3.2. Il problema della credibilità
Per Tommaso, «principale, e in qualche modo con valore di fine, in ogni atto di fede, è la persona alla cui parola si dà la propria adesione»[1].
Si tratta del problema della credibilità, il problema dell'attendibilità di colui in cui si crede. E’ evidente che non si può credere inopinatamente: si deve sapere in chi si ripone la propria fiducia.
La credibilità è condizione e presupposto della fede.
Ne segue che è necessario raggiungere un grado di conoscenza sufficiente sull’attendibilità, che ci consenta di fidarci in modo responsabile.
Non si tratta di una conoscenza concettuale, astratta, ma «una conoscenza ordinata a qualcosa di concreto. Non è neanche una conclusione logica da premesse evidenti, bensì una conoscenza intesa come sguardo d'insieme che comprende molte cose, valuta diversi indizi, riflette su parecchie indicazioni e segni, mira all'insieme»[2].
La fede in Dio partecipa di questa dinamica intersoggettiva, anzi ne è la massima espressione e realizzazione.
Infatti, se Dio non è l'Ente supremo del razionalismo oggettivista, ma il tu di una comunione possibile, si dà a conoscere, non nella necessità logica del pensare, ma nella libertà del credere[3].
Ora, la fede non parla di Dio alla terza persona, ma lo riconosce nella comunione incondizionata.
Per cui non solo le confessioni e le professioni di fede non prescindono dalla relazione di fede, né sussistono indipendentemente da essa, ma trovano nella relazione di fede le condizioni di verità.
La professione di fede è l'affiorare, sul piano della conoscenza e della testimonianza, della fiducia.
La fede confessionale non può prescindere dalla fiducia, pena il suo scadere nel volontarismo o nell’intellettualistico.
La fede in Dio è sempre espressa secondo la formulazione classica: credere Dio, credere a Dio e credere in Dio.
Questa formula esprime che la fede è professare Dio (credere Deum) sul fondamento della sua testimonianza (credere Deo), riconosciuta e accolta in una relazione di adesione fiduciosa (credere in Deum).
4. La questione del senso come «luogo» della fede
La fede è il modo più autentico di avvicinarsi all'esistenza. E' il modo di cogliere i significati profondi di essa. E' il modo di comprendere il significato ultimo della vita, quello che risponde all'interrogativo fondamentale
Significato che ingloba tutte le realtà: la libertà, il lavoro, l'amore, la felicità, il mondo, la società, il male, la sofferenza..., la morte[4]. In altre parole tutto ciò che attiene la ricerca di senso, questione del senso.
La coscienza, che è per se stessa ricerca di senso, non può sottrarsi alla ricerca del senso, non sarebbe più coscienza.
Ogni essere umano, infatti, prende posizione in rapporto al senso, opta per un senso[5].
4.1. L’atto del non credere
Nessun uomo, pertanto, può prescinde dalla fede, ognuno, però, crede a modo suo[6].
Anche la scelta di non credere è un modo di credere, un modo di decidersi nei confronti della verità profonda e ultima dell'esistere.
Si tratta dello stesso atto della libertà in rapporto alla stessa posta in gioco: la verità del senso.
L'atto di non credere ha la stessa valenza esistenziale e la stessa portata ontologica dell'atto di credere. E' un atto di libertà fondamentale che si chiude alla verità di fede, in modo esattamente inverso a quello che ad essa si apre.
Atto di trascendenza il primo, atto, per dirla con G. Marcel, di transdiscendenza il secondo. Entrambi colti in rapporto alla totalità della vita. Entrambi decisivi dell'orientamento di fondo del vivere[7].
[1] S. TOMMASO, S. Th., II‑II, q. 11, art. 1.
[2] Cf FRIES H., Teologia fondamentale, op. cit., p. 26.
[3] Cf COZZOLI M., L'uomo..., op. cit., pp. 175‑213.
[4] Cf GS n. 10.
[5] «Ogni uomo praticamente vive del suo progetto di senso»: KASPER W., Introduzione alla fede, op. cit., p. 37.
[6] Ivi, p. 88.
[7] FRIES H., Teologia fondamentale, op. cit., 42‑43.
sabato 1 marzo 2008
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