mediazione della testimonianza divina.
Il segno culminante, definitivo e decisivo, unificante tutti gli altri segni, è Gesù Cristo, il Verbo stesso di Dio, il rivelatore e il rivelato, il testimone e il sacramento di Dio per gli uomini[5].
In rapporto a esso si comprendono e diventano realmente significativi tutti gli altri segni: quelli della sua vita, quelli che lo precedono, quelli che lo continuano.
La fede è credibile solo in Cristo!
Ne segue che credere in Dio è credere in Cristo[6].
Gesù accredita se stesso, la sua testimonianza, attraverso il suo agire «perché se non volete credere a me, credete almeno alle opere, perché sappiate e conosciate che il Padre è in me e io nel Padre» (Gv 10,38).
La risurrezione
Dio è divenuto salvezza dell'uomo risuscitando Cristo dai morti. La risurrezione è l'evento riassuntivo di tutta l'esistenza e l'agire di Gesù, cui anch'egli rimanda come al segno che invera definitivamente la testimonianza divina (cf Mt 12,39‑41; 16,1‑4; Lc 11,29‑32).
Nella risurrezione di Gesù, Dio si è rivelato come il Dio che elimina la morte e dona la vita.
Per Paolo, infatti, la fede è legata indissolubilmente alla risurrezione di Cristo (1Cor 15,14.17‑20).
La testimonianza di Gesù è vera perché è risorto e la sua risurrezione è l'offerta di senso più significativa per l'uomo.
La verità che fonda la fede è che con la risurrezione l'opera di Gesù è pienamente riuscita e l'uomo è redento nella speranza.
Il fondamento della fede è, dunque, nel suo oggetto, che non è dimostrabile al di fuori della fede.
L'evento inedito della risurrezione non lo si può provare alla maniera di un qualunque avvenimento umano, cioè senza la fede.
Non mancano, nei racconti biblici, rimandi a segni (per esempio, il sepolcro vuoto, il mangiare con il Risorto) e a testimonianze dirette (elenco dei primi testimoni) della risurrezione, ma «si sapeva fin dall'inizio che tali segni non sono univoci, cioè si prestano a molte interpretazioni»[7].
Essi diventano decisivi per la fede, solo nella fede[8].
Un'esperienza che convalida la fede è, dunque, possibile solo se si comincia a credere.
L'uomo che crede fa autentica esperienza dell'amore, quello redentivo con cui Cristo si dona nella fede.
Così il «so a chi credo» (2Tim 1,12) è solidamente fondato, ma in maniera non costringente. Lo è sempre e solo nella libertà.
Si tratta dell'atto della libertà più grande, cioè della libertà fondamentale.
[1] «Obsequium humanae rationi consentaneum» (Concilio Vaticano I, Constitutio dogmatica «Dei Filius», in D5 3009).
[2] Cf Ivi, in DS 2010. Inoltre DS 2751‑2756, 2778, 3542. «Sacra Congregazione per il Clero, Direttorio catechistico generale, Ad normam decreti, 97, in Ench. Vat. 4, 602). Commissione Teologica Internazionale, L'unité de la foi et le pluralisme théologique, 3, in Ench. Vat. 4, 1803).
[3] Cf Concilio Vaticano I, Constitutio dogmatica «Dei Filius», in DS 3010, 3035.
[4] S. Th., II‑II, q. 4, art. 1.
[5] Cf KASPER W., Introduzione alla fede, op. cit., p 51.
[6] FRIES H., Fede e sapere scientifico, in Sacramentum mundi. Enciclopedia teologica, op. cit., vol. III, p. 765.
[7] Ivi, p. 72.
[8] Cf Ivi, p. 71).
Il Vaticano II sostiene che «l'atto di fede è volontario per sua stessa natura, giacché l'uomo, redento da Cristo salvatore e chiamato in Gesù a essere figlio adottivo, non può aderire a Dio che si rivela, se, attratto dal Padre, non presta a Dio un ossequio di fede ragionevole e libero» (DH n. 10).
In questo modo il Vaticano II ha delineato e qualificato l'atteggiamento con cui il credente si rapporta a Dio in Cristo nella fede. Un atto della persona che si relaziona a Gesù Cristo.
Lo specifico che qualifica la persona e l'ambito dei rapporti interpersonali, è lo stesso della ragione e della libertà.
Ragione
La fede, dunque, si dà solo nella ragione e nella libertà, cioè, in modo ragionevole e libero. Ragione e libertà costituiscono il contesto in cui si rende certa la verità della fede.
La fede è anzitutto un «ragionevole ossequio» (Rm 12,1): «atto conforme alla ragione»[1]. Questo significa che deve essere un atto credibile e perciò motivato, adeguatamente fondato e giustificato. Altrimenti diventa cieco, irrazionale e perciò volontaristico, fideistico[2].
L'uomo, dunque, per credere deve essere certo, deve poter legittimare razionalmente la sua fede.
Libertà
Ma al tempo stesso la fede è un ossequio libero alla libera iniziativa di Dio, che si rivela e chiama l'uomo alla fede[3].
Libertà di Dio e libertà dell'uomo, dunque, sono in relazione interpersonale nella fede.
La libertà di Dio consiste nel non essere condizionato nella sua iniziativa: qualità fondamentale del dono della fede.
La libertà dell'uomo è una risposta responsabile.
L'una e l'altra non sono determinate e vincolate da necessità alcuna, altrimenti si cadrebbe nel razionalismo, anch'esso non degno di Dio e dell'uomo, perché li espropria della qualità costitutiva e specifica della libertà.
Visto che la fede deve avere valenza di ragionevolezza e libertà, è necessario comporre entrambe in una sintesi armonica che salvaguardi la originalità della verità e della conoscenza della fede.
Problematica
- Chi mi dice che la fede che credo è vera?
- Qual è il suo fondamento?
- Come posso io giustificarla, per darne ragione?
Il «credo» si qualifica sempre come atto di libertà.
La verità di fede non si offre all'intelligenza come un dato accessibile, perché trascendente sempre il conoscente e la sua intelligenza. Il conosciuto della fede è Dio nella realtà ineffabile del suo mistero e nella libertà del suo agire.
Di fronte a tutto ciò sta l'uomo con la sua limitatezza e incapacità di comprendere Dio.
L'uomo, in altre parole, non può conoscere Dio se non si rivela.
Per questo il conoscere della fede è strettamente collegato al libero rivelarsi e comunicarsi di Dio, alla testimonianza che Dio dà di sé mediante i segni della sua presenza e del suo agire.
La rivelazione di Dio acquista piena autorità nell'intelligenza del credente, diventa luce di verità: «Alla tua luce vediamo la luce» (Sal 35,10).
San Tommaso ha definito la fede: «un abito intellettivo con il quale s'inizia in noi la vita eterna, facendo aderire l'intelletto a cose non evidenti»[4].
L'abito intellettivo della fede non è un sapere speculativo su Dio, un'adesione astratta a verità divine, ma partecipazione alla vita divina (cf Gv 3,16; 5,24), dove il non evidente si offre all'intelligenza in modo credibile e dove nessuna dimostrazione e comprensione è possibile.
Le possibilità per l'uomo di pervenire alla fede risiede nella rivelazione divina come luce, come possibilità per grazia di far accettare la testimonianza di Dio.
Il cristiano coglie la testimonianza di Dio mediante i segni rivelatori di Dio. Questi svolgono un ruolo di fondamento, sono mediazione della testimonianza divina.
Il segno culminante, definitivo e decisivo, unificante tutti gli altri segni, è Gesù Cristo, il Verbo stesso di Dio, il rivelatore e il rivelato, il testimone e il sacramento di Dio per gli uomini[5].
In rapporto a esso si comprendono e diventano realmente significativi tutti gli altri segni: quelli della sua vita, quelli che lo precedono, quelli che lo continuano.
La fede è credibile solo in Cristo!
Ne segue che credere in Dio è credere in Cristo[6].
Gesù accredita se stesso, la sua testimonianza, attraverso il suo agire «perché se non volete credere a me, credete almeno alle opere, perché sappiate e conosciate che il Padre è in me e io nel Padre» (Gv 10,38).
La risurrezione
Dio è divenuto salvezza dell'uomo risuscitando Cristo dai morti. La risurrezione è l'evento riassuntivo di tutta l'esistenza e l'agire di Gesù, cui anch'egli rimanda come al segno che invera definitivamente la testimonianza divina (cf Mt 12,39‑41; 16,1‑4; Lc 11,29‑32).
Nella risurrezione di Gesù, Dio si è rivelato come il Dio che elimina la morte e dona la vita.
Per Paolo, infatti, la fede è legata indissolubilmente alla risurrezione di Cristo (1Cor 15,14.17‑20).
La testimonianza di Gesù è vera perché è risorto e la sua risurrezione è l'offerta di senso più significativa per l'uomo.
La verità che fonda la fede è che con la risurrezione l'opera di Gesù è pienamente riuscita e l'uomo è redento nella speranza.
Il fondamento della fede è, dunque, nel suo oggetto, che non è dimostrabile al di fuori della fede.
L'evento inedito della risurrezione non lo si può provare alla maniera di un qualunque avvenimento umano, cioè senza la fede.
Non mancano, nei racconti biblici, rimandi a segni (per esempio, il sepolcro vuoto, il mangiare con il Risorto) e a testimonianze dirette (elenco dei primi testimoni) della risurrezione, ma «si sapeva fin dall'inizio che tali segni non sono univoci, cioè si prestano a molte interpretazioni»[7].
Essi diventano decisivi per la fede, solo nella fede[8].
Un'esperienza che convalida la fede è, dunque, possibile solo se si comincia a credere.
L'uomo che crede fa autentica esperienza dell'amore, quello redentivo con cui Cristo si dona nella fede.
Così il «so a chi credo» (2Tim 1,12) è solidamente fondato, ma in maniera non costringente. Lo è sempre e solo nella libertà.
Si tratta dell'atto della libertà più grande, cioè della libertà fondamentale.
[1] «Obsequium humanae rationi consentaneum» (Concilio Vaticano I, Constitutio dogmatica «Dei Filius», in D5 3009).
[2] Cf Ivi, in DS 2010. Inoltre DS 2751‑2756, 2778, 3542. «Sacra Congregazione per il Clero, Direttorio catechistico generale, Ad normam decreti, 97, in Ench. Vat. 4, 602). Commissione Teologica Internazionale, L'unité de la foi et le pluralisme théologique, 3, in Ench. Vat. 4, 1803).
[3] Cf Concilio Vaticano I, Constitutio dogmatica «Dei Filius», in DS 3010, 3035.
[4] S. Th., II‑II, q. 4, art. 1.
[5] Cf KASPER W., Introduzione alla fede, op. cit., p 51.
[6] FRIES H., Fede e sapere scientifico, in Sacramentum mundi. Enciclopedia teologica, op. cit., vol. III, p. 765.
[7] Ivi, p. 72.
[8] Cf Ivi, p. 71).
lunedì 10 marzo 2008
Terza Meditazione
2.2. La fede che credo: il contenuto della fede
La fiducia, la conversione e l'ascolto apre il credente alla verità di Dio. Egli conosce Dio nel modo unico e proprio della fede.
