Fede e vita morale
Introduzione
La fede è l'elemento che rende autentica l'intera esistenza del credente. La fede, in Cristo, e per Cristo in Dio, è, allo stesso tempo, il modo di essere e il modo di agire.
La fede si esprime con l’agire. Il credente, cioè, è colui che «vive nella fede del Figlio di Dio» (Gal 2,20).
Ne segue che tutto il vissuto morale è sollecitato, motivato e intenzionato dalla fede.
In altre parole credere equivale a vivere moralmente.
Questo coinvolgimento della fede nell’agire morale:
- suscita la libertà della fede,
- ridisegna la morale come morale della fede,
- delinea il rapporto fede e morale come specifico della morale cristiana.
l. Libertà della fede
La fede si esprime nell’atto morale che l'uomo pone in piena libertà. Questa, pur essendo libertà di ascolto accogliente e fedele all'iniziativa della grazia, è pienamente evento di libertà, perché fa parte della decisione e della responsabilità morale, in relazione alla salvezza operata da Dio in Cristo.
La fede, in quanto opzione decisiva e qualificante tutta l'esistenza credente, coincide con la libertà fondamentale della persona.
Analizziamo la libertà morale della fede e il suo carattere fondamentale che chiama alla fedeltà.
1.1. La libertà morale della fede
La fede è virtù intellettiva che rende capaci di conoscere la verità divina. Non si tratta di un conoscere astratto, ma concreto e fattivo.
Un conoscere intuitivo e morale, in quanto coinvolge la persona nella sua libertà. E' un conoscere immanente alla libertà del credere[1].
Si tratta di una verità che rimane inefficace senza la libertà. Non perché la libertà sia artefice della verità, ma perché è essa ad accettarla e riconoscerla come tale.
La rivelazione storico-salvifico del mistero di Dio non si presenta come una verità registrabile da un conoscere reso valido per chiunque da un'indagine scientifica, a prescindere dal soggetto conoscente.
Esso è per l'uomo una chiamata.
«Vieni e vedi» (Gv 1,46; 1,39).
Senza il «venire» della libertà l'uomo non vede nulla, gli è preclusa ogni possibile verità.
Esempio di Abramo (Gn 12), di Samuele (1Sam 3,9.10), di Geremia (Ger 20,7), Maria (Lc 1,30..)
Paolo afferma che: «la giustizia di Dio si è manifestata per mezzo della fede in Gesù Cristo, per tutti quelli che credono nel suo nome» (Rm 3,21‑22; cf Rm 5,19): e «noi abbiamo creduto per essere giustificati dalla fede in Cristo» (Gal 2,16).
Si tratta della libertà radicale con la quale il cristiano risponde alla chiamata di Dio.
La fede diviene conoscitiva e credibile, costitutiva e salvifica nella libertà. La libertà, in altre parole, entra nello statuto epistemologico della fede: «L'atto di fede è per sua stessa natura un atto libero» (DH n. 10).
La fede è, a partire dalla libertà, l’elemento con cui il credente oltrepassa la logica dell'evidenza del sapere oggettuale e sperimentale. Essa si compie nella libera fiducia, adesione, partecipazione e comunione, elementi che ne connotano la logica.
La libertà, poi, si connota come decisione e responsabilità morale. Esse così si enucleano:
- decisione e responsabilità dell'uomo per la fede;
- decisione e responsabilità del cristiano nella fede.
1.1.1. Decisione e responsabilità per la fede
1. Parliamo, innanzitutto, di decisione e responsabilità per la fede, in quanto non ci si può aspettare di essere determinati da apodittici e cogenti motivi razionali per credere. Tanto meno si può legare la fede a motivi sentimentali ed emozionali.
Occorre assumere la fede all'interno del proprio essere e del proprio agire, poiché non si può rinchiudere la verità entro una razionalità scientifica e sperimentale.
In questo senso la libertà dell'uomo, di ogni uomo, ha in sé la responsabilità della fede.
Questa responsabilità assume oggi uno spessore socioculturale, perché il progresso scientifico e tecnico sta imponendo la sua logica. Il conoscere si è orientato sul fare e sull'avere, sull'efficienza e sull'utilità.
Questa situazione tende a condizionare le coscienze:
- distraendole, per cui si perde il senso del Trascendente;
- sviandole, per cui si perde la via di accesso col Trascendente.
Questo è un peccato: un peccato contro la fede che affonda le sue radici in precise responsabilità, diventando «peccato sociale» o, come si esprime l'enciclica Sollicitudo rei socialis, «struttura di peccato» (SRS n. 36).
Il rifiuto di credere non consiste nel negare l'esistenza di Dio, ma nella responsabilità di chiudersi alla verità di Dio e di Cristo, espressa con piena consapevolezza, condizionata dalle ideologie dominanti, o dalle tante contraddizioni e paradossi che caratterizzano l'esistenza umana attuale.
1.1.2. Decisione e responsabilità nella fede
2. In secondo luogo abbiamo la decisione e responsabilità nella fede, in quanto non si può fare della fede un fatto:
- di tradizione: familiare, ambientale, etnica, nazionale;
- di consuetudine: all'interno del proprio stile di vita.
Nel primo caso ci si ritrova ad essere naturalmente cristiani, senza che la fede diventi una scelta personale, significativa e coinvolgente. La fede resta ai margini o fuori del proprio vivere, relegata a momenti o a eventi circoscritti e parcellari. Diventa una sovrastruttura garantita dalla chiesa dei cui servizi ci si avvale in modo episodico e funzionale. E' il caso dei cosiddetti cristiani anagrafici in una società fortemente secolarizzata.
C'è, in questo caso, una responsabilità morale, perché ci si lascia vivere, non assumere la propria esistenza, ma la si inclina verso il fare e l'avere, l'utile e il dilettevole, l'indifferente e l'effimero. Per cui si diventa insensibili e refrattari all'interiorità e allo Spirito. Si resta alla superficie delle cose.
Nel secondo caso ci si sente e professa cristiani, ma la fede rimane un ambito esterno, superficiale, senza motivazioni profonde. Si tratta di una fede fortemente divisa tra celebrazione e azione, professione e testimonianza, ortodossia e ortoprassi. Una fede che non feconda il vissuto, non incide sulla realtà, non suscita la fedeltà, non chiama all'impegno evangelizzatore.
E' una fede statica e standardizzata. Si è come parcheggiati in essa. Una fede da «arrivati», piuttosto che da «viandanti». E' la fede di cristiani che si dicono praticanti, ma che non diventa quotidianità, si ferma sulla soglia della chiesa.
Anche in questo caso c'è una responsabilità morale.
Non basta dirsi cristiani, bisogna esserlo, assumendone la dinamica e accogliendone le implicanze. Occorre fare un'opzione permanente e agire di conseguenza.
Si tratta della responsabilità che ognuno deve acquisire all'interno della propria realtà e del proprio stato di vita.
Tutti, infatti, corrono il rischio dell'acquiescenza.
[1] «Alla sovrana gratuità della rivelazione e della salvezza corrisponde la libertà della fede (D 1525s (797s) 300 (1786) 3010 (1791); Conc. Vat. II, Declaratio de libertate religiosa n 10)» (ALFARO J., Fede, in Sacramentum mundi. Enciclopedia teologica, op. cit., vol. III, p. 741).
giovedì 13 marzo 2008
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