domenica 10 febbraio 2008

Seconda meditazione

2.3. Vita eterna

La vita teologale, in quanto vita nuova in Cristo e per l'opera dello Spirito Santo, è vita eterna.
Vita eterna non vuol dire "vita dopo la morte", ma, secondo il significato giovanneo, vuol dire: vita divina partecipata nel tempo all'uomo che accoglie il Figlio e la sua parola (cf Gv 3,36; 4,14; 5,24; 6,40.47.54). Dono di Gesù richiesto al Padre per i suoi (cf Gv 17,2). «Questa è la vita eterna: conoscere te, l'unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo» (Gv 17,3).
Il verbo "conoscere" per Giovanni non sta a significare una conoscenza speculativa di Dio e di Gesù Cristo, ma si tratta di conoscenza secondo il senso biblico e sta a significare una relazione esistenziale, una esperienza concreta.
Per la Bibbia «conoscere qualcuno significa entrare in relazione personale con lui»[1].
"Vita eterna", quindi, indica un conoscere che crea comunione, che rivela sé all'altro.
Si tratta della comunione d'amore che lega Cristo ai suoi, la quale riproduce, attuandolo e rendendolo partecipazione, l'amore che sussiste tra Cristo e il Padre: «Io conosco i miei e i miei conoscono me, come il Padre conosce me e io conosco il Padre» (Gv 10,14)[2].
Conoscenza di reciproca inerenza: «Io sono nel Padre e voi in me e io in voi» (Gv 14,20).
Cristo rivela ai suoi il nome del Padre, «Io ho fatto conoscere loro il tuo nome» (Gv 17,6.26), non per dare un'idea concettuale di Dio, ma per comunicare loro il suo amore: «Perché l'amore con il quale mi hai amato sia in essi e io in loro» (Gv 17,26).
Il cristiano, dunque, conosce Dio allo stesso modo con cui lo conosce Cristo stesso, cioè, non razionalmente ma nel modo dell'amore.
Questa conoscenza di amore corrisponde alla vita eterna, cioè partecipazione alla pienezza di vita di Dio.
Cristo, infatti, ha condiviso la condizione umana per rendere l'uomo partecipe della condizione divina: «Io sono venuto perché abbiano la vita e l'abbiano in abbondanza» (Gv 10,10).
Si tratta del meraviglioso scambio (admirabile commercium) di cui parlano i Padri e che viene proclamato dalla liturgia nella veglia pasquale[3].
Dio, cioè, in Cristo ha assunto la nostra natura umana perché noi ricevessimo la sua natura divina[4].
In Cristo infatti «abita la pienezza della divinità, corporalmente; e in lui noi siamo riempiti» (Col 2,9‑10): «dalla sua pienezza noi abbiamo ricevuto e grazia su grazia» (Gv 1,16).
La vita eterna è la condizione presente dell'essere e dell'esistere cristiano. E' la partecipazione alla pienezza di vita di Dio che si offre a noi nell'umanità sacramentale del Cristo.
In ciò è messa in evidenza l'integralità del dono divino fatto all'uomo. In altre parole Dio si comunica totalmente all'uomo è l’uomo ne è radicalmente coinvolto.
Il dono di Dio, però, non si giustappone all'umano, quasi che esso cominci dove finisce questo. Esso assume l’umano e lo eleva al soprannaturale. Non lo sminuisce.
D'altra parte, nelle condizioni di spazio e di tempo in cui la vita divina viene donata all'uomo, la pienezza di Dio non può annullare il limite e nemmeno rifulgere in tutto il suo splendore.
Ciò vuol dire che la piena la partecipazione dell’uomo alla vita divina raggiunge la sua pienezza nell’escatologia.
Essa si presenta come anticipazione, protesa, però, alla sua piena attuazione in Dio, al di là del limite, anche della morte.
Ne segue che la vita divina resta sempre «nascosta con Cristo in Dio» (Col 3,3), soggetta, cioè, a momenti di kenosi, di debolezza, di abbandono, di tentazione, di sofferenza, e infine soggetta alla morte.
Nel tempo presente essa assume la forma della kenosi e della croce.
Sarà manifestata e resa gloriosa solo nella parusia: «Quando si manifesterà Cristo, la vostra vita, allora anche voi sarete manifestati con lui nella gloria» (Col 3,4).

2.4. Vita trinitaria

La vita teologale, in quanto partecipazione alla vita di Dio in Cristo per lo Spirito, è vita trinitaria.
E', cioè, ontologica conformazione a Cristo, di cui si condivide la dignità filiale, si è figli nel Figlio.
Di fatti, «Dio mandò il suo Figlio nel mondo... perché ricevessimo l'adozione a figli» (Gal 4, 4‑5; cf Ef 1,5).
L'adozione filiale si opera in noi per mezzo dello Spirito Santo che, costituendoci figli, ci rapporta a Dio come a nostro Padre: «Che voi siete figli ne è prova il fatto che Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del Figlio suo che grida: "Abbà, Padre!". Quindi non sei più schiavo ma figlio; e se figlio, sei anche erede per volontà di Dio» (Gal 4, 6‑7; cf Rm 8, 15‑17).
Il cristiano, in forza del dono dello Spirito Santo, entra in rapporto con Dio nella identica relazione con cui Cristo è con il Padre, cioè nella relazione filiale. Naturalmente Cristo come figlio unigenito, coeterno al Padre, il cristiano come figlio adottivo ed erede.
Questa è comunione trinitaria, cioè:
- comunione con Cristo, il cui Spirito ci conforma a lui donandoci la dignità filiale (Rm 8,16);
- comunione con il Padre che effonde in noi il suo amore (Rm 5,5), abilitandoci a rispondere con lo stesso amore del Figlio.

Lo Spirito Santo, Amore del Padre e del Figlio, diventa in noi principio e vincolo di comunione trinitaria: «La nostra comunione è con il Padre e con il Figlio suo Gesù Cristo» (1Gv 1,3).
La «comunione dello Spirito Santo» (2Cor 13,13) del Padre e del Figlio è la stessa comunione che noi possiamo intrecciare con il Padre e il Figlio. Comunione che trasforma la vita teologale in vita trinitaria.
[1] Cf CARBON J. – VANHOYE A., Conoscere, in Dizionario di teologia biblica (a cura di LEON-DUFOUR X.), Torino 1967, 172.
[2] Il nome in senso biblico non è una identificazione formale-convenzionale, ma sostanziale e costitutiva: esso significa realmente la persona, il suo essere proprio. Per cui far conoscere il nome è manifestare e comunicare la persona.
[3] L’espressione è di origine patristica ed è ricorrente nella liturgia del tempo natalizio, testualmente nella prima antifona ai salmi dei Vespri della solennità di Maria Madre di Dio: cf Lettera a Diogneto, IX, 5, in MIGNE J.P. (ed.), Patrologia Graeca, 161, voll., Parigi 1857-1866 (abb. PG), 2, 1182; MOHLBERG C.L., Sacramentarium veronense, XVII, XXII, Roma 1978, 555.
[4] Il Figlio di Dio «si è fatto figlio dell’uomo perché noi potessimo divenire figli di Dio» (S. Leone Magno, Sermo 25, PL, 217, 54, 213).

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