4. Sguardo storico
Questa coscienza neotestamentaria ha suscitato e indirizzato la tradizione ecclesiale, che si è concretizzata, lungo i secoli, in modo particolare nella riflessione teologica e nel magistero. Limitiamo la nostra indagine ad alcuni approfondimenti più significative e decisive dello sviluppo storico.
Partiamo dal kerigma post‑apostolico.
Nei primi Padri la continuità con l'insegnamento degli apostoli è evidente.
Esempio tipico è San Policarpo che, facendo riferimento all'insegnamento di Paolo ai Filippesi, addita ai cristiani lo sviluppo della vita cristiana come un progredire nella fede speranza e carità: «Paolo, quando si trovava in mezzo a voi, parlando di persona agli uomini del suo tempo, trasmise con sicurezza e con forza il messaggio di verità e, anche dopo la sua partenza, vi indirizzò lettere che vi edificheranno sempre di più nella fede ricevuta se le mediterete attentamente.
Vi faranno crescere in quella fede che è la nostra comune madre (Gal 4,26), cui segue la speranza che è preceduta dalla carità verso Dio, verso Cristo e verso il prossimo».
E aggiunge, significandone l'incidenza su tutta la vita morale: «Chi possiede queste virtù ha adempiuto il comandamento della giustizia, perché chi ha l'amore è lontano da ogni peccato»[1].
S. Agostino, interrogandosi sull'essenza della vita cristiana, risponde che essa consiste nel culto di Dio, il quale prende forma e consistenza nella triade teologale. Fede, speranza e carità sono espressioni di un'esistenza accolta come grazia e corrisposta come lode e gratitudine a Dio[2].
San Tommaso sviluppa in modo ampio e sistematico nella Summa Theologiae la riflessione sulle virtù teologali: nella prima e terza parte in modo diffuso, nella seconda in modo e specificamente Morale.
Tommaso argomenta essenzialmente a partire dalla destinazione del cristiano a una felicità che trascende la felicità naturale, dischiusa in lui dalla partecipazione alla vita divina, che non può essere partecipata con le sole forze umane.
Ne segue che Dio dona all'uomo «altri principi per i quali questi viene ordinato alla beatitudine soprannaturale, allo stesso modo in cui egli è ordinato al fine appropriato alla sua natura attraverso i principi naturali... Tali principi si chiamano virtù teologali»[3].
Il concilio di Trento ha connesso il dono della fede, della speranza e della carità alla giustificazione del peccatore, quale rigenerazione della vita divina nell'uomo: «Nessuno può essere giusto che per la comunicazione dei meriti della passione del nostro Signore Gesù Cristo.
Ciò si compie nella giustificazione del peccatore, così che per i meriti di questa santissima passione, grazie allo Spirito Santo, la carità di Dio è effusa nei cuori di coloro che sono giustificati e diventa loro inerente. Ne segue che nella stessa giustificazione, con la remissione dei peccati, l'uomo riceve nel contempo, per Gesù Cristo cui è inserito, questi doni infusi: la fede, la speranza e la carità»[4].
La riflessione teologica, pur rilevando l'essenziale importanza per la vita cristiana della fede, della speranza e della carità, è andata gradualmente perdendo la loro originaria dimensione misterica e personalista.
Da espressioni dinamiche dell'essere in Cristo, per sacramentale e ontologica conformazione a lui, sono diventate gradualmente delle qualità della grazia che informano le funzioni umane come potenze soprannaturali.
Nell'antropologia scolastica degli ultimi secoli, le virtù teologali inerivano accidentalmente, come potenze della grazia, alle nostre essenze o facoltà umane, che così diventavano atte all'agire soprannaturale.
La perdita della comprensione misterica e sacramentale ha significato anche la disattenzione all'antropologia ontologica e personalista.
Quella perdita e disattenzione hanno espropriato la fede, la speranza e la carità del loro valore ontologico e morale della vita cristiana.
Sono diventate più che altro dei doveri e degli atti di virtù.
Mentre esse sono i modi di essere strutturali e dinamici della vita cristiana, da ricoscientizzare e riaccreditare in tutta fedeltà all'antropologia misterica e sacramentale delle origini apostoliche e patristiche e alla teologia personalista del concilio Vaticano II[5].
Per il concilio Vaticano II fede, speranza e carità sono espressione ecclesiale e personale della vita cristiana.
- Espressione costitutiva della Chiesa: «Cristo... ha costituito sulla terra la sua Chiesa santa comunità di fede, di speranza e di carità» (LG n. 8).
- Espressione finalizzatrice della sua missione, «affinché per l'annuncio della salvezza il mondo intero ascoltando creda, credendo speri, sperando ami» (DV n.1).
- Espressione costitutiva e dinamica della vita dei fedeli, nella specificità degli stati di vita: come quelli dei laici in generale (AA n. 4) e dei catecumeni e degli sposi in particolare (GS n. 48).
[1] S. POLICARPO, Lettera ai Filippesi, 3, 1-5, 2.
[2] Cf S: AGOSTINO, Enchiridion ad Laurentium seu de fide, spe et charitate, PL 40, 231-290.
[3] S: TOMMASO, Summa Theologiae, I-II, q. 62, a. 1.
[4] Concilio di Trento, sessione 6, Decretum de iustificatione, 7, in DS 800.
[5] Cf CAPONE D., La vita in Cristo: vita di fede-carità-speranza in Dio (pro manuscripto), Pontificia Università Lateranense, Roma 1969, 26-35.
domenica 24 febbraio 2008
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