La conoscenza della verità di Dio costituisce il contenuto della confessione di fede.
Si tratta di una verità che prende corpo in formule o asserti, che non sono concepiti in modo intellettuale e astratto, ma come enunciati o dogmi, di immediata comprensione.
Crisi di fede.
Il modo di intendere e proporre la fede è un elemento determinante della crisi della fede oggi.
La reazione a questa crisi può portare allo sbilanciamento inverso, per cui non è tanto importante il «che cosa» si crede, ma «che» si creda.
E’ più importante il «credere» o che il «creduto»?
L'armonia tra atto e contenuto, (tra fides qua e fides quae), può andare a scapito dell'ortodossia (della verità), così come il dogmatismo intellettualistico può andare a scapito dell'ortoprassi (dell'impegno)[1].
Per ovviare al duplice sbilanciamento occorre rifarsi alle fonti bibliche della fede, per attingere di nuovo il contenuto, che si realizza in modo storico‑salvifico.
Fonti bibliche
La Bibbia non ha un contenuto dottrinale e astratto della fede, ma concreto, in relazione al realizzarsi storico della rivelazione e della decisione dell'uomo[2].
Nell'Antico Testamento «se Israele fosse stato interrogato sulla sua fede, non avrebbe risposto con un sistema di proposizioni su Dio, sul mondo e sugli uomini. Israele avrebbe piuttosto risposto alla domanda raccontando una storia e riconoscendo d'aver sperimentato in questa storia la guida e la fedeltà di Jahvé. Solo perché Israele aveva prima incontrato Dio nella storia, poteva anche confessarlo nella fede. La sua fede era dunque risposta a una parola pronunciata prima. In questa struttura di risposta trova fondamento il fatto che la fede dell'Antico Testamento non è mai semplicemente una vuota fede fiducia, ma ha un contenuto concreto» [3].
La verità della fede è legata non a una deduzione speculativa o a una concezione mitica di Dio, come nelle religioni non rivelate, ma alla rivelazione di Jahvé nella storia di Israele.
La sua professione non è legata ad un «credo» pronunciato in modo astratto, ma ad una concreta risposta[4].
Il contenuto della fede veterotestamentaria è costituito da confessioni storico‑salvifiche dell'agire potente e fedele di Dio, che col passare del tempo diventano enunciati[5].
Confessare questi enunciati non solo è ritenere veri certi fatti, ma è dare lode a Dio con il culto, il quale rimanda alla storia come luogo della rivelazione e della elezione di Dio e della risposta fedele dell’uomo[6].
La fede neotestamentaria si colloca anch'essa nell'alveo storico-salvifico. Essa è originata da Gesù Cristo. In lui Dio:
- ha pronunciato la sua parola di salvezza definitiva,
- ha rivelato il suo mistero,
- ha realizzato il suo regno,
- ha stabilito la nuova ed eterna alleanza.
Cristo è il sacramento dell'amore salvifico di Dio per noi.
La risposta dell'uomo è la fede in Gesù Cristo!
Il contenuto della fede è costituito dalla persona di Gesù, dalla sua vita, dal suo messaggio, dalla sua morte e risurrezione.
La fede che Gesù esige dai discepoli deve essere confessione declinata nella sequela. Tutto il vangelo è testimonianza di questa fede che si rinnova nell'incontro e nel dialogo con Gesù.
La confessione di Pietro, «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente» (Mt 16,16), ne è la proclamazione più significativa.
Della stessa fede sono espressione, con particolare riferimento all'evento pasquale, le prime confessioni della comunità cristiana.
Sia quelle che fanno riferimento al nome: «Gesù è il Signore» (Rm 10,9; 1Cor 12,3), «Gesù è il Cristo» (1Gv 1,22; 5,1; 2Gv 7), «Gesù è il Figlio di Dio» (At 9,20; 1Gv 4,15; 5,5).
Sia quelle che fanno riferimento alle formule di fede, come quella che afferma che «Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture e apparve a Cefa e quindi ai Dodici» (1Cor 15,3‑5).
Centro della fede
«L'agire di Dio attraverso la persona e la storia di Gesù Cristo è, dunque, il centro della fede cristiana. Ogni predicazione posteriore è rimandata a questo centro, lo deve esplicitare e renderlo attuale»[7].
E' quanto ha fatto la comunità cristiana lungo i secoli, a cominciare dai simboli della fede[8], nel costante impegno di approfondire, difendere dall'eresia, esplicitare e riformulare il deposito della fede.
Le verità o articoli di fede, che esprimono il deposito della fede, sono l'enunciazione tematica della verità centrale cristologica in relazione a Dio, fonte della salvezza, e all'uomo, destinatario della salvezza.
Cristo è il principio assiologico ed ermeneutico delle verità della fede. Tutte hanno senso e valore cristologico, e sono tali in quanto possono essere comprese cristologicamente.
Cristo è il fondamento delle verità enunciate dalla fede della Chiesa, lungo i secoli, le quali si strutturano in forma unitaria e concentrica.
In questo senso il concilio Vaticano II ha parlato di una gerarchia delle verità: «Esiste un ordine o "gerarchia" nelle verità della dottrina cattolica, essendo diverso il loro nesso col fondamento della fede cristiana».
Più avanti precisa, con esplicito riferimento a Ef 3,8, che questo fondamento consiste nelle «insondabili ricchezze di Cristo» (UR n. 11).
Le molte verità di fede, dunque, non vanno indifferentemente numerate o sommate, ma soppesate e proporzionate secondo il «diverso nesso» con il centro e vertice[9].
Dietro la molteplicità delle verità di fede c'è l'unica e medesima fede: Gesù Cristo, salvezza di Dio per l'uomo.
La concentrazione cristologica dà alla fede i seguenti significati: teologico, dossologico, antropologico ed ecclesiologico.
Teologico: perché Gesù Cristo è il sacramento di Dio, la rivelazione economica della Trinità immanente e la via che conduce al Padre.
Dossologico: perché testimoniare la verità vuol dire entrare in comunione con il messaggio. La confessione della fede non è pura proclamazione di formule, ma stretta relazione con la verità professata. Il luogo della confessione, il suo vero Sitz in Leben, è, infatti, la liturgia, il luogo, cioè, dove la confessione della fede diviene preghiera e lode.
Antropologico: perché Cristo è salvezza di Dio per noi. Nella confessione della fede l'uomo è coinvolto come destinatario della salvezza. Per cui interpretare cristologicamente la fede significa interpretarla in modo soteriologico. Ne segue che contenuto e oggetto della fede è Dio salvatore e l'uomo salvato
Ecclesiologico: perché la verità della fede riguarda la Chiesa, è creduta nella Chiesa ed è mediata dalla Chiesa.
La chiesa
La Chiesa è, prima di tutto, realtà e evento di fede. E' il luogo della confessione della fede.
Infatti, non si dà una fede privata, perché l'«io credo» è sempre un «noi crediamo». «La Chiesa è il soggetto complessivo della fede»[10]. La libertà credente professa l'unica fede dell'unica Chiesa.
Infine, si crede con la fede della Chiesa. La Chiesa è custode del deposito della fede e, perciò, garante della verità della fede.
La Chiesa è nella storia sacramento di Cristo: segno vivo, pieno ed efficace della verità liberante della fede.
Cristo ha voluto unire a sé la Chiesa con un vincolo sponsale indissolubile, affidandole la continuazione della salvezza nel mondo.
Concludendo
La fede confessa il suo contenuto e la confessione è atto di fede. Come la fede:
- non è un mero ritenere per veri una serie di dogmi,
- non è una vuota fiducia, espressione di una libertà priva di verità.
Ne segue che atto e contenuto, fiducia e confessione si coimplicano in una correlazione inscindibile.
Questo è quanto insegna il concilio Vaticano II quando, nella costituzione Dei Verbum definisce la fede come «abbandono» di tutto l'uomo a Dio (atto di fede: fides qua) e «assenso» alla rivelazione da lui data (contenuto della fede: fides quae) (n. 5).
La fede è l'opzione decisiva della libertà (intelligenza e volontà), che si affida totalmente (atto) al Dio che in Gesù Cristo si rivela (contenuto) come nostra salvezza.
La fede è salvifica sia nella fiducia che nella confessione: «Se confesserai con la tua bocca che Gesù è il Signore e crederai con il tuo cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo. Con il cuore, infatti, si crede per ottenere la giustizia e con la bocca si fa la professione di fede per avere la salvezza» (Rm 10,9‑10).
[1] Cf Ivi, pp. 103‑104.
[2] Cf TRUTSCH J., L'uditore della parola, op. cit., p. 373.
[3] KASPER W., Introduzione alla fede, op cit., p. 105.
[4] Cf PFAMMATTER J., La fede secondo la Sacra Scrittura, op. cit., p. 379).
[5] Cf Dt 26, 5‑9).
[6] Cf ALFARO J., Esistenza cristiana, Pontificia Università Gregoriana, Roma 1979, pp. 14‑15; KASPER W., Introduzione alla fede, op. cit., p. 105.
[7] KASPER W., Introduzione alla fede, op. cit., p. 109.
[8]Cf CULMANN O., Le prime confessioni di fede cristiana, Centro evangelico di cultura, Roma 1948; PANNENBERG W., Il Credo e la fede dell'uomo d'oggi, Brescia 1973; RATZINGER J., Introduzione al cristianesimo, op. cit.
[9] Cf FRIES H., Teologia fondamentale, op. cit., p. 128.
[10] Ivi, p. 110.
La fiducia, la conversione e l'ascolto apre il credente alla verità di Dio. Egli conosce Dio nel modo unico e proprio della fede.
La conoscenza della verità di Dio costituisce il contenuto della confessione di fede.
Si tratta di una verità che prende corpo in formule o asserti, che non sono concepiti in modo intellettuale e astratto, ma come enunciati o dogmi, di immediata comprensione.
Crisi di fede.
Il modo di intendere e proporre la fede è un elemento determinante della crisi della fede oggi.
La reazione a questa crisi può portare allo sbilanciamento inverso, per cui non è tanto importante il «che cosa» si crede, ma «che» si creda.
E’ più importante il «credere» o che il «creduto»?
L'armonia tra atto e contenuto, (tra fides qua e fides quae), può andare a scapito dell'ortodossia (della verità), così come il dogmatismo intellettualistico può andare a scapito dell'ortoprassi (dell'impegno)[1].
Per ovviare al duplice sbilanciamento occorre rifarsi alle fonti bibliche della fede, per attingere di nuovo il contenuto, che si realizza in modo storico‑salvifico.
Fonti bibliche
La Bibbia non ha un contenuto dottrinale e astratto della fede, ma concreto, in relazione al realizzarsi storico della rivelazione e della decisione dell'uomo[2].
Nell'Antico Testamento «se Israele fosse stato interrogato sulla sua fede, non avrebbe risposto con un sistema di proposizioni su Dio, sul mondo e sugli uomini. Israele avrebbe piuttosto risposto alla domanda raccontando una storia e riconoscendo d'aver sperimentato in questa storia la guida e la fedeltà di Jahvé. Solo perché Israele aveva prima incontrato Dio nella storia, poteva anche confessarlo nella fede. La sua fede era dunque risposta a una parola pronunciata prima. In questa struttura di risposta trova fondamento il fatto che la fede dell'Antico Testamento non è mai semplicemente una vuota fede fiducia, ma ha un contenuto concreto» [3].
