martedì 18 marzo 2008

Terza Meditazione

2. Morale della fede

La fede è virtù che dà spessore alla libertà e, in subordine, all'agire morale. Detto agire viene conformato dalle attitudini proprie della virtù della fede, che qui di seguito vogliamo evidenziare nella loro specificità morale.

2.1. Fedeltà

Il cristiano, soggetto della fede, è il «fedele» (At 10,45; 2Cor 6,15; Ef 1,1). La fedeltà è il segno della fiducia con cui si accoglie la fede, espressione della fedeltà di Dio all'alleanza (cf Dt 7,9; 2Cor 1,20), al suo amore per noi, per cui il cristiano vive la sua vita di fede.
La fedeltà è la fede che plasma e attiva in modo operativo la libertà cristiana.
Si tratta, sicuramente, della fedeltà a Dio, ma che coinvolge la libertà del credente nella sua responsabilità. Ne segue che tutta la vita morale è vissuta nel segno della fedeltà.
Non solo i doveri direttamente religiosi e di preghiera, ma anche quelli concernenti altri ambiti del vivere morale, come la società, la politica, l'economia, la comunicazione, la famiglia, la vita fisica, la sessualità.
1. Ciò significa, in primo luogo, che il cristiano non vive la vita morale separatamente dalla vita di fede, ma trova in questa il centro unificatore.
La vita morale è vita di fede, esprime, cioè, la fedeltà credente, per la quale il cristiano professa la sua fede mediante la fedeltà del proprio agire.

2. In secondo luogo, vivere la vita morale come fedeltà della fede, significa che il cristiano non subisce il dovere morale come imposizione eteronoma, ma lo accoglie come esigenza e compito di fedeltà.
Principi, precetti e norme di vita morale non sono prescrizioni di un Dio legislatore e giudice che detta all'uomo le condizioni salvifiche, ma espressioni della fedeltà a Dio.
La fedeltà a Dio è esigente: non è un «dire Signore, Signore», ma è fare la volontà del Padre (Mt 7,21; Lc 6,46).
Non è formale e generica ma operativa e concreta: «Chi dice "Lo conosco" e non osserva i suoi comandamenti, è bugiardo, e la verità non è in lui; ma chi osserva la sua parola, in lui l'amore di Dio è veramente perfetto» (1Gv 2,3‑4; cfr. Gv 14,15.21.23‑24; 15,10; Lc 11,28).
Il peccato, viceversa, è un atto non conforme alla legge, è un atto di infedeltà, che distrugge l'essere in Cristo e la comunione ecclesiale.

2.2. Risposta

Il cristiano vive la fedeltà morale come risposta a Dio. La relazione di fede si configura come un rapporto dialogico, vocazionale tra l'iniziativa della grazia e la risposta della libertà.
La fede, essendo virtù teologale, è dono di Dio. Non è una virtù acquisita, ma infusa dalla grazia. Per questo la libertà con cui l'uomo riconosce l'iniziativa divina, ne ascolta l'appello e si dispone a rispondere liberamente, svolge un ruolo essenziale: è risposta dell'uomo alla chiamata di Dio[1].
La fede «è la risposta dell'uomo alla radicale gratuità dell'intervento salvifico di Dio»[2]. E' una risposta che lo coinvolge in libertà di ascolto e di sequela.
Non si tratta di un ascolto distaccato e neutrale, ma coinvolgente e operante: «siate non soltanto ascoltatori ma operatori della parola» (Gc 1,22).
«Un credere attivo che non si limita semplicemente ad ascoltare il vangelo e a ritenerlo vero, ma modella la sua vita secondo le sue esigenze»[3].
Sono le esigenze espresse dalla sequela di Cristo, che devono modellare la vita del cristiano.
La morale della fede è una morale della risposta. Risposta che è obbedienza alla legge morale, vissuta come lode e gratitudine a Dio.
Il peccato, al contrario, è il non ascolto o ascolto distratto o refrattario della Parola, ascolto che non si fa sequela.

2.3. Obbedienza

La fede che chiama alla risposta operativa è «qualcosa di più ancora che una semplice "visione del mondo".
L'ascolto della fede è un udire che penetra e assimila la parola. Paolo a proposito afferma: «Ricevendo la parola divina della predicazione, l'avete accolta non come parola di uomini, ma come è veramente, quale parola di Dio, che opera in voi che credete» (1Ts 2,13).
La libertà, permeata e compenetrata dalla parola viene indirizzata verso la norma da essa delineata. Si tratta del dinamismo dell'obbedienza all'ascolto. Dell'ascolto che diventa obbedienza di fede (Rm 1,5; 16,26; 10,16; At 6,7).
Ipotesi confermata da «Paolo che chiama l'incredulità (Rm 3,3; 4,20; 11,20.23) disobbedienza (Rm 11,30.32; Ef 2,2; 5,6), per cui "non credere" (Rm 3,3) equivale a "essere disobbediente" (Rm 11,30.31). Gli "infedeli" (1Cor 6,6; 7,12.14.15; 10,27 e altri) sono coloro che sono "disobbedienti" (Rm 15,31)»[4].
«Obbedire è permettere al vangelo, liberamente accettato, di esprimere la sua forza trasformante nell'uomo, è un lasciarsi condurre in tutta la vita, rifiutando il padrone concorrente che è il peccato. "Non sapete che se vi fate schiavi, obbedendo, di qualcuno siete schiavi di quello a cui obbedite, sia del peccato per la morte, sia dell'obbedienza per la giustificazione?" (Rm 6,16)...
L'espressione "obbedienza della fede", obbedienza che "consiste e si realizza nella fede" e fa dei cristiani i figli dell'obbedienza (1Pt 1,14) al di là di una semplice espressione speculativa, afferma l'accettazione del vangelo con la mente, la volontà e il cuore, cosicché tutta la vita ne è interessata.
L'espressione paolina trova un parallelo in Giovanni, quando Gesù invita ad osservare i suoi comandamenti come egli ha osservato i comandamenti del Padre (cf Gv 15,10)»[5].
[1] «La fede ha origine dalla chiamata del Cristo e quindi sorge dall'ascolto: fides ex auditu. Essa però è un ascolto qualificato corrispondente alla chiamata» TRUTSCH J., Intelligenza teologica della fede, op. cit., p. 438).
[2] ALFARO J., Fede, op. cit., p. 745.
[3] PFAMMATTER J., La fede secondo la Sacra Scrittura, op. cit., p. 384.
[4] Ivi, p. 34.
[5] MARCONCINI B., Fede, in NDTB, op. cit., pp. 540‑541.

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