La verità della fede è legata non a una deduzione speculativa o a una concezione mitica di Dio, come nelle religioni non rivelate, ma alla rivelazione di Jahvé nella storia di Israele.
La sua professione non è legata ad un «credo» pronunciato in modo astratto, ma ad una concreta risposta[4].
Il contenuto della fede veterotestamentaria è costituito da confessioni storico‑salvifiche dell'agire potente e fedele di Dio, che col passare del tempo diventano enunciati[5].
Confessare questi enunciati non solo è ritenere veri certi fatti, ma è dare lode a Dio con il culto, il quale rimanda alla storia come luogo della rivelazione e della elezione di Dio e della risposta fedele dell’uomo[6].
La fede neotestamentaria si colloca anch'essa nell'alveo storico-salvifico. Essa è originata da Gesù Cristo. In lui Dio:
- ha pronunciato la sua parola di salvezza definitiva,
- ha rivelato il suo mistero,
- ha realizzato il suo regno,
- ha stabilito la nuova ed eterna alleanza.
Cristo è il sacramento dell'amore salvifico di Dio per noi.
La risposta dell'uomo è la fede in Gesù Cristo!
Il contenuto della fede è costituito dalla persona di Gesù, dalla sua vita, dal suo messaggio, dalla sua morte e risurrezione.
La fede che Gesù esige dai discepoli deve essere confessione declinata nella sequela. Tutto il vangelo è testimonianza di questa fede che si rinnova nell'incontro e nel dialogo con Gesù.
La confessione di Pietro, «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente» (Mt 16,16), ne è la proclamazione più significativa.
Della stessa fede sono espressione, con particolare riferimento all'evento pasquale, le prime confessioni della comunità cristiana.
Sia quelle che fanno riferimento al nome: «Gesù è il Signore» (Rm 10,9; 1Cor 12,3), «Gesù è il Cristo» (1Gv 1,22; 5,1; 2Gv 7), «Gesù è il Figlio di Dio» (At 9,20; 1Gv 4,15; 5,5).
Sia quelle che fanno riferimento alle formule di fede, come quella che afferma che «Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture e apparve a Cefa e quindi ai Dodici» (1Cor 15,3‑5).
Centro della fede
«L'agire di Dio attraverso la persona e la storia di Gesù Cristo è, dunque, il centro della fede cristiana. Ogni predicazione posteriore è rimandata a questo centro, lo deve esplicitare e renderlo attuale»[7].
E' quanto ha fatto la comunità cristiana lungo i secoli, a cominciare dai simboli della fede[8], nel costante impegno di approfondire, difendere dall'eresia, esplicitare e riformulare il deposito della fede.
Le verità o articoli di fede, che esprimono il deposito della fede, sono l'enunciazione tematica della verità centrale cristologica in relazione a Dio, fonte della salvezza, e all'uomo, destinatario della salvezza.
Cristo è il principio assiologico ed ermeneutico delle verità della fede. Tutte hanno senso e valore cristologico, e sono tali in quanto possono essere comprese cristologicamente.
Cristo è il fondamento delle verità enunciate dalla fede della Chiesa, lungo i secoli, le quali si strutturano in forma unitaria e concentrica.
In questo senso il concilio Vaticano II ha parlato di una gerarchia delle verità: «Esiste un ordine o "gerarchia" nelle verità della dottrina cattolica, essendo diverso il loro nesso col fondamento della fede cristiana».
Più avanti precisa, con esplicito riferimento a Ef 3,8, che questo fondamento consiste nelle «insondabili ricchezze di Cristo» (UR n. 11).
Le molte verità di fede, dunque, non vanno indifferentemente numerate o sommate, ma soppesate e proporzionate secondo il «diverso nesso» con il centro e vertice[9].
Dietro la molteplicità delle verità di fede c'è l'unica e medesima fede: Gesù Cristo, salvezza di Dio per l'uomo.
La concentrazione cristologica dà alla fede i seguenti significati: teologico, dossologico, antropologico ed ecclesiologico.
Teologico: perché Gesù Cristo è il sacramento di Dio, la rivelazione economica della Trinità immanente e la via che conduce al Padre.
Dossologico: perché testimoniare la verità vuol dire entrare in comunione con il messaggio. La confessione della fede non è pura proclamazione di formule, ma stretta relazione con la verità professata. Il luogo della confessione, il suo vero Sitz in Leben, è, infatti, la liturgia, il luogo, cioè, dove la confessione della fede diviene preghiera e lode.
Antropologico: perché Cristo è salvezza di Dio per noi. Nella confessione della fede l'uomo è coinvolto come destinatario della salvezza. Per cui interpretare cristologicamente la fede significa interpretarla in modo soteriologico. Ne segue che contenuto e oggetto della fede è Dio salvatore e l'uomo salvato
Ecclesiologico: perché la verità della fede riguarda la Chiesa, è creduta nella Chiesa ed è mediata dalla Chiesa.
La chiesa
La Chiesa è, prima di tutto, realtà e evento di fede. E' il luogo della confessione della fede.
Infatti, non si dà una fede privata, perché l'«io credo» è sempre un «noi crediamo». «La Chiesa è il soggetto complessivo della fede»[10]. La libertà credente professa l'unica fede dell'unica Chiesa.
Infine, si crede con la fede della Chiesa. La Chiesa è custode del deposito della fede e, perciò, garante della verità della fede.
La Chiesa è nella storia sacramento di Cristo: segno vivo, pieno ed efficace della verità liberante della fede.
Cristo ha voluto unire a sé la Chiesa con un vincolo sponsale indissolubile, affidandole la continuazione della salvezza nel mondo.
Concludendo
La fede confessa il suo contenuto e la confessione è atto di fede. Come la fede:
- non è un mero ritenere per veri una serie di dogmi,
- non è una vuota fiducia, espressione di una libertà priva di verità.
Ne segue che atto e contenuto, fiducia e confessione si coimplicano in una correlazione inscindibile.
Questo è quanto insegna il concilio Vaticano II quando, nella costituzione Dei Verbum definisce la fede come «abbandono» di tutto l'uomo a Dio (atto di fede: fides qua) e «assenso» alla rivelazione da lui data (contenuto della fede: fides quae) (n. 5).
La fede è l'opzione decisiva della libertà (intelligenza e volontà), che si affida totalmente (atto) al Dio che in Gesù Cristo si rivela (contenuto) come nostra salvezza.
La fede è salvifica sia nella fiducia che nella confessione: «Se confesserai con la tua bocca che Gesù è il Signore e crederai con il tuo cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo. Con il cuore, infatti, si crede per ottenere la giustizia e con la bocca si fa la professione di fede per avere la salvezza» (Rm 10,9‑10).
[1] Cf Ivi, pp. 103‑104.
[2] Cf TRUTSCH J., L'uditore della parola, op. cit., p. 373.
[3] KASPER W., Introduzione alla fede, op cit., p. 105.
[4] Cf PFAMMATTER J., La fede secondo la Sacra Scrittura, op. cit., p. 379).
[5] Cf Dt 26, 5‑9).
[6] Cf ALFARO J., Esistenza cristiana, Pontificia Università Gregoriana, Roma 1979, pp. 14‑15; KASPER W., Introduzione alla fede, op. cit., p. 105.
[7] KASPER W., Introduzione alla fede, op. cit., p. 109.
[8]Cf CULMANN O., Le prime confessioni di fede cristiana, Centro evangelico di cultura, Roma 1948; PANNENBERG W., Il Credo e la fede dell'uomo d'oggi, Brescia 1973; RATZINGER J., Introduzione al cristianesimo, op. cit.
[9] Cf FRIES H., Teologia fondamentale, op. cit., p. 128.
[10] Ivi, p. 110.
sabato 8 marzo 2008
Seconda meditazione
La conversione
Il rendersi presente di Dio in Gesù Cristo, chiama alla conversione di fede (cf Mc 1,15; At 20,21; 2,38; 3,19), «convertitevi e credete» (Mc 1,15), quale radicale e totale rinuncia:
- a gloriarsi delle proprie opere,
- a non riporre la propria fiducia nelle prestazioni umane,
- ad affidarsi totalmente al dono salvifico di Dio in Cristo (cf 1Gv 4,16).
Gesù nel Vangelo esige tutto questo a causa della radicalità della sua chiamata: «Chi crede e sarà battezzato sarà salvo» (Mc 16,16); «Se non credete che io sono, morirete nei vostri peccati» (Gv 8,24).
L'esige la predicazione apostolica con la polarizzazione su «Gesù il Signore» (Rm 10,9; 1Cor 12,3) di tutta l'esistenza credente: «Se confesserai con la tua bocca che Gesù è il Signore, e crederai con il tuo cuore che Dio lo ha resuscitato dai morti, sarai salvo» (Rm 10,9; cf At 16,31).
E' «l'obbedienza della fede (Rm 16,26; cfr. Rm 1,5; 2Cor 10,5‑6) con la quale l'uomo si abbandona tutto a Dio liberamente, prestandogli "il pieno ossequio dell'intelletto e della volontà" e assentendo volontariamente alla rivelazione data da lui» (DV n. 5).
La conversione, che è obbedienza alla fede, è atto decisivo di tutto l'esistere cristiano. Essa, in continuità con l'âman veterotestamentario, il pisteuein neotestamentario, esprime e realizza non solo la conoscenza, ma l’essere: essere in Cristo (cf Ef 3,17).
Si tratta, è ovvio, di un conoscere in senso specificamente biblico e propriamente giovanneo, che esprime la relazione che unisce in modo profondo a Gesù, il figlio di Dio, e dà la capacità di «dimorare in Dio» (1Gv 4,15).
Dimoriamo in Dio perché siamo «figli di Dio per la fede in Gesù Cristo» (Gal 3,26) e partecipi del suo Spirito per la stessa fede (cf Gal 3,14).
Questo senso trinitario della vita cristiana è espresso dalla giustificazione e salvezza che la fede opera nel credente:
- «Giustificati per la fede» (Rm 5,1; cfr. At 13,29; Rm 3,21‑31; 4,1‑6; 10,4; 13,22; Gal 2,16; 3,24‑26);
- «Salvati per grazia mediante la fede» (Ef 2,8; cfr. Lc 7,50; Mc 16,16; At 16,31; Rm 10,9).
La conversione causata dalla fede, quale rinunzia a ogni autosufficienza e autogiustificazione per affidarsi totalmente all'azione salvifica che Dio compie in noi per mezzo di Gesù Cristo, diviene anche conversione ontologica.
Nella fede, infatti, c'è la vita. Vita nuova, vita eterna: «Chi crede... ha la vita eterna, ...è passato dalla morte alla vita» (Gv 5,24; cfr. 3,16; 11,25‑26; Rm 1,17; Gal 3,11).
La fede, portatrice di vita, è suscitata in noi dal Vangelo, in cui l'evento Cristo si fa parola e quindi annuncio e kerigma[1]:
«La fede dipende dalla predicazione e la predicazione a sua volta si attua per la parola di Cristo» (Rm 10,17)[2].
Tutto ciò va riconosciuto e affermato di Gesù che annuncia ed è annunciato. E' questo il dichiarato motivo per cui Giovanni ha scritto il suo vangelo «perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio e perché, credendo, abbiate vita nel suo nome» (Gv 30,31).
Se poi dallo stesso Giovanni «il possesso della vita viene attribuito anche all'eucaristia (Gv 6, 54‑58) e all'amore del prossimo (1Gv 3,14), non è perché eucaristia e amore del prossimo siano vie accanto alla fede, ma perché sono atti che possono essere compiuti in senso pieno solo nella fede»[3].
Questa precisazione fatta per l'eucaristia vale per tutti i sacramenti, che sono:
- segni efficaci della vita in Cristo in quanto sacramenti della fede;
- segni indivisibilmente legati alla fede e alla vita.
L'amore a sua volta è datore di vita in quanto carità, cioè fede che ama (Gal 5,6), amore che esprime il dinamismo salvifico della fede.
Carità della fede dunque. Ma anche fede che esprime la dinamica unitiva, comunionale della carità.
Elementi questi di un atteggiamento essenzialmente recettivo:
- in se stesso,
- in rapporto al suo oggetto.
In se stesso in quanto la fede è grazia. E' virtù donata, infusa. La fede non è il risultato di una dimostrazione o l'effetto di una prestazione.
Essa è opera dell'azione attraente del Padre[4], della mediazione rivelatrice del Figlio[5], dell'interiorizzazione illuminante dello Spirito Santo[6].
Tutto ciò non esime però gli uomini «dal cercare Dio, se mai arrivino a trovarlo andando come a tentoni» (At 17,27) e dal «cercare la giustificazione in Cristo» (Gal 2,17).
Nella fede, poi, sappiamo che questa ricerca è essa stessa fecondata dalla grazia, cioè dall'azione preveniente di Dio.
L'atto di fede è un atto eminentemente libero, cioè non necessitato, risposta a un evento che lo precede come chiamata.
Ascoltare
La risposta è ascolto della fede!
Il credente è anzitutto un uditore della parola di Gesù e su Gesù, che è Parola rivelatrice del mistero della salvezza.
Credere è ascoltare la Parola per aderirvi. «Coloro che ascoltavano la parola degli apostoli venivano alla fede» (cfr. At 4,4; 18,8).
La fede è conseguenza dell'ascolto (cf Lc 1,15) e non della visione (cfr. Gv 20,29).
Nel versetto «Chi vede me, vede il Padre» (Gv 14,9), è espressa l'idea che il veduto, cioè Cristo, il Verbo, è mediazione sacramentale, segno visibile[7].
Ciò che si vede in Cristo non è il Padre, «non è la sua parola, la sua espressione uguale, ma la sua realtà umana. Il Cristo è la Parola del Padre!»[8].
Così «l'uditore della parola è chiamato:
- alla fede che è causata dall'ascolto,
- alla fede che ha per oggetto ciò che non è stato ancora visto,
- alla fede che è, allo stesso tempo, anticipazione della visione, che tende al compimento escatologico»[9].
Il cristiano, chiamato alla fede mediante la parola del Vangelo (cf 1Ts 2,13), vi risponde accogliendola «con docilità» (Gc 1,21), quale parola di Dio «che opera in voi che credete» (1Ts 2,13).
Si può, infatti, dare anche un ascolto non accogliente e docile, ma distratto, superficiale, refrattario, proprio di quanti «pur udendo non odono e non comprendono» (Mt 13,13).
Gesù ha messo in evidenza tutto ciò nella parabola del seminatore, che sta a significare i diversi atteggiamenti dell'uomo nei confronti della parola e della sua fecondità (cf Mt 13, 4‑23).
Analogamente si dica del vedere accogliente della fede, che è in antitesi a quel guardare incapace di vedere (cf Mt 13, 13‑14) e a quell'osservare superficiale incapace di discernere e cogliere i segni di Dio e della sua presenza nella storia.
«Diceva (Gesù) alle folle: Quando vedete la nube salire da ponente, subito dite: "Viene la pioggia", e così accade. Ipocriti! Sapete giudicare l'aspetto della terra e del cielo, come mai questo tempo non sapete giudicarlo?» (Lc 12,54‑56).
Si tratta del tempo che è kairos, il tempo, cioè, della grazia e della salvezza, il tempo luminoso del giorno del Risorto, che si offre alla fede con cui l'uomo:
- opera la lettura degli eventi,
- penetra oltre il tempo pura durata e successione di episodi,
- coglie i significati profondi, la verità che va al di là del fenomeno, la dinamica salvifica, i segni della speranza.
I nostri occhi, dunque, mancano di Luce quando presumono di vedere Dio chiudendosi al 'tempo di grazia' (kairos).
Gesù, quando parla di tempo di grazia si riferisce certamente al tempo del suo evento non accolto. Tuttavia quell'evento penetra con la Pasqua nel tempo, dandogli spessore e significato, facendolo assurgere a tempo di grazia, invitando l’uomo a riconoscerlo e ad accoglierlo nella fede.
«Perché, aggiunge Gesù, non giudicate da voi stessi ciò che è giusto?» (Lc 12,57). Gesù, qui, mette in evidenza che l'atto di fede, con cui la libertà decide di sé e della realtà che lo circonda, non si può delegare e ad essa non ci si può sottrarre.
Pregare
Questo atto, che ingloba e dà forma a tutta l'esistenza credente, si esprime e acquista spessore nella preghiera, come «luogo» dell'incontro e della comunione dialogica con Dio, nelle forme dell'invocazione, dell'ascolto, della meditazione, del pentimento, della professione, dell'offerta, dell'affidamento, della domanda, della lode, del rendimento di grazie.
Non si dà fede senza preghiera, perché la fede acquista consistenza nella preghiera.
E' per questo che l'affievolirsi e l'estinguersi della preghiera segna l’inizio della crisi di fede.
Impossibile coltivare la fede in modo diverso!
Ci ha provato, inutilmente, il secolarismo cristiano!
La fede ha bisogno della preghiera, di una preghiera liberante perché liberata.
La preghiera deve essere il luogo di un'autentica esperienza di Dio in Gesù Cristo, a cui l'uomo della società tecnologica e informatica non è, malgrado tutto, meno sensibile e disponibile.
A quest’uomo non si può solo offrire ragionevoli motivi di credibilità della fede, ma è urgente insegnargli a scoprire la nella preghiera[10].
[1] Cf SCHLIER H., Per la vita cristiana, op. cit., p. 26).
[2] Cf SCHLIER H. Per la vita cristiana, op. cit., p. 27.
[3] Ivi.
[4] Cf VANHOYE A.; Notre foi, oeuvre divine d'après le quatrieme évangile in Nouvelle revue théologique, 96(1964), p. 354).
[5] Cf De Bovis A., Foi, op. cit, p. 549.
[6] Cf De Bovis A., Foi, op cit., pp. 549‑550.
[7] Cf Fries H., Teologia fondamentale, op. cit., pp. 97‑100.
[8] TRUTSCH J., L'uditore della parola di Dio, in Mysterium salutis, op. cit., vol. II p. 375. Nei debiti rapporti, lo stesso dicasi della Chiesa‑sacramento e dei sacramenti cf FRIES H., Teologia fondamentale, op. cit., pp. 100‑102.
[9] TRUTSCH J., L'uditore della parola, op. cit., p. 375.
[10] Sulla «preghiera come caso serio della fede» cf KASPER W., Introduzione alla fede, op. cit., pp. 95-102.
- a gloriarsi delle proprie opere,
- a non riporre la propria fiducia nelle prestazioni umane,
- ad affidarsi totalmente al dono salvifico di Dio in Cristo (cf 1Gv 4,16).
Gesù nel Vangelo esige tutto questo a causa della radicalità della sua chiamata: «Chi crede e sarà battezzato sarà salvo» (Mc 16,16); «Se non credete che io sono, morirete nei vostri peccati» (Gv 8,24).
L'esige la predicazione apostolica con la polarizzazione su «Gesù il Signore» (Rm 10,9; 1Cor 12,3) di tutta l'esistenza credente: «Se confesserai con la tua bocca che Gesù è il Signore, e crederai con il tuo cuore che Dio lo ha resuscitato dai morti, sarai salvo» (Rm 10,9; cf At 16,31).
E' «l'obbedienza della fede (Rm 16,26; cfr. Rm 1,5; 2Cor 10,5‑6) con la quale l'uomo si abbandona tutto a Dio liberamente, prestandogli "il pieno ossequio dell'intelletto e della volontà" e assentendo volontariamente alla rivelazione data da lui» (DV n. 5).
La conversione, che è obbedienza alla fede, è atto decisivo di tutto l'esistere cristiano. Essa, in continuità con l'âman veterotestamentario, il pisteuein neotestamentario, esprime e realizza non solo la conoscenza, ma l’essere: essere in Cristo (cf Ef 3,17).
Si tratta, è ovvio, di un conoscere in senso specificamente biblico e propriamente giovanneo, che esprime la relazione che unisce in modo profondo a Gesù, il figlio di Dio, e dà la capacità di «dimorare in Dio» (1Gv 4,15).
Dimoriamo in Dio perché siamo «figli di Dio per la fede in Gesù Cristo» (Gal 3,26) e partecipi del suo Spirito per la stessa fede (cf Gal 3,14).
Questo senso trinitario della vita cristiana è espresso dalla giustificazione e salvezza che la fede opera nel credente:
- «Giustificati per la fede» (Rm 5,1; cfr. At 13,29; Rm 3,21‑31; 4,1‑6; 10,4; 13,22; Gal 2,16; 3,24‑26);
- «Salvati per grazia mediante la fede» (Ef 2,8; cfr. Lc 7,50; Mc 16,16; At 16,31; Rm 10,9).
La conversione causata dalla fede, quale rinunzia a ogni autosufficienza e autogiustificazione per affidarsi totalmente all'azione salvifica che Dio compie in noi per mezzo di Gesù Cristo, diviene anche conversione ontologica.
Nella fede, infatti, c'è la vita. Vita nuova, vita eterna: «Chi crede... ha la vita eterna, ...è passato dalla morte alla vita» (Gv 5,24; cfr. 3,16; 11,25‑26; Rm 1,17; Gal 3,11).
La fede, portatrice di vita, è suscitata in noi dal Vangelo, in cui l'evento Cristo si fa parola e quindi annuncio e kerigma[1]:
«La fede dipende dalla predicazione e la predicazione a sua volta si attua per la parola di Cristo» (Rm 10,17)[2].
Tutto ciò va riconosciuto e affermato di Gesù che annuncia ed è annunciato. E' questo il dichiarato motivo per cui Giovanni ha scritto il suo vangelo «perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio e perché, credendo, abbiate vita nel suo nome» (Gv 30,31).
Se poi dallo stesso Giovanni «il possesso della vita viene attribuito anche all'eucaristia (Gv 6, 54‑58) e all'amore del prossimo (1Gv 3,14), non è perché eucaristia e amore del prossimo siano vie accanto alla fede, ma perché sono atti che possono essere compiuti in senso pieno solo nella fede»[3].
Questa precisazione fatta per l'eucaristia vale per tutti i sacramenti, che sono:
- segni efficaci della vita in Cristo in quanto sacramenti della fede;
- segni indivisibilmente legati alla fede e alla vita.
L'amore a sua volta è datore di vita in quanto carità, cioè fede che ama (Gal 5,6), amore che esprime il dinamismo salvifico della fede.
Carità della fede dunque. Ma anche fede che esprime la dinamica unitiva, comunionale della carità.
Elementi questi di un atteggiamento essenzialmente recettivo:
- in se stesso,
- in rapporto al suo oggetto.
In se stesso in quanto la fede è grazia. E' virtù donata, infusa. La fede non è il risultato di una dimostrazione o l'effetto di una prestazione.
Essa è opera dell'azione attraente del Padre[4], della mediazione rivelatrice del Figlio[5], dell'interiorizzazione illuminante dello Spirito Santo[6].
Tutto ciò non esime però gli uomini «dal cercare Dio, se mai arrivino a trovarlo andando come a tentoni» (At 17,27) e dal «cercare la giustificazione in Cristo» (Gal 2,17).
Nella fede, poi, sappiamo che questa ricerca è essa stessa fecondata dalla grazia, cioè dall'azione preveniente di Dio.
L'atto di fede è un atto eminentemente libero, cioè non necessitato, risposta a un evento che lo precede come chiamata.
Ascoltare
La risposta è ascolto della fede!
Il credente è anzitutto un uditore della parola di Gesù e su Gesù, che è Parola rivelatrice del mistero della salvezza.
Credere è ascoltare la Parola per aderirvi. «Coloro che ascoltavano la parola degli apostoli venivano alla fede» (cfr. At 4,4; 18,8).
La fede è conseguenza dell'ascolto (cf Lc 1,15) e non della visione (cfr. Gv 20,29).
Nel versetto «Chi vede me, vede il Padre» (Gv 14,9), è espressa l'idea che il veduto, cioè Cristo, il Verbo, è mediazione sacramentale, segno visibile[7].
Ciò che si vede in Cristo non è il Padre, «non è la sua parola, la sua espressione uguale, ma la sua realtà umana. Il Cristo è la Parola del Padre!»[8].
Così «l'uditore della parola è chiamato:
- alla fede che è causata dall'ascolto,
- alla fede che ha per oggetto ciò che non è stato ancora visto,
- alla fede che è, allo stesso tempo, anticipazione della visione, che tende al compimento escatologico»[9].
Il cristiano, chiamato alla fede mediante la parola del Vangelo (cf 1Ts 2,13), vi risponde accogliendola «con docilità» (Gc 1,21), quale parola di Dio «che opera in voi che credete» (1Ts 2,13).
Si può, infatti, dare anche un ascolto non accogliente e docile, ma distratto, superficiale, refrattario, proprio di quanti «pur udendo non odono e non comprendono» (Mt 13,13).
Gesù ha messo in evidenza tutto ciò nella parabola del seminatore, che sta a significare i diversi atteggiamenti dell'uomo nei confronti della parola e della sua fecondità (cf Mt 13, 4‑23).
Analogamente si dica del vedere accogliente della fede, che è in antitesi a quel guardare incapace di vedere (cf Mt 13, 13‑14) e a quell'osservare superficiale incapace di discernere e cogliere i segni di Dio e della sua presenza nella storia.
«Diceva (Gesù) alle folle: Quando vedete la nube salire da ponente, subito dite: "Viene la pioggia", e così accade. Ipocriti! Sapete giudicare l'aspetto della terra e del cielo, come mai questo tempo non sapete giudicarlo?» (Lc 12,54‑56).
Si tratta del tempo che è kairos, il tempo, cioè, della grazia e della salvezza, il tempo luminoso del giorno del Risorto, che si offre alla fede con cui l'uomo:
- opera la lettura degli eventi,
- penetra oltre il tempo pura durata e successione di episodi,
- coglie i significati profondi, la verità che va al di là del fenomeno, la dinamica salvifica, i segni della speranza.
I nostri occhi, dunque, mancano di Luce quando presumono di vedere Dio chiudendosi al 'tempo di grazia' (kairos).
Gesù, quando parla di tempo di grazia si riferisce certamente al tempo del suo evento non accolto. Tuttavia quell'evento penetra con la Pasqua nel tempo, dandogli spessore e significato, facendolo assurgere a tempo di grazia, invitando l’uomo a riconoscerlo e ad accoglierlo nella fede.
«Perché, aggiunge Gesù, non giudicate da voi stessi ciò che è giusto?» (Lc 12,57). Gesù, qui, mette in evidenza che l'atto di fede, con cui la libertà decide di sé e della realtà che lo circonda, non si può delegare e ad essa non ci si può sottrarre.
Pregare
Questo atto, che ingloba e dà forma a tutta l'esistenza credente, si esprime e acquista spessore nella preghiera, come «luogo» dell'incontro e della comunione dialogica con Dio, nelle forme dell'invocazione, dell'ascolto, della meditazione, del pentimento, della professione, dell'offerta, dell'affidamento, della domanda, della lode, del rendimento di grazie.
Non si dà fede senza preghiera, perché la fede acquista consistenza nella preghiera.
E' per questo che l'affievolirsi e l'estinguersi della preghiera segna l’inizio della crisi di fede.
Impossibile coltivare la fede in modo diverso!
Ci ha provato, inutilmente, il secolarismo cristiano!
La fede ha bisogno della preghiera, di una preghiera liberante perché liberata.
La preghiera deve essere il luogo di un'autentica esperienza di Dio in Gesù Cristo, a cui l'uomo della società tecnologica e informatica non è, malgrado tutto, meno sensibile e disponibile.
A quest’uomo non si può solo offrire ragionevoli motivi di credibilità della fede, ma è urgente insegnargli a scoprire la nella preghiera[10].
[1] Cf SCHLIER H., Per la vita cristiana, op. cit., p. 26).
[2] Cf SCHLIER H. Per la vita cristiana, op. cit., p. 27.
[3] Ivi.
[4] Cf VANHOYE A.; Notre foi, oeuvre divine d'après le quatrieme évangile in Nouvelle revue théologique, 96(1964), p. 354).
[5] Cf De Bovis A., Foi, op. cit, p. 549.
[6] Cf De Bovis A., Foi, op cit., pp. 549‑550.
[7] Cf Fries H., Teologia fondamentale, op. cit., pp. 97‑100.
[8] TRUTSCH J., L'uditore della parola di Dio, in Mysterium salutis, op. cit., vol. II p. 375. Nei debiti rapporti, lo stesso dicasi della Chiesa‑sacramento e dei sacramenti cf FRIES H., Teologia fondamentale, op. cit., pp. 100‑102.
[9] TRUTSCH J., L'uditore della parola, op. cit., p. 375.
[10] Sulla «preghiera come caso serio della fede» cf KASPER W., Introduzione alla fede, op. cit., pp. 95-102.
venerdì 7 marzo 2008
Prima meditazione
Il dialogo teologale della fede
1. Introduzione
I presupposti antropologici costituiscono il fondamento su cui la fede teologale può costruire il suo impianto.
La fede è grazia, che non solo non prescinde dall'umano, ma lo assume come momento imprescindibile del suo dinamismo elevante[1].
L'uomo è il destinatario della verità e della grazia, il partner di Dio nel dialogo della fede[2].
Un dono è tale non solo perché donato, ma anche perché accolto. La parola è tale non solo perché rivolta ma anche perché ascoltata.
Non c'è fede senza l'iniziativa donante di Dio, la quale esige la risposta accogliente dell'uomo.
La fede si colloca nel punto d'incontro tra la grazia di Dio e la libertà dell'uomo. E' il «luogo» in cui Dio incontra l'uomo e questi si lascia incontrare da Dio liberamente e responsabilmente.
La fede ha, pertanto, un'ineludibile valenza antropologica che la grazia non nega, ma assume ed eleva alle altezze teologali della comunione divina.
La fede esprime la dinamica dell'alleanza e della comunione con cui Dio unisce a sé l'uomo.
In tal modo l'uomo comprende la fede, iniziativa di Dio, come evento personalizzate. Non come qualcosa da prendere a «scatola chiusa», ma come un evento che coinvolge interamente l'uomo in libera adesione e fedeltà alla chiamata di Dio.
Sono così rispettate, da una parte, le possibilità di Dio (la grazia e la rivelazione), dall’altra la libertà.
E' in rapporto all'uomo che Dio si rivela, perché questi possa riconoscerlo come il 'Dio per noi'.
Riconoscendo se stesso nel 'per noi' di Dio, l'uomo conosce Dio.
2. La conoscenza di Dio
Dio è conosciuto, non alla maniera delle teodicee filosofiche, intente a scandagliare il suo in sé, ma nella rivelazione biblica.
Nella Rivelazione l'uomo si scopre essere il destinatario della parola e della grazia, che dà la verità al mistero del suo essere in rapporto all'essere donante di Dio.
Conoscendo se stesso nella luce della parola e della grazia, l'uomo conosce Dio.
Lo conosce nel modo in cui Dio si è dato a conoscere, attraverso i segni ed eventi, mediante i quali l'uomo può rapportasi a Dio.
Da ultimo, e in modo esclusivo, Dio si è rivelato attraverso la sua Parola eterna, fattasi evento storico in Gesù di Nazareth.
Il conoscere Dio pone una triplice scanzione:
- l'atto,
- il contenuto,
- la verità.
Vogliamo analizzare distintamente qui di seguito questi tre elementi.
3. La fede che crede: l'atto di fede
Nella fede è impegnato tutto l'uomo nel tentativo di dare senso e fondamento alla propria esistenza.
Nell'Antico Testamento credere consiste nel porre il proprio fondamento in Dio, cioè fondare in lui la propria vita.
Il verbo ebraico 'âman, che designa l'atto del credere, significa «poggiare su», «appoggiarsi a»; dunque «trovare fondamento in»; e perciò «essere saldo, fermo, sicuro».
Esprime, in sintesi, la stabilità e la sicurezza derivanti dall'appoggiarsi su qualcuno. Ciò comporta inevitabilmente il senso di abbandono e di fiducia[3].
In seguito all’esperienza di vanità, insicurezza e miseria della condizione umana (cf Sal 39, 5‑6), l'israelita si affida a Dio, confida totalmente in lui (cf Sal 16,1; 25,2), trovandovi stabilità e solidità: «Confido nel Signore (mi appoggio su Jahvé), non potrò vacillare» (Sal 26,1); «Lui solo è mia rupe e mia salvezza, mia roccia di difesa: non potrò vacillare» (Sal 62,3; cfr. 18,3‑4).
Dunque «chi crede non vacillerà» (Is 28,16). Al contrario, «se non crederete (se non vi appoggerete a Yahvè), non avrete stabilità» (Is 7,9).
Nel Nuovo Testamento si ottiene la stessa solidità in Dio con l'ascolto osservante delle parole di Gesù: «Chi ascolta le mie parole e le mette in pratica è simile a un uomo saggio che ha costruito la sua casa sulla roccia. Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ed essa non cadde, perché era fondata sopra la roccia» (Mt 7,24‑25).
Credere è prima di tutto «una questione ontologica: "essere o non essere", più che una questione epistemologica: sapere o ignorare»[4].
Credere è rispondere positivamente a Dio!
Un sì che coinvolge tutta l'esistenza, nell'atto di decidere di sé. L'uomo e Dio sono messi l’uno di fronte altro[5].
Atto radicale dell'uomo che ripone in Dio tutta la sua fiducia[6].
La fede consiste nel rapportarsi dell'uomo a Dio, sua verità. Verità che non è comprensibile attraverso uno sforzo dell’intelligenza, ma con il rendere continuativo il rapporto personale.
«La fede non è l'affermazione impersonale di una verità su Dio... bensì un evento personale»[7].
La fede è l'atto con cui il soggetto si relaziona e affida completamente a Dio.
E' la fede di Abramo, il padre dei credenti.
La fede dei patriarchi, di Mosè, dei sapienti, dei profeti.
Cristo e la fede
E' la fede di Gesù Cristo. Quella da lui testimoniata ed esigita.
Gesù, «autore e perfezionatore della fede» (Eb 12,2), ne è il primo e più autentico testimone. Credere è «esistere da fondati in Dio, affidare a lui la nostra intera persona e vivere per questa ragione»[8].
Gesù c'insegna che cosa sia una vita secondo la fede.
La fede cristiana è la fede di Cristo. Tutta la vita di Cristo è caratterizzata dal suo vivere di Dio, Padre suo, della sua parola, della sua volontà.
Gesù non è solo testimone della fede. In lui la fede diventa fede cristiana. La fede da lui esigita, infatti, non è il semplice prolungamento di quella veterotestamentaria. Il 'per noi', che rivela la realtà di Dio, è collegata, in modo ultimo e definitivo, alla sua persona.
Si tratta del 'per noi' del regno di Dio, che è in noi, vicino a noi, in mezzo a noi, e che prende corpo e consistenza nelle parole e nelle opere di Gesù (Lc 11,20).
La fede in Dio diventa fede in Gesù il Cristo, rivelatore e sacramento di Dio (cf Gv 3,11): «Abbiate fede in Dio e abbiate fede in me» (Gv 14,1), perché «chi vede me vede il Padre» (Gv 14,9); «Io e il Padre, infatti, siamo una cosa sola» (Gv 10,30); «Io sono nel Padre e il Padre è in me» (Gv 14,10). Per cui «chi crede a me non crede in me ma in colui che mi ha mandato» (Gv 12,44).
[1] «Gratia supponit naturam et perficit eam»: è l'espressione cattolica del rapporto tra natura e grazia (cf S. Th., I, q. I, art. 8). «La natura è un'attesa una potenza obbedienziale della grazia» (DELHAYE Ph., Rencontre de Dieu, op. cit., p. 17; cf anche pp. 7.19).
[2] Cf WELTE B., Che cosa è credere, op. cit., pp. 11‑17.
[3] Cf MARCONCINI B., Fede, in Nuovo dizionario di teologia biblica, Cinisello Balsamo 1988, p. 536.
[4] Cf DE BOVIS A., Foi, in Dictionnaire de spiritualité, ascétique et mystique, Parigi 1964, vol. V, p. 539.
[5] Cf FRIES H., Teologia fondamentale, op. cit., p. 82.
[6] KASPER W., Oltre la conoscenza. Riflessioni sulla fede cristiana, Brescia 1989, p. 55.
[7] DE BOVIS A., Foi, op. cit., p. 545.
[8] FRIES H., Teologia fondamentale, op. cit., p. 88.
1. Introduzione
I presupposti antropologici costituiscono il fondamento su cui la fede teologale può costruire il suo impianto.
La fede è grazia, che non solo non prescinde dall'umano, ma lo assume come momento imprescindibile del suo dinamismo elevante[1].
L'uomo è il destinatario della verità e della grazia, il partner di Dio nel dialogo della fede[2].
Un dono è tale non solo perché donato, ma anche perché accolto. La parola è tale non solo perché rivolta ma anche perché ascoltata.
Non c'è fede senza l'iniziativa donante di Dio, la quale esige la risposta accogliente dell'uomo.
La fede si colloca nel punto d'incontro tra la grazia di Dio e la libertà dell'uomo. E' il «luogo» in cui Dio incontra l'uomo e questi si lascia incontrare da Dio liberamente e responsabilmente.
La fede ha, pertanto, un'ineludibile valenza antropologica che la grazia non nega, ma assume ed eleva alle altezze teologali della comunione divina.
La fede esprime la dinamica dell'alleanza e della comunione con cui Dio unisce a sé l'uomo.
In tal modo l'uomo comprende la fede, iniziativa di Dio, come evento personalizzate. Non come qualcosa da prendere a «scatola chiusa», ma come un evento che coinvolge interamente l'uomo in libera adesione e fedeltà alla chiamata di Dio.
Sono così rispettate, da una parte, le possibilità di Dio (la grazia e la rivelazione), dall’altra la libertà.
E' in rapporto all'uomo che Dio si rivela, perché questi possa riconoscerlo come il 'Dio per noi'.
Riconoscendo se stesso nel 'per noi' di Dio, l'uomo conosce Dio.
2. La conoscenza di Dio
Dio è conosciuto, non alla maniera delle teodicee filosofiche, intente a scandagliare il suo in sé, ma nella rivelazione biblica.
Nella Rivelazione l'uomo si scopre essere il destinatario della parola e della grazia, che dà la verità al mistero del suo essere in rapporto all'essere donante di Dio.
Conoscendo se stesso nella luce della parola e della grazia, l'uomo conosce Dio.
Lo conosce nel modo in cui Dio si è dato a conoscere, attraverso i segni ed eventi, mediante i quali l'uomo può rapportasi a Dio.
Da ultimo, e in modo esclusivo, Dio si è rivelato attraverso la sua Parola eterna, fattasi evento storico in Gesù di Nazareth.
Il conoscere Dio pone una triplice scanzione:
- l'atto,
- il contenuto,
- la verità.
Vogliamo analizzare distintamente qui di seguito questi tre elementi.
3. La fede che crede: l'atto di fede
Nella fede è impegnato tutto l'uomo nel tentativo di dare senso e fondamento alla propria esistenza.
Nell'Antico Testamento credere consiste nel porre il proprio fondamento in Dio, cioè fondare in lui la propria vita.
Il verbo ebraico 'âman, che designa l'atto del credere, significa «poggiare su», «appoggiarsi a»; dunque «trovare fondamento in»; e perciò «essere saldo, fermo, sicuro».
Esprime, in sintesi, la stabilità e la sicurezza derivanti dall'appoggiarsi su qualcuno. Ciò comporta inevitabilmente il senso di abbandono e di fiducia[3].
In seguito all’esperienza di vanità, insicurezza e miseria della condizione umana (cf Sal 39, 5‑6), l'israelita si affida a Dio, confida totalmente in lui (cf Sal 16,1; 25,2), trovandovi stabilità e solidità: «Confido nel Signore (mi appoggio su Jahvé), non potrò vacillare» (Sal 26,1); «Lui solo è mia rupe e mia salvezza, mia roccia di difesa: non potrò vacillare» (Sal 62,3; cfr. 18,3‑4).
Dunque «chi crede non vacillerà» (Is 28,16). Al contrario, «se non crederete (se non vi appoggerete a Yahvè), non avrete stabilità» (Is 7,9).
Nel Nuovo Testamento si ottiene la stessa solidità in Dio con l'ascolto osservante delle parole di Gesù: «Chi ascolta le mie parole e le mette in pratica è simile a un uomo saggio che ha costruito la sua casa sulla roccia. Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ed essa non cadde, perché era fondata sopra la roccia» (Mt 7,24‑25).
Credere è prima di tutto «una questione ontologica: "essere o non essere", più che una questione epistemologica: sapere o ignorare»[4].
Credere è rispondere positivamente a Dio!
Un sì che coinvolge tutta l'esistenza, nell'atto di decidere di sé. L'uomo e Dio sono messi l’uno di fronte altro[5].
Atto radicale dell'uomo che ripone in Dio tutta la sua fiducia[6].
La fede consiste nel rapportarsi dell'uomo a Dio, sua verità. Verità che non è comprensibile attraverso uno sforzo dell’intelligenza, ma con il rendere continuativo il rapporto personale.
«La fede non è l'affermazione impersonale di una verità su Dio... bensì un evento personale»[7].
La fede è l'atto con cui il soggetto si relaziona e affida completamente a Dio.
E' la fede di Abramo, il padre dei credenti.
La fede dei patriarchi, di Mosè, dei sapienti, dei profeti.
Cristo e la fede
E' la fede di Gesù Cristo. Quella da lui testimoniata ed esigita.
Gesù, «autore e perfezionatore della fede» (Eb 12,2), ne è il primo e più autentico testimone. Credere è «esistere da fondati in Dio, affidare a lui la nostra intera persona e vivere per questa ragione»[8].
Gesù c'insegna che cosa sia una vita secondo la fede.
La fede cristiana è la fede di Cristo. Tutta la vita di Cristo è caratterizzata dal suo vivere di Dio, Padre suo, della sua parola, della sua volontà.
Gesù non è solo testimone della fede. In lui la fede diventa fede cristiana. La fede da lui esigita, infatti, non è il semplice prolungamento di quella veterotestamentaria. Il 'per noi', che rivela la realtà di Dio, è collegata, in modo ultimo e definitivo, alla sua persona.
Si tratta del 'per noi' del regno di Dio, che è in noi, vicino a noi, in mezzo a noi, e che prende corpo e consistenza nelle parole e nelle opere di Gesù (Lc 11,20).
La fede in Dio diventa fede in Gesù il Cristo, rivelatore e sacramento di Dio (cf Gv 3,11): «Abbiate fede in Dio e abbiate fede in me» (Gv 14,1), perché «chi vede me vede il Padre» (Gv 14,9); «Io e il Padre, infatti, siamo una cosa sola» (Gv 10,30); «Io sono nel Padre e il Padre è in me» (Gv 14,10). Per cui «chi crede a me non crede in me ma in colui che mi ha mandato» (Gv 12,44).
[1] «Gratia supponit naturam et perficit eam»: è l'espressione cattolica del rapporto tra natura e grazia (cf S. Th., I, q. I, art. 8). «La natura è un'attesa una potenza obbedienziale della grazia» (DELHAYE Ph., Rencontre de Dieu, op. cit., p. 17; cf anche pp. 7.19).
[2] Cf WELTE B., Che cosa è credere, op. cit., pp. 11‑17.
[3] Cf MARCONCINI B., Fede, in Nuovo dizionario di teologia biblica, Cinisello Balsamo 1988, p. 536.
[4] Cf DE BOVIS A., Foi, in Dictionnaire de spiritualité, ascétique et mystique, Parigi 1964, vol. V, p. 539.
[5] Cf FRIES H., Teologia fondamentale, op. cit., p. 82.
[6] KASPER W., Oltre la conoscenza. Riflessioni sulla fede cristiana, Brescia 1989, p. 55.
[7] DE BOVIS A., Foi, op. cit., p. 545.
[8] FRIES H., Teologia fondamentale, op. cit., p. 88.
giovedì 6 marzo 2008
Beata Rosa da Viterbo (1233 - 1251)
Nata a Viterbo nel 1233, da famiglia benestante, a 17 anni entrò nell’ordine delle terziarie dopo aver avuto una visione.
In questo periodo fece diversi pellegrinaggi e soprattutto una dura penitenza.
Mentre si faceva intensa la guerra tra Guelfi e Ghibellini insieme alla famiglia fu esiliata: tornò in patria dopo la morte di Federico II, ma la sua vita fu assai breve.
Sulla sua morte non si sa praticamente nulla solo che alcuni anni più tardi il suo corpo è stato ritrovato intatto.
Morì a Viterbo nel 1251.
mercoledì 5 marzo 2008
Sant'Adriano Martire
A Cesarea in Palestina, Sant’Adriano, martire, che, durante la persecuzione dell’imperatore Diocleziano, nel giorno in cui gli abitanti erano soliti celebrare la festa della Fortuna, per ordine del governatore Firmiliano, fu per la sua fede in Cristo dapprima gettato in pasto a un leone e poi sgozzato con la spada.
Subì il martirio con Eubulo il 5 marzo 309, «sesto anno della persecuzione», secondo la testimonianza di Eusebio. Essendo venuti ambedue a Cesarea in Palestina per aiutare i martiri di quella città, i due santi furono scoperti e, per aver confessato la loro fede, furono condannati alle belve.
Subì il martirio con Eubulo il 5 marzo 309, «sesto anno della persecuzione», secondo la testimonianza di Eusebio. Essendo venuti ambedue a Cesarea in Palestina per aiutare i martiri di quella città, i due santi furono scoperti e, per aver confessato la loro fede, furono condannati alle belve.
Adriano, dopo essere stato gettato in pasto ad un leone, fu finito con la spada.
Nei sinassari greci il giorno 7 o 8 maggio è celebrata la festa dei ss. mm. Eubulo e Giuliano, ma è chiaro, come ha acutamente osservato il Delehaye, che sotto questo secondo nome si nasconde una corruzione del nome di Adriano.
Qualche cosa di analogo è accaduto nel Martirologio Geronimiano, dove fra i santi ricordati il 5 marzo sono menzionati Adriano ed Euvolo, il cui nome appare corrotto nei codd. secondo la pronunzia bizantina.
martedì 4 marzo 2008
San Casimiro (1458 - 1484)
Nasce a Cracovia, nel 1458. Figlio del re di Polonia, appartenente alla dinastia degli Jagelloni, di origine lituana. Quando gli Ungheresi si ribellarono al loro re, Mattia Corvino, e offrirono al tredicenne principe Casimiro la corona, questi vi rinunciò appena seppe che il papa si era dichiarato contrario alla deposizione del regnante.
Impegnato in una politica di espansione, re Casimiro IV (1440-1492) diede al terzogenito l'incarico di reggente di Polonia e il principe, minato dalla tubercolosi, svolse il compito senza lasciarsi irretire dalle seduzioni del potere.
Non si piegò alle ragioni di Stato quando gli venne proposto dal padre il matrimonio con la figlia di Federico III, per allargare i già estesi confini del regno.
Il principe Casimiro non voleva venir meno al suo ideale ascetico di purezza per vantaggi materiali cui non ambiva.
Di straordinaria bellezza, ammirato e corteggiato, Casimiro aveva riservato il suo cuore alla Vergine.
Si spegne a 25 anni a Grodno (Lituania) il 4 marzo 1484.
Nel 1521 papa Leone X lo dichiarò patrono della Polonia e della Lituania.
lunedì 3 marzo 2008
Quarta meditazione
4.2. Questione di senso
La questione del senso, oggi, è divenuta il «luogo» della fede. Da sempre, quella del senso ha costituito la questione prioritaria e fondamentale per la coscienza umana, per la sua ineludibile domanda dalla cui risposta dipende la riconciliazione dell'uomo con la verità di se stesso e della realtà.
Nel passato, però, essa è stata percepita senza eccessivi problemi, perché la vita e il pensiero si svolgevano su uno sfondo socio‑culturale e su una base interpretativa prevalentemente e indiscutibilmente metafisica e religiosa.
La domanda di senso trovava, nella polarizzazione di tutto il pensiero al trascendente e nella comprensione religiosa e cristiana della vita, la sua ovvia risposta e la stessa fede non poneva problemi di legittimazione.
La fede non veniva assolutamente messa in discussione, essa, anzi, veniva colta come una componente essenziale del vivere.
Oggi la plausibilità s'è fatta debole e il credito è diventato discutibile.
La svolta antropologica del pensiero moderno e contemporaneo, che ha spostato e polarizzato sull'uomo il baricentro strutturale e interpretativo della realtà, ha acutizzata e resa problematica la questione del senso.
Essa è diventata una questione di fondo.
La svolta antropologica è stata determinata col contributo diverso e convergente, a partire da Cartesio, del razionalismo illuminista, idealista, positivista, marxista, storicista, esistenzialista, freudiana; e della cultura, da questi "partorita", scientista, tecnicista, pragmatista, secolarista, efficientista, sociologista, psicologista.
La svolta ha consacrato l'emancipazione dell'uomo[1], intesa e vissuta come:
- relativizzazione dell'autorità e della tradizione,
- autonomia della coscienza e della libertà,
- dominio strutturale del mondo,
- responsabilità per il futuro,
- signoria della storia,
- liberazione da bisogni primari.
Tutto questo ha indotto progressivamente l'uomo a comprendersi in rapporto esclusivo a se stesso, al proprio ingegno, che domina la realtà e arbitro del futuro[2].
Questo ha provocato un progressivo slittamento da una conoscenza metafisica, a una scienza fisica del reale.
La svolta antropologica, soprattutto nelle sue espressioni più radicali, si è posta in maniera alternativa alla comprensione teista.
L'uomo si è posto come padrone esclusivo di se stesso, delle sue possibilità teoretiche e tecniche.
In questo contesto la questione del senso, più che superata e risolta, viene rimossa o repressa. Per riemergere ed esplodere in modo più acuto come il «caso serio» dell'esistere umano.
Contrariamente a quanto tendeva a credere e a far credere l'ottimismo ingenuo dell’illuminismo[3], l'emancipazione autonomista della coscienza e della libertà, negatrice della metafisica che delegittima la fede, non solo non sopprime la questione del senso, ma la rende più acuta:
- nelle sue espressioni esistenziali: solitudine, paura, noia, ansia, angoscia, rivolta, nichilismo;
- nelle sue implicazioni storiche: ingiustizie planetarie, rischio nucleare, dissesti ecologici, libertà soffocate, demagogie ideologiche, guerre stellari, nuove malattie contagiose.
Per cui la perenne verità del senso, articolatasi da sempre attorno ai problemi del male, della sofferenza e della morte, viene a caricarsi di istanze nuove che ne acuiscono la questione.
Per questo il secondo illuminismo[4], più sobrio e realista, viene a raddoppiare il primo, relativizzandolo e in certo modo sconfessandolo nelle sue pretese onnicomprensive e riduttive di senso.
Ciò è evidente non solo negli esiti dell'esistenza, ma soprattutto negli esiti nichilisti della filosofia e letteratura dell'angoscia, che conclude affermando il non‑senso del nostro essere gettati nell'esistenza.
La tensione verso il senso è colta in negativo nella frustrazione che origina dalla considerazione del problema del nulla e dell'angoscia che procurano sensazioni di vuoto e di assurdità.
La critica del secondo illuminismo ha preso forma teorica e culturale nel ripensamento critico avviato dalla Scuola di Francoforte, denunciando il pensiero illuminista, il quale, nella pretesa di disporre di tutto, finisce col disporre dell'indisponibile[5].
Il postmoderno, in cui diciamo di essere transitati, è caratterizzato, sul piano socio‑culturale, dal crollo delle ideologie, i cui miti monopolizzavano i progetti di senso di intere masse.
Con la imprescindibile conseguenza:
1. di un vuoto di senso convulsamente provato e ampiamente surrogato. Si veda la cultura della droga, della violenza, dell'effimero... fino al demenziale elevato a scopo e proposta.
2. della domanda di senso più criticamente motivata:
- sia nei confronti della fede, della società e della politica;
- sia nei confronti di un secolarismo ambizioso, totalizzante, mistificante, incapace malgrado tutto di liberare l'uomo.
Al fondo della questione del senso c'è l'irriducibilità dell'essere umano al suo esserci e della coscienza ontologica a intelligenza oggettuale.
La questione di senso è espressione di una trascendenza ontologica ed epistemologica, costitutiva dell'essere e del conoscere umano.
E' per questo che ogni tentativo di liberazione umana, riduttiva della trascendenza dell'essere nell'esserci, è votato all'insuccesso.
L'uomo oggi è disilluso, perché la questione del senso rimane tutta, anzi si approfondisce e acuisce.
La questione del senso non può trovare risposta in nessun approccio parziale e materiale alla verità. Il senso, cioè, non può essere «fatto» dall'uomo, sarebbe sempre un senso parziale e penultimo, mentre per lui è fondamentale il tutto e l'ultimo.
«Il senso non si può dedurre dalla scienza.
Il volerselo dare in questo modo finisce con l'assomigliare all'assurdo e ridicolo tentativo intrapreso dal barone di Munchhausen, il quale si mise in testa di tirarsi fuori dalla palude tirandosi per i capelli.
Il senso vero, ossia il terreno su cui la nostra esistenza può realmente fondarsi, non può venir fabbricato artificialmente, ma può solo essere ricevuto dal di fuori»[6].
Nella questione di senso è in gioco tutto l'uomo:
- il suo essere come contraddizione del non essere,
- la sua vita come contraddizione della morte.
La questione di senso può essere anche definita questione di salvezza. La salvezza è possibile se c’è qualcuno che salva. L'auto‑salvezza è una pura contraddizione.
Il senso all'uomo può essere dato solo come dono.
Il dono del senso può pervenire all’uomo solo dalla fede che è capacità di accoglienza.
Il senso origina da due principi:
1. dalla coscienza del dover essere dell'essere umano, dalla costitutiva tensione all'Essere, colta come «nostalgia del totalmente Altro»[7].
2. dagli «adempimenti di senso immanente», che si evolve mettendo in fuga il non‑senso.
Allora «l'amore e la fedeltà, per fare due esempi, avrebbero ancora senso?
Si potrebbe ancora sostenere una distinzione tra giustizia e ingiustizia, tra verità e menzogna, tra libertà e schiavitù?...
Se tutto fosse affidato incondizionatamente e per sempre al nulla, e se questo fosse soltanto un nulla inutile, allora nessuna cosa avrebbe senso».[8]
Esso si offre all'uomo non come deduzione, prestazione o produzione, perché non sarebbe umanamente significativo, a come rivelazione, dono, grazia che l'uomo riceve e accoglie nella fede.
In un tempo critico per la fede, in cui l'uomo, per affermare la propria emancipazione, sostiene di poter prescindere da essa, la fede trova un campo nuovo di fecondazione[9].
E proprio quel campo che doveva costituire il suo superamento, ne diventa l'inedita richiesta.
La crisi sta a significare 'il tempo propizio' (kairos) per nuove possibilità.
Possibilità per la fede di poter rendere autentico il vissuto, di legittimare la dinamica che porta alla verità, di dare spessore alla verità che si fa annuncio.
Si tratta di nuove possibilità che si aprono fra i vuoti di un mondo in cui il desiderio dell'avere non è sinonimo di pienezza dell'essere o di significato.
[1] KANT I., ha parlato di «uscita degli uomini dalla minorità»: cfr. Risposta alla domanda: che cos'è l'illuminismo, in Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto, Torino 1965, pp. 141‑149.
[2] Cf RATZINGER J., Introduzione al cristianesimo, op. cit., pp. 28‑37. Della svolta antropologica in epoca moderna ho più ampiamente trattato in Dibattito culturale e teologico in atto e centralità dell'uomo. Quale prospettiva etica, in Presenza pastorale, 56 (1989), pp. 669‑671.
[3] Prendiamo qui illuminismo in senso ampio, come atteggiamento mentale che, a partire dalla corrente filosofica propriamente detta, investe tutte le determinazioni sopra menzionate del pensiero antropocentrico: cf KASPER W., Introduzione alla fede, op. cit., pp. 17ss.
[4] Cf KASPER W., Introduzione alla fede, op. cit., pp. 17ss.
[5] Cf HORKHEIMER M. – ADORNO T.W., Dialettica dell'illuminismo, Torino 1976.
[6] RATZINGER J., Introduzione al cristianesimo, op. cit., p. 41.
[7] HORKHEIMER M., La nostalgia del totalmente Altro, Brescia 1972.
[8] WELTE B., citato da FRIES H., Ivi, p. 37; cf anche della stesso autore: Che cosa è credere, op. cit., pp. 29‑48.
[9] Le «difficoltà non necessariamente sono di danno alla fede: possono anzi stimolare lo spirito a una più accurata e profonda intelligenza della fede» (GS n. 62).
La questione del senso, oggi, è divenuta il «luogo» della fede. Da sempre, quella del senso ha costituito la questione prioritaria e fondamentale per la coscienza umana, per la sua ineludibile domanda dalla cui risposta dipende la riconciliazione dell'uomo con la verità di se stesso e della realtà.
Nel passato, però, essa è stata percepita senza eccessivi problemi, perché la vita e il pensiero si svolgevano su uno sfondo socio‑culturale e su una base interpretativa prevalentemente e indiscutibilmente metafisica e religiosa.
La domanda di senso trovava, nella polarizzazione di tutto il pensiero al trascendente e nella comprensione religiosa e cristiana della vita, la sua ovvia risposta e la stessa fede non poneva problemi di legittimazione.
La fede non veniva assolutamente messa in discussione, essa, anzi, veniva colta come una componente essenziale del vivere.
Oggi la plausibilità s'è fatta debole e il credito è diventato discutibile.
La svolta antropologica del pensiero moderno e contemporaneo, che ha spostato e polarizzato sull'uomo il baricentro strutturale e interpretativo della realtà, ha acutizzata e resa problematica la questione del senso.
Essa è diventata una questione di fondo.
La svolta antropologica è stata determinata col contributo diverso e convergente, a partire da Cartesio, del razionalismo illuminista, idealista, positivista, marxista, storicista, esistenzialista, freudiana; e della cultura, da questi "partorita", scientista, tecnicista, pragmatista, secolarista, efficientista, sociologista, psicologista.
La svolta ha consacrato l'emancipazione dell'uomo[1], intesa e vissuta come:
- relativizzazione dell'autorità e della tradizione,
- autonomia della coscienza e della libertà,
- dominio strutturale del mondo,
- responsabilità per il futuro,
- signoria della storia,
- liberazione da bisogni primari.
Tutto questo ha indotto progressivamente l'uomo a comprendersi in rapporto esclusivo a se stesso, al proprio ingegno, che domina la realtà e arbitro del futuro[2].
Questo ha provocato un progressivo slittamento da una conoscenza metafisica, a una scienza fisica del reale.
La svolta antropologica, soprattutto nelle sue espressioni più radicali, si è posta in maniera alternativa alla comprensione teista.
L'uomo si è posto come padrone esclusivo di se stesso, delle sue possibilità teoretiche e tecniche.
In questo contesto la questione del senso, più che superata e risolta, viene rimossa o repressa. Per riemergere ed esplodere in modo più acuto come il «caso serio» dell'esistere umano.
Contrariamente a quanto tendeva a credere e a far credere l'ottimismo ingenuo dell’illuminismo[3], l'emancipazione autonomista della coscienza e della libertà, negatrice della metafisica che delegittima la fede, non solo non sopprime la questione del senso, ma la rende più acuta:
- nelle sue espressioni esistenziali: solitudine, paura, noia, ansia, angoscia, rivolta, nichilismo;
- nelle sue implicazioni storiche: ingiustizie planetarie, rischio nucleare, dissesti ecologici, libertà soffocate, demagogie ideologiche, guerre stellari, nuove malattie contagiose.
Per cui la perenne verità del senso, articolatasi da sempre attorno ai problemi del male, della sofferenza e della morte, viene a caricarsi di istanze nuove che ne acuiscono la questione.
Per questo il secondo illuminismo[4], più sobrio e realista, viene a raddoppiare il primo, relativizzandolo e in certo modo sconfessandolo nelle sue pretese onnicomprensive e riduttive di senso.
Ciò è evidente non solo negli esiti dell'esistenza, ma soprattutto negli esiti nichilisti della filosofia e letteratura dell'angoscia, che conclude affermando il non‑senso del nostro essere gettati nell'esistenza.
La tensione verso il senso è colta in negativo nella frustrazione che origina dalla considerazione del problema del nulla e dell'angoscia che procurano sensazioni di vuoto e di assurdità.
La critica del secondo illuminismo ha preso forma teorica e culturale nel ripensamento critico avviato dalla Scuola di Francoforte, denunciando il pensiero illuminista, il quale, nella pretesa di disporre di tutto, finisce col disporre dell'indisponibile[5].
Il postmoderno, in cui diciamo di essere transitati, è caratterizzato, sul piano socio‑culturale, dal crollo delle ideologie, i cui miti monopolizzavano i progetti di senso di intere masse.
Con la imprescindibile conseguenza:
1. di un vuoto di senso convulsamente provato e ampiamente surrogato. Si veda la cultura della droga, della violenza, dell'effimero... fino al demenziale elevato a scopo e proposta.
2. della domanda di senso più criticamente motivata:
- sia nei confronti della fede, della società e della politica;
- sia nei confronti di un secolarismo ambizioso, totalizzante, mistificante, incapace malgrado tutto di liberare l'uomo.
Al fondo della questione del senso c'è l'irriducibilità dell'essere umano al suo esserci e della coscienza ontologica a intelligenza oggettuale.
La questione di senso è espressione di una trascendenza ontologica ed epistemologica, costitutiva dell'essere e del conoscere umano.
E' per questo che ogni tentativo di liberazione umana, riduttiva della trascendenza dell'essere nell'esserci, è votato all'insuccesso.
L'uomo oggi è disilluso, perché la questione del senso rimane tutta, anzi si approfondisce e acuisce.
La questione del senso non può trovare risposta in nessun approccio parziale e materiale alla verità. Il senso, cioè, non può essere «fatto» dall'uomo, sarebbe sempre un senso parziale e penultimo, mentre per lui è fondamentale il tutto e l'ultimo.
«Il senso non si può dedurre dalla scienza.
Il volerselo dare in questo modo finisce con l'assomigliare all'assurdo e ridicolo tentativo intrapreso dal barone di Munchhausen, il quale si mise in testa di tirarsi fuori dalla palude tirandosi per i capelli.
Il senso vero, ossia il terreno su cui la nostra esistenza può realmente fondarsi, non può venir fabbricato artificialmente, ma può solo essere ricevuto dal di fuori»[6].
Nella questione di senso è in gioco tutto l'uomo:
- il suo essere come contraddizione del non essere,
- la sua vita come contraddizione della morte.
La questione di senso può essere anche definita questione di salvezza. La salvezza è possibile se c’è qualcuno che salva. L'auto‑salvezza è una pura contraddizione.
Il senso all'uomo può essere dato solo come dono.
Il dono del senso può pervenire all’uomo solo dalla fede che è capacità di accoglienza.
Il senso origina da due principi:
1. dalla coscienza del dover essere dell'essere umano, dalla costitutiva tensione all'Essere, colta come «nostalgia del totalmente Altro»[7].
2. dagli «adempimenti di senso immanente», che si evolve mettendo in fuga il non‑senso.
Allora «l'amore e la fedeltà, per fare due esempi, avrebbero ancora senso?
Si potrebbe ancora sostenere una distinzione tra giustizia e ingiustizia, tra verità e menzogna, tra libertà e schiavitù?...
Se tutto fosse affidato incondizionatamente e per sempre al nulla, e se questo fosse soltanto un nulla inutile, allora nessuna cosa avrebbe senso».[8]
Esso si offre all'uomo non come deduzione, prestazione o produzione, perché non sarebbe umanamente significativo, a come rivelazione, dono, grazia che l'uomo riceve e accoglie nella fede.
In un tempo critico per la fede, in cui l'uomo, per affermare la propria emancipazione, sostiene di poter prescindere da essa, la fede trova un campo nuovo di fecondazione[9].
E proprio quel campo che doveva costituire il suo superamento, ne diventa l'inedita richiesta.
La crisi sta a significare 'il tempo propizio' (kairos) per nuove possibilità.
Possibilità per la fede di poter rendere autentico il vissuto, di legittimare la dinamica che porta alla verità, di dare spessore alla verità che si fa annuncio.
Si tratta di nuove possibilità che si aprono fra i vuoti di un mondo in cui il desiderio dell'avere non è sinonimo di pienezza dell'essere o di significato.
[1] KANT I., ha parlato di «uscita degli uomini dalla minorità»: cfr. Risposta alla domanda: che cos'è l'illuminismo, in Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto, Torino 1965, pp. 141‑149.
[2] Cf RATZINGER J., Introduzione al cristianesimo, op. cit., pp. 28‑37. Della svolta antropologica in epoca moderna ho più ampiamente trattato in Dibattito culturale e teologico in atto e centralità dell'uomo. Quale prospettiva etica, in Presenza pastorale, 56 (1989), pp. 669‑671.
[3] Prendiamo qui illuminismo in senso ampio, come atteggiamento mentale che, a partire dalla corrente filosofica propriamente detta, investe tutte le determinazioni sopra menzionate del pensiero antropocentrico: cf KASPER W., Introduzione alla fede, op. cit., pp. 17ss.
[4] Cf KASPER W., Introduzione alla fede, op. cit., pp. 17ss.
[5] Cf HORKHEIMER M. – ADORNO T.W., Dialettica dell'illuminismo, Torino 1976.
[6] RATZINGER J., Introduzione al cristianesimo, op. cit., p. 41.
[7] HORKHEIMER M., La nostalgia del totalmente Altro, Brescia 1972.
[8] WELTE B., citato da FRIES H., Ivi, p. 37; cf anche della stesso autore: Che cosa è credere, op. cit., pp. 29‑48.
[9] Le «difficoltà non necessariamente sono di danno alla fede: possono anzi stimolare lo spirito a una più accurata e profonda intelligenza della fede» (GS n. 62).